Divisa borbonica
Nulla di nuovo sotto il sole: la storia è stata sempre scritta dai vincitori anche perchè le poche tracce documentali lasciate dai vinti - quando non sono state cancellate dai vincitori (non a caso negli Archivi di Stato si trovano sempre pochi documenti scritti dai perdenti!) - non consentono una adeguata base per scrivere una storia diversa.
Eppure, a partire almeno dal 150° Anniversario dell'Unità d'Italia, è fiorita e dilagata una sorta di letteratura neoborbonica, che utilizzando in modo fazioso gli scritti dei grandi meridionalisti (Fortunato, Salvemini, Gramsci e Sturzo) e, sopratutto, documenti e scritti provenienti dagli archivi parrocchiali, hanno provato a riscrivere il Risorgimento.
Tra gli autori che si sono maggiormente distinti in quest'opera revisionistica va ricordato il giornalista pugliese Pino Aprile, autore di numerose pubblicazioni che hanno avuto un successo straordinario. Il danno prodotto da questa letteratura è stato sottovalutato. In genere gli storici accademici hanno preferito ignorarla e soltanto alcuni di loro l'hanno presa in considerazione replicando ad essa in modo garbato e documentato.
Oggi segnaliamo uno dei pochi studi seri che hanno preso in considerazione questo revisionismo confutandolo con il metodo classico della ricerca storica. (fv)
Vincitori e vinti. Riletture intorno all'unità d'Italia
Marina Montesano
Il nuovo saggio di
Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della
congiura di Fenestrelle (Laterza, pp. 370, euro 18), nasce da una
polemica innescata da alcuni libri e siti internet neoborbonici, nei
quali si indaga su un lato oscuro dell'unità d'Italia, ossia quale
fu il trattamento riservato ai prigionieri dei Savoia dopo la
disfatta del 1860, offrendo generalmente un quadro spaventoso delle
sofferenze loro inflitte con lo scopo di «rieducarli» e,
soprattutto, di costringerli a entrare nelle file dell'esercito del
nuovo regno.
Le politiche
concentrazionarie dei Savoia troverebbero un simbolo nel
carcere-fortezza di Fenestrelle, nodo strategico della Val Chisone,
in provincia di Torino. Si sarebbe trattato di un lager dal quale
pochi uscirono vivi. Barbero si propone di smontare questa tesi, e lo
fa attraverso una scrupolosa ricerca d'archivio con la quale mette
insieme una mole di dati difficilmente contestabili. Fino al 13
febbraio 1861, scrive lo storico piemontese, data della capitolazione
di Gaeta, i militari che si erano arresi o erano stati catturati in
battaglia ebbero diritto allo status di prigionieri di guerra. Già
all'epoca, si trattava di una condizione estremamente controllata,
nella quale erano proibite vessazioni e abusi e si richiedeva ai
vincitori di assistere durante la prigionia i vinti in modo decoroso.
Il problema, tuttavia, è
che da quel momento in poi i militari borbonici ancora a piede libero
furono dichiarati dal nuovo governo «sbandati»: e a questa seconda
condizione non si applicavano le garanzie previste dalla prima. I
prigionieri furono divisi tra diverse città settentrionali, come
Milano, Bergamo, Alessandria, e Genova; solo una parte, prima di
soldati pontifici, poi di borbonici, finì a Fenestrelle. A proposito
delle loro condizioni di vita in carcere, Barbero scrive: «Dobbiamo
ricordare che il contingente destinato a Fenestrelle fu mandato lì
esclusivamente perché quello era uno dei pochi luoghi disponibili
per concentrare in condizioni di sicurezza un gran numero di
prigionieri di guerra; e che il ministero raccomandò esplicitamente
... di usare ai prigionieri tutti i "riguardi" necessari
per evitare che patissero il freddo. Col senno di poi, sarebbe stato
meglio, per motivi di immagine, evitare comunque di mandar lì quella
gente: perché il nome di Fenestrelle era già allora evocativo,
nell'immaginario collettivo, di detenzione durissima e di clima
micidiale, e la propaganda avversaria, che faceva il suo mestiere,
non avrebbe tardato ad approfittarne. Nel gennaio 1861, infatti, “La
Civiltà Cattolica” pubblicava un articolo a effetto, più volte
ripreso allora e in seguito dalla pubblicistica neoborbonica». Non
si sarebbe trattato, insomma, di una forma di coercizione per
costringere i prigionieri a entrare nell'esercito del vincitore.
Diverso il discorso per
gli «sbandati» che, privi di diritti, finirono spesso arruolati con
la forza; alla loro sorte si legano probabilmente gli atti di
insubordinazione successivi (come la rivolta di Fenestrelle cui si
accenna nel titolo: un episodio che Barbero tuttavia, documenti alla
mano, minimizza). Ques'ultimo dato, cioè la distinzione operata da
una parte sola, quella dei vincitori, fra soldati dotati di diritti e
altri che, dichiarata unilateralmente conclusa la guerra, di quegli
stessi diritti vennero privati, richiama tristemente vicende
contemporanee: quelle delle recenti «guerre asimmetriche» in cui
gli avversari vengono definiti, ancora una volta unilateralmente,
«nemici combattenti», non soldati, e dunque per questo si vedono
privati di diritti fondamentali, spediti a Guantanamo e in altre
prigioni disseminate fra paesi amici e basi militari sparse nel
mondo.
Nonostante una tradizione
secolare di diritto, insomma, le forme di abuso nei confronti dei
prigionieri furono e restano innumerevoli. Inoltre, forse al di là
della volontà stessa dell'autore, I prigionieri dei Savoia
riesce molto efficace lì dove descrive le durissime condizioni di
vita dei soldati (non solo quelli meridionali) incarcerati per varie
forme di insubordinazione, inducendo quindi a una riflessione non
solo sul modo in cui gli stati trattano i soldati «degli altri», ma
anche i propri, al di là delle retoriche patriottarde che spesso
riempiono i media e le manifestazioni ufficiali: anche qui, il
pensiero non può che correre alle rivelazioni recenti sui danni
dell'uranio e/o delle vaccinazioni imposte a chi non si può opporre;
pena, appunto, l'esser dichiarato insubordinato.
Il libro si chiude con un
appello contro le mistificazioni della storia e un invito a vagliare
con maggiore obiettività «un'epoca che per molto tempo è stata
raccontata come una meravigliosa epopea di cui essere orgogliosi, e
che da un po' di tempo viene raccontata come una sequenza di infamie
di cui vergognarsi: mentre non è forse stata la prima cosa, ma certo
neppure la seconda». Una rivisitazione del tema dell'unità d'Italia
non può che partire anche da una riconsiderazione di cosa sia stato
il regno borbonico prima della conquista: descritto dalla propaganda
savoiarda, con una buona dose di tinte razziste, come una terra di
afflizione secolare, viene oggi sempre più spesso dipinta invece
come un mondo felice e depredato dal nord. La lettura del libro di
Gianni Oliva, Un regno che è stato grande. La storia negata dei
Borboni di Napoli e di Sicilia (Mondadori, pp. 270, euro 20)
offre un punto di vista equilibrato su questo tema, mostrando come il
regno dei Borboni avesse vissuto una fase di sviluppo soprattutto
sotto Carlo, re di Napoli e di Sicilia fino al 1759 (e di Spagna fino
alla morte), e di suo figlio Ferdinando I: ne beneficiarono
l'industria e i trasporti, ma anche la vita intellettuale del paese;
diversi tentativi, seppur non pienamente riusciti, si fecero per far
pagare le tasse alla Chiesa e frenare i poteri baronali. E non c'è
dubbio, scrive Oliva, piemontese come Barbero, che la Napoli
illuminista fosse una città più cosmopolita e culturalmente
interessante della coeva Torino. Tuttavia, dalla repressione del 1790
in poi, la situazione peggiorò e gli ultimi Borboni non riuscirono a
mantenere posizioni di equilibrio tali da poter opporre una migliore
resistenza alla conquista sabauda. Il libro di Oliva si ferma a
questo punto. Il confronto sui pregi e i drammi degli eventi che
seguirono, invece, è opportuno continui nei prossimi anni.
il manifesto, 8 dicembre
2012
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