07 dicembre 2018

ATTILIO BERTOLUCCI RICORDA UNGARETTI




Attilio Bertolucci e Pasolini

Giuseppe Ungaretti ...Guai a chiamarlo 'nonno'

 Attilio Bertolucci

Ho letto per la prima volta delle poesie di Ungaretti a metà degli anni Venti, sul finire della mia adolescenza, nella troppo dimenticata antologia Poeti d'oggi di Papini e Pancrazi. In quegli stessi anni, dal '25 in giù, mi sono comprato gli Ossi di seppia di Montale. Non c' era una segnaletica (voglio dire pagine letterarie), allora, che guidasse un ragazzo voglioso di poesia nuova, moderna; ma i nomi che contavano e che avrebbero contato, chissà come arrivavano al suo orecchio. Poi c'era da arrangiarsi, aiutavano una mente sveglia e un po' di fortuna. Così, un giorno, rovistando fra molti Barion (oh, utilissimi con tutti quei russi tradotti da Rinaldo Kufferle), mi venne fra le mani l'Allegria di naufragi nell'edizione Vallecchi. Fondo di magazzino o copia destinata ad un critico infastidito che se n'era liberato, poi che con suo sollievo non recava una dedica e poteva rifilarla al buon bancarellaro pontremolese spacciatore di carta stampata nella mia città? Bene.
Attilio Bertolucci
Quei due re magi della nostra poesia dovevano, qualche tempo dopo, ricompensare il giovanotto, ormai, che aveva creduto in loro, per loro trascurando la scuola, da loro ricevendo versi che, immagazzinati nelle celle della memoria, resistono intatti, non si perdono come tanti altri letti molti anni dopo. Mi spiego: nel '34 si ebbe a Firenze, nella primavera, quella novità, in tempi di sciroccosa bonaccia, che furono i Littoriali della Cultura e dell'Arte. Presidente per il concorso di poesia Giuseppe Ungaretti, il quale, bontà sua, volle premiare Sinisgalli e me. Ed ecco che il destino accomunò i due neoteroi al Maestro nella riprovazione di un fondo del Tevere, sì proprio l'editoriale in neretto del direttore Interlandi, di norma destinato al dileggio di bolscevichi e di demoplutocrati. La ragione di tale insolita arrabbiatura non politica ma culturale, i temi di alcune nostre poesie (usignuoli lacustri e fagiane nevicate), quando altro degnissimo giovane aveva cantato, non male, la bonifica mussoliniana delle paludi pontine. Ungaretti, e anche noi, ci ridemmo sopra, lui con la forza omerica che chi l' ha conosciuto può ricordare. Pubblicate in un volumetto, le mie poesie premiate ai Littoriali ricevettero lodi dal Montale recensore della rivista Pan. Com'era spazioso il campo letterario allora e in contrasto all'atmosfera politica, limpida l'aria, così limpida che due grandi poeti potevano scorgere e identificare gli apprendisti e incoraggiarli, aiutarli.
Dovevo ritrovare e frequentare Ungaretti, trasferitomi a Roma nel '51. Ormai arrivati all'amicizia, al tu (per me all'inizio difficoltosissimo) e, poi che ero diventato, con qualche viaggio a Firenze e l'annuale, comune vacanza in Versilia, amico anche di Montale, avevo da destreggiarmi nella conversazione con essi evitando di mostrarmi e dell'uno e dell'altro ammiratore. Nel soggiorno di casa ho messo di fronte su due pareti le testimonianze della generosità dei due: un quadretto delizioso di Montale e un'incisione, firmata e numerata, di Fautrier, che Ungaretti aveva avuto in dono dall'autore e della quale volle gratificarmi ficcandomela nella borsa, di nascosto da un suo segretario che la concupiva da anni. Ricordo d'avergli dato un gran dispiacere un giorno che la nipotina essendogli arrivata d'impeto nello studio, io commisi l'imprudenza di chiedergli se aveva imparato l'arte di essere nonno. Non gli garbava affatto di essere chiamato nonno, citando poi Victor Hugo. Mi difesi rammentandogli il debito del suo Baudelaire verso il non suo Victor Hugo.
Incurvato come una pianta può esserlo, se esposta a un vento gagliardo, segnato nel volto, conservava dentro gli occhi una luce di giovinezza datagli dalla possibilità, dalla capacità, durata sino alla fine, di meravigliarsi e di amare. Doveva morire nel mio Nord, che gli avevo fatto conoscere portandolo a incantarsi dinnanzi ai marmi rosa del Battistero di Parma, alle sculture di Benedetto Antelami. So che nell'ultima stagione della sua vita volle tornare ad ammirarli. Chissà se di nuovo, sul limitare della notte, preferisse ancora alle sublimi lunette cristiane, l'enigma dello Zooforo con la sua sequenza di formelle in cui arcieri e animali fantastici, ochette naviganti e testoni di villici padani, così armonicamente sposano il vero e l'immaginario in una scansione ritmica simile, nel suo mistero, alla musica della poesia.

“la Repubblica”, 4 febbraio 1988

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