Nel
settembre 1866 una insurrezione popolare sconvolse la città di Palermo e
i comuni del suo hinterland, colpendo i centri del potere
amministrativo, politico e militare. Le modalità di svolgimento furono
assai simili a quelle dei moti anti-borbonici dei decenni precedenti e
molti capisquadra erano gli stessi che nel 1860 avevano portato alla
vittoria la spedizione dei Mille. In questo caso, però, la controparte era costituita dal neonato Regno d’Italia a guida sabauda.
Gli osservatori di parte governativa attribuirono la rivolta del “Sette e Mezzo” ad un “episodio di delinquenza collettiva”, mentre la Commissione parlamentare d’inchiesta e la maggior parte degli storici hanno sottolineato la crisi di fiducia tra governati e governanti, la leva obbligatoria, i rastrellamenti militari per catturare disertori e renitenti, la soppressione delle corporazioni religiose e l’incameramento dei loro beni, la gestione dell’ordine pubblico che confondeva artatamente delinquenza comune e opposizione politica.
In una società ad alto livello di “democratizzazione della violenza”, il moto popolare fu preparato da un gruppo di repubblicani radicali in rotta con i moderati e con Mazzini, guidato prima dal generale garibaldino Corrao e poi da Giuseppe Badia, cui diedero manforte esponenti clericali e filo-borbonici in cerca di rivincita. Il carattere ibrido della direzione politica, il mancato collegamento col resto dell’Isola e l’approdo in città di 40.000 soldati con fucili e cannoni, facilitarono l’azione repressiva guidata dal generale Raffaele Cadorna, con la dichiarazione dello stato d’assedio, arresti di massa e tribunali speciali.
Gli osservatori di parte governativa attribuirono la rivolta del “Sette e Mezzo” ad un “episodio di delinquenza collettiva”, mentre la Commissione parlamentare d’inchiesta e la maggior parte degli storici hanno sottolineato la crisi di fiducia tra governati e governanti, la leva obbligatoria, i rastrellamenti militari per catturare disertori e renitenti, la soppressione delle corporazioni religiose e l’incameramento dei loro beni, la gestione dell’ordine pubblico che confondeva artatamente delinquenza comune e opposizione politica.
In una società ad alto livello di “democratizzazione della violenza”, il moto popolare fu preparato da un gruppo di repubblicani radicali in rotta con i moderati e con Mazzini, guidato prima dal generale garibaldino Corrao e poi da Giuseppe Badia, cui diedero manforte esponenti clericali e filo-borbonici in cerca di rivincita. Il carattere ibrido della direzione politica, il mancato collegamento col resto dell’Isola e l’approdo in città di 40.000 soldati con fucili e cannoni, facilitarono l’azione repressiva guidata dal generale Raffaele Cadorna, con la dichiarazione dello stato d’assedio, arresti di massa e tribunali speciali.
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