Dal Libro rosso di C.G.Jung
"Ciò di cui non
si può parlare, bisogna dipingerlo". E' una tesi di
Wittgenstein condivisa da Jung per il quale linguaggio della psiche è
fatto di immagini simboliche. Il simbolo come espressione del non
dicibile.
Silvia Ronchey
Forever Jung
Dove nasce la
raffigurazione di ciò che non è raffigurabile? Che si tratti di dio
o dell' inconscio, di ciò che non pertiene al mondo dei fenomeni ma
a quello della psiche o anzi dell' anima, per usare una parola
classica che Carl Gustav Jung e ancora più James Hillman hanno
restituito alla psicologia analitica? E d' altronde, esiste qualcos'
altro che valga la pena raffigurare? Quella che chiamiamo
raffigurazione, immagine, figura, raffigura veramente qualcosa?
Raffigura, per meglio dire, qualcosa di vero?
Sono queste domande a
sfiorare, o anzi a travolgere, chi sfoglia la raccolta delle opere d'
arte di Jung, ora pubblicata in volume in America e in Italia a cura
della Foundation of the Works of C.G. Jung ( L' arte di C. G. Jung,
Bollati Boringhieri). Una sequenza di più di cento opere, molte
inedite, altre inserite a loro tempo in saggi come il Simbolismo del
mandala o il Systema mundi totius, o esposte nella casa di Küsnacht
o nel ritiro di Bollingen, o regalate agli amici, ma deliberatamente
mantenute anonime.
La loro ricerca,
classificazione e progressiva divulgazione è avvenuta, negli anni
Novanta, parallelamente all' opera di riproduzione e poi di edizione
del Libro rosso. Anche in questa raccolta di immagini - peraltro non
esaustiva, visto che molte delle opere menzionate nei Ricordi, o
sicuramente esistenti secondo altre fonti, non sono state ancora
ritrovate - scorgiamo Jung protendersi nell' indicibile,
perlustrandolo fino al delirio. Ma a differenza di quel grande
in-folio rilegato in marocchino purpureo, in cui come un monaco
medievale andò deponendo gli esercizi neogotici della sua
calligrafia e i pigmenti rubescenti dei suoi mandala, istoriando
laboriosamente le sue ombre o celandole in iniziali miniate, questo
materiale visivo non ha una destinazione unica.
Ancora più erraticamente
esplora l' interrogativo iniziale della nostra filosofia, la
rappresentazione dell' irrappresentabile, in un corpus multiforme
composto non solo da disegni - a grafite, a pastello, a inchiostro -
e dipinti - acquerelli, guazzi su carta o pergamena - ma anche da
sculture. L' atto dello scolpire aveva per Jung, dichiaratamente,
"una valenza meditativa": "Il gioco della costruzione
era solo un principio, dava libero corso a una fiumana di fantasie",
innescando quell' immaginazione attiva che era uno dei capisaldi
della sua metodica terapeutica e diagnostica.
Dalla fiumana dell'
immaginazione fuoriescono castelli onirici, città fantastiche,
brulicanti scene di battaglie interiori; paesaggi dell' anima
dominati da nuvole contorte, disseminati di boschi scheletriti,
solcati da acque lustrali; simboli lunari, esiti cruciformi di
visioni solari; cerimonie iniziatiche; feticci intagliati nel legno,
idoli grifagni o serpentini, gnomi, larve, omuncoli, o spesso totem
femminili simili ad antichi simulacri matriarcali.
Astratte o figurative,
sono immagini tutte perfettamente aniconiche, poiché ciò cui
rimandano trascende l' interfaccia della rappresentazione: l' effigie
simbolica che le supporta è un veicolo per transitare dal mondo del
visibile a quello dell' invisibile e non è un simulacro del
sensibile ma del suo opposto, di ciò che nel mondo empirico per
definizione non ha posto.
Il problema dell'
immagine ha sempre tormentato la filosofia, a partire dagli antichi
greci. Platone la condannava e le attribuiva il valore conoscitivo
più basso perché era copia di una copia. Come spiega il mito della
caverna nella Repubblica, il mondo fenomenico ( in greco phainomenos,
" che si mostra") per Platone è una rappresentazione
effimera e imperfetta del mondo "vero", che è quello
"delle idee". Ma nel greco di Platone la parola idea non
aveva ancora assunto il significato che oggi le diamo in filosofia o
nel linguaggio comune. Derivata dal tema del verbo idein,
"percepire", "vedere", l' idea era per i greci di
allora una pura forma, cui le varie manifestazioni degli oggetti
sensibili fanno capo: un modello o "archetipo" che si
colloca, come Platone spiega nel Fedone e nel Fedro, in una sfera
anteriore a quella della coscienza, da cui questi " disegni
interiori" sgorgano come da una fonte.
Il concetto di archetipo,
che nella percezione odierna leghiamo istintivamente a Jung - a
quelle forme a priori che postula innate nell' inconscio personale
partecipe dell' inconscio collettivo, a quei modelli psichici
astratti che si manifestano nei sogni e nelle fantasie tramite
immagini simboliche - in realtà, nella sua formulazione originaria,
è un concetto neoplatonico ed è già strettamente connesso al
problema dell' immagine.
Si trova anzitutto in
Plotino, che lo usa per indicare gli universali immutabili di cui è
tessuta l' anima del mondo e dunque anche la nostra anima
individuale, e che chiarisce con esattezza la differenza filosofica
tra immagine fenomenica e immagine "vera" quando scrive:
"Gli artisti non imitano ciò che è visibile, ma si elevano
fino alle ragioni ultime da cui la natura scaturisce; ed estraggono
inoltre da sé stessi molte aggiunte creative per compensare là dove
manca qualcosa.
Il fatto è che costoro
possiedono la bellezza dentro di sé: come Fidia, che fece il suo
Zeus senza gettare lo sguardo su alcun modello sensibile, ma
immaginando la divinità quale sarebbe se acconsentisse di apparire
ai nostri occhi". L' artista, dunque, scavalca il mondo dei
fenomeni e anzi ne colma le lacune, attingendo direttamente al mondo
delle idee.
Non a caso a Plotino come
"precursore" di Jung è dedicato il fondamentale saggio in
cui Hillman, il suo più geniale discepolo, riprende il concetto di
anima mundi e ricollega al pensiero neoplatonico il concetto
junghiano di inconscio collettivo. Hillman ha sviluppato e
formalizzato in un nuovo sistema, la psicologia archetipica o
archetipale, il lavoro sul mito greco che Freud per primo aveva
introdotto nella ricerca psicologica. Jung aveva investigato a fondo,
per esempio nella collaborazione con Karoly Kerenyi, figure come
quella del fanciullo divino e dell' eroe.
È stato Hillman a
collegare direttamente il percorso di guarigione non solo individuale
(dell' anima del singolo) ma anche e soprattutto collettivo (dell'
anima del mondo) al riconoscimento di una più sofisticata pluralità
di archetipi mitologici e alla reintegrazione della loro sostanza
poetica nelle forme sociali dell' immaginazione. Ma è stato Jung a
ritrasmettere laicamente alla nostra cultura gli elementi del sacro e
del mistero e le loro simbologie, traendoli non solo dal mondo antico
ma anche da quello cristiano e dalle tradizioni dell' oriente.
Anche per questo il suo
pensiero è il più persistente nella cultura di massa, il più
suadente per l' anima pop, oggi permeata da un nuovo interesse per le
religioni, soprattutto orientali, di cui Jung fin dall' inizio del
suo lavoro ha inteso le immagini sacre come simboli di processi
psichici.
Già Bisanzio aveva
intuito questo statuto dell' immagine sacra. Non a caso nel suo
ultimo libro, postumo e ancora inedito, Hillman ha voluto saldare il
suo debito con Jung e trattare il tema dell' immagine partendo dai
mosaici, dagli affreschi e da quei veri mandala cristiani che sono le
decorazioni parietali e absidali di Ravenna. Nella cristianizzazione
bizantina del pensiero platonico e neoplatonico, la coscienza del
fatto che il sovramondo - l' iperuranio di Platone, il regno dei
cieli di Cristo - non può presentarsi alla psiche umana né dunque
rappresentarsi se non attraverso un processo di discesa nell'
interiorità che fa emergere immagini solo apparentemente figurative,
in realtà astratte, è costante in tutta la storia della filosofia e
della teologia.
Come scriveva un teologo
platonico bizantino, lo pseudo-Dionigi Areopagita, le immagini che
Bisanzio chiamava sacre sono "rappresentazioni visibili di
spettacoli misteriosi e soprannaturali". Che si tratti di dio o
dell' inconscio, è l' immagine che descrive il mistero, che rimanda
a ciò che non è della natura, che rappresenta l' irrappresentabile,
l' unica immagine "vera".
Tra le opere d' arte di
Jung compare anche la rielaborazione dello stemma di famiglia,
trasformato in ex libris, con il motto oracolare delfico ripreso da
Erasmo: Vocatus atque non vocatus deus aderit, "Evocato o non
evocato un dio sarà presente". Se per confrontarsi con le forze
psichiche che emergevano dal profondo Jung ha descritto due
strategie, cercare di comprenderne il significato oppure trasformarle
in immagini, e se quest' ultima era quella cui ricorreva quando, come
scrive, " si trovava in un vicolo cieco", allora forse, con
il conforto di Jung, potremmo dire, riprendendo Wittgenstein: "Ciò
di cui non si può parlare, bisogna dipingerlo".
La Repubblica/Gulliver –
2 dicembre 2018
Nessun commento:
Posta un commento