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“Miracolo all’italiana” del 1962, il primo libro a raccontare
l'Italia del boom. Un paese pieno di difetti come oggi, ma ottimista e
soprattutto più umano, forse perché nonostante tutto ancora molto povero.
Fabrizio Ravelli
Il viaggio di Giorgio
Bocca nel Paese che cambiava pelle
Al principio fu Vigevano:
«Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre
prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti
cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a
battaglioni affiancati, di librerie neanche una». Incipit
leggendario, che generazioni di cronisti hanno mandato a memoria.
E comincia da lì, da
Vigevano e da quella beffarda contabilità, il libro del 1962 che
Feltrinelli ora ristampa (con prefazione di Guido Crainz).
Quel Miracolo all’italiana che ai cronisti ha fatto
sognare di scrivere come Giorgio Bocca, ma che a legioni di
intellettuali e politici (soprattutto gli odierni) avrebbe potuto
insegnare come si conosce e si racconta un Paese. L’Italia degli
anni ‘50-‘60, del miracolo (la definizione venne battezzata dal
Daily Mail) che stava cambiando tutto: economia, industria, consumi,
costumi, abbigliamento, ideologie.
Un “miracolo” anche
giornalistico, dentro al quale Bocca si muove con la vitalità di chi
vede possibile il cambiamento. Ha 40 anni, è un inviato
del Giorno di Mattei diretto da Italo Pietra, ex-partigiano
anche lui.
E «l’aggressività
petrolifera di Mattei» si traduce in linea politica (neocapitalista,
riformista, con un occhio di riguardo a socialisti e sinistra
democristiana): «E il provinciale che ero», scriverà Bocca
nell’autobiografia, «ci ricadde, per le seconda volta tornò a
sperare come nella guerra partigiana, in un paese laico moderno in
cui il giornale dell’Eni avrebbe dato voce a una nuova cultura
industriale, a pensare che saremmo diventati il giornale
dell’aristocrazia operaia e della tecnocrazia che stavano facendo
dell’Italia un paese ricco e moderno».
Un giornale coraggioso
«nei riguardi del vecchio establishment»: «A me il Giorno di
Pietra e di Mattei dava via libera per andare alla scoperta
dell’Italia». E quindi via, soprattutto verso la provincia
industriale, grande sconosciuta, con il suo caos, la vitalità e la
volgarità, le conquiste e i rivolgimenti.
Una «miniera a cielo
aperto», la chiama Bocca. Che scava e racconta, con un metodo anche
quello nuovo per il giornalismo italiano: molta preparazione di dati
sulla realtà, molti libri letti alle spalle, un gran numero di
persone incontrate (e ben poche citate poi), un approccio molto
personalizzato del testimone che dice: «Io questo ho visto e questo
ho capito».
Dal vitalismo e dalla
volgarità del “miracolo” Bocca è sbalordito, divertito,
schifato ma anche affascinato: «Quell’Italia aveva animo lieto e
alacre nonostante le difficoltà della vita perché percorsa da
un’idea o grande speranza o grande illusione di progresso.
L’atteggiamento di un cronista come me rispetto alle prime
manifestazioni di consumismo massificato, di benessere diffuso era
insieme di critica e di adesione: critica delle forme, adesione per
la sostanza».
A deluderlo è casomai
quella borghesia che non riesce a essere classe dirigente: «Sembra
incredibile che un ceto così ricco di fiuto merceologico, di
attaccamento al lavoro, di ardimento commerciale, di gusto
manufatturiero non riesca a capire che una società, la società in
cui vive, non può continuare senza un solido assetto sociale, senza
interessi e iniziative intellettuali, senza un ordine. In altre
parole senza una civiltà che non sia quella pura e semplice dei
consumi». Calzaturieri di Vigevano, magliai di Carpi, ovunque il
“miracolo” accumuli neonate fortune.
Bocca, inutile ripeterlo,
non è solo lo spietato indagatore della realtà, e anzi poiché
scrive divinamente e ha un occhio infallibile, si concede sprazzi di
puro divertimento: Imaièr, i magliai, quei tipi cordialoni, forse
troppo, vestiti all’ultima moda, con facce color terra e sangue
come quella di un Adamo celtico, appena impastato».
Il “miracolo” ha
tante facce: a Foggia «c’è prima di esserci, esiste perché deve
venire, è un miracolo sulla parola, la gente cui è stato promesso
ha incominciato a anticiparselo».
A Siena il miracolo c’è
stato sette secoli prima, e ancora lo si rimembra con nostalgia: il
boom c’è anche qui, «ma i parvenus si sono fermati a Poggibonsi».
Fra palazzi aviti del Dugento, cacce e arazzi, il cuneese Bocca non
si ritrova: «In questi giorni mi sento molto allobrogo. Di giorno sto a disagio
fra questi uomini che hanno profili etruschi e nobili fattezze, fra
queste donne dai tratti fini e deliziosi. Di sera, nella mia stanza,
scopro nello specchio la pesantezza, grossolanità, ottusità dei
miei connotati celtici, appena romanizzati».
Il “miracolo” a
Milano è quello dei cafoni arricchiti, ma anche quello dei pendolari
intirizziti nell’alba che Bocca va a incontrare a Palazzolo
sull’Oglio: «Sveglia alle quattro e mezza, stanza fredda, acqua
fredda, sacramenti e così fino alla stazione».
E col “miracolo”
anche i “miracolati”, i famosi che Bocca ritrae: da Guttuso (un
pezzo da maestro), Mina agli esordi, Alberto Sordi e Walter Chiari,
un Omar Sivori che sbeffeggia la disciplina savoiarda della Juventus.
La repubblica – 23
novembre 2018
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