20 dicembre 2018

PASOLINI SULLE CENERI DI GRAMSCI








Se so che la nostra storia è finita

Elio Grasso

Se so che la nostra storia è finita

Dal 1957, anno di uscita in volume delle Ceneri di Gramsci, al 2018, passando per la terribile notte del 1° novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia, cosa è accaduto in Italia, e nel resto del mondo? Quali cambiamenti nella poesia, e nella vera critica a essa? Tutto è mutato, tutto – fino al niente attuale, il niente che pochi oggi osano avvicinare con un grimaldello. Il realismo, l’attualità politica e sociale di quei decenni (ai più sconosciuta), sono stati abbondantemente accuditi dallo scrittore Walter Siti, altresì curatore di tutta l’opera di Pasolini. PPP aveva esperienze sue, cercava e ricercava, si consumava dentro l’angoscia di un mondo che nessuno come lui conosceva. Di notte, per le strade con la sua automobile probabilmente riusciva a vedere il futuro, nelle gambe di chi “passeggiava” e negli occhi di coloro che desiderava. Dal Friuli al Tiburtino, vie lunghissime e tortuose, la crudeltà stava a ogni curva, fino ad arrivare alla ferocia comprata e venduta nella città “eterna” sempre più orribile ai suoi occhi. Ed era ancora il tempo in cui circolava Fellini. Ragazzi di vita era il confine, per lui. Dopo, la vischiosità del moralismo. Criticava il “benessere” di Arbasino. Difendeva la “moda” sua, anche in pantaloncini sui polverosi campetti di calcio. Impoverimento dentro e fuori l’Urbe che soltanto la poesia del Fiore delle mille e una notte (scritto, ricordiamolo, con l’incantevole Dacia Maraini) mitigava mirando le condizioni povere ma sane di corpi meravigliosi, di sessi maschili e femminili ritrovati nell’arcaica e un po’ rozza vita nello Yemen e dintorni. La preistoria guardata da Pasolini s’incrocia, dai territori del Meridione e dell’Africa, alle macerie moralistiche messe in luce da Le ceneri di Gramsci: undici poemetti scritti nei primi anni Cinquanta, che davano piena ragione poetica di sé, come scrissero Pampaloni e Garboli. L’organizzazione dell’intera raccolta sarà pure sovrabbondante ma non dovremmo farci intrappolare dalle presupposte ansie predicatorie, se queste fanno parte di attitudini riflessive ben sveglie e alquanto usuali nella poesia e nella letteratura di quegli anni. Oltre le polemiche, personalità come Fortini e Zanzotto, a loro modo, non ne sono immuni. Anomalie, poliedricità, stando lontani dagli slogan, rivelano come la poesia si assesti negli angoli più riposti dell’epoca, non soltanto nelle piazze in bella luce. Chi si appoggia spiritualmente e carnalmente alla poesia, guardando in faccia la realtà, trovando i padri giusti (pure uccidendoli quando serve), certamente rasenta la pericolosità quotidiana. Pochi se ne rendono conto. Pasolini desiderava una vacanza, a un certo punto, dopo il Vangelo secondo Matteo, aspirazione che non si compì, tranne nei pochi mesi (era il 1966) in cui l’ulcera lo costrinse a letto. Invece il lavoro incombeva, letterario e filmico. Fino all’orribile morte avvenuta un decennio dopo. Lo stato pensante delle sue opere, in versi, in prosa, in immagini, s’immedesimano in una lingua per nulla avulsa dalle belve che girano per le strade e che ammazzano facilmente – e nonostante ciò, la vitalità incombe, sospinge e tormenta. E si viene puniti per questo. La violenza di allora, incancrenita nello “sgoverno”, non si è mai fermata – nemmeno la poesia, occorre precisare, anche se di tutt’altra specie, e avvolta dal minimo storico di vocalità del mondo sociale. Gli strumenti conoscitivi di Pasolini andavano nel fondo, dietro i cespugli: se ne lamenta l’Arbasino che ha sempre ritoccato le avventure disdicevoli nel segno del melodramma italico e nel segno (Gadda permettendo) del sommo stile di Longhi. Ma entrambi avevano, da par loro, nozioni acquisiste sul realismo in letteratura e sulla realtà fronteggiata sul campo. L’Aids non era ancora la Grande Muraglia che tagliava in due le ère, il tormento (o la sua mancanza) era vissuto sotto diverse costellazioni. Il famigerato lavoro di Petrolio scatenò a posteriori diatribe d’ogni specie e pure parole volenterosamente corrette. Al tempo delle Ceneri le “più sperdute strade” venivano digerite alla luce del disastro verso cui la nazione stava dirigendosi, la mondanità carnale era ancora privata, mentre le invettive pasoliniane fiorivano sui giornali e addirittura in alcune trasmissioni RAI. Le ossessioni si sarebbero bruciate dopo, sul sinistro confine del fallimento politico e corporale. Nel poemetto l’ardore dei padri si scioglie in un mondo di morti, tedio e natura smunta si aggirano in umide strade del centro e della periferia. Nessuno va più dove sta la tomba di Gramsci, al Testaccio, a lato della Piramide Cestia, dove finanche Shelley ha perduto il suo splendore. Ogni terzina è un prisma irradiante allarmi e tenerezze acute rivolti al giovane dei giovani, in bilico su torto e ragione, tra enfasi e rigoglio linguistico, e unilateralità estrema. Il ventre d’Italia, allora gonfio, oggi è strappato e con le interiora oscenamente in vista. Le terzine, e ogni verso di cui sono fatte, sono le ceneri di Pasolini disperse nel brusio e dimenticate nella massa: dopo essere stata fucilata sommariamente, “la storia è finita”.




Pier Paolo Pasolini
Le ceneri di Gramsci

I
Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia
con cieche schiarite… questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui appare
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…
Tu, giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,
quanto meno sventato e più impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano
delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido
giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia
patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito
nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
la sua giornata, mentre intorno spiove.

II
Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.
Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo
e nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno
che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte
e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni
più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse
inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti
uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo
a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà
questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smorti ghirigori di bosso, che la sera
rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga… quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda
l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta
trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda
altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido, e risuonano
– familiari da latitudini e
orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come
smeraldi: «And O ye Fountains…» – le pie
invocazioni…

III
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso, l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato e accorante – dal dimesso
rione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso… povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo
l’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
– con te – il mondo, oggetto non appare
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio – nella sua miseria
sprezzante e perso – per un oscuro scandalo
della coscienza.

IV
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione,
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria
dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica; ed altro più
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
ma a che serve la luce?

V
Non dico l’individuo, il fenomeno
dell’ardore sensuale e sentimentale….
altri vizi esso ha, altro è il nome
e la fatalità del suo peccare…
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale
oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna
delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.
Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche
le manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza… e ironico ardore
liberale… e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute… Fino alle infinite minuzie
in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia… Ben protetto
dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,
difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza! vive l’io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto
il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento… Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio
del vento, qui dov’è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l’anima il cui graffito suona
Shelley… Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico
villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell’avventura, estetica
e puerile: mentre prostrata l’Italia
come dentro il ventre di un’enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,
sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme
col membro gonfio tra gli stracci un sogno
goethiano, il giovincello ciociaro….
Nella Maremma, scuri, di stupende fogne
d’erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciòlo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.
Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,
le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,
dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa… Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico
di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii
del mare… E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza
ne è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome
del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,
in luride spiaggette…
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?

VI
Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea
che al quartiere in penombra si rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende
di una vita smaniosa che del roco
rotolìo dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco
e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami
caseggiati dove si consuma l’infido
ed espansivo dono dell’esistenza –
quella vita non è che un brivido;
corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza
– forse più lieta della vita – come
d’un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo con ci sia altra passione
che per l’operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l’umile corruzione. Quanto più è vano
– in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace –
ogni ideale, meglio è manifesta
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua
nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine…
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l’intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina… Manca poco alla cena;
brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d’operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,
verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d’immondizia
nell’ombra, rintanate zoccolette
che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra le casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti
di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa
vespertina; e scrosciano le saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci
e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.
È un brusio la vita, e questi persi
in essa la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi
eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce… Ma io, con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
(1954)


Testi ripresi da  https://rebstein.wordpress.com/2018/12/19/se-so-che-la-nostra-storia-e-finita/

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