12 dicembre 2018

L. CANFORA SULLA RELIGIONE COME STRUMENTO DI POTERE



Instrumentum regni. Religione e stato da Roma antica a Gramsci

Luciano Canfora

Che il rapporto tra la religione e la politica (o, se si vuole, la vita sociale) sia uno dei temi di più lunga durata che possano impegnare lo studioso di storia è quasi una ovvietà. Meno ovvio è in quanti modi, anche tra loro assai lontani, sia percepito, e si svolga, tale rapporto. La questione si è posta per ogni genere di società, e si presenta in modi diversi per le diverse confessioni religiose, dal «cesaropapismo » dell'impero bizantino, e poi zarista, alla «separazione» realizzata dalla Terza Repubblica francese, quando finalmente si consolidò e fu al riparo dai traumi che per decenni dopo il 1871 l'avevano resa fragile. Che, in materia, l'Italia sia stata un luogo nevralgico e sommamente indicativo è ben noto, ed è stato un bene che l'editore Laterza abbia mandato da poco in libreria una corposa silloge, curata da Michele Ciliberto, intitolata La biblioteca laica, il pensiero libero dell'Italia moderna. Al centro ideale dell'intera silloge figura la pagina di Machiavelli (dai Discorsi I, 1: «Della religione dei Romani») sulla religione come «fondamento» del vivere civile. Alla conclusione, in posizione giustamente enfatica, vi è il discorso parlamentare di Cavour culminante nella impegnativa formula «Libera chiesa in libero Stato».
Sono ben note le riflessioni che il Machiavelli svolge in quel capitolo a sostegno della funzione di freno che la religione deve esercitare soprattutto nei confronti di masse incolte (gli uomini «grossi», come egli si esprime). Riflessione che, da un lato, si spinge ad indicare in Numa Pompilio, piuttosto che in Romolo, il vero fondatore della compagine romana, e dall'altro rivela netto distacco dal fatto religioso come tale, là dove al Savonarola viene destinato un elogio, che però tradisce ironia, per aver egli — con la religione — tenuto a freno addirittura un popolo tutt'altro che rozzo quale quello di Firenze. «Al popolo di Firenze — così scrive Machiavelli in un sapiente dosaggio di realismo e di ironia che non risparmia certo i suoi concittadini — non pare essere né ignorante né rozzo; nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s'egli era vero o no, perché d'uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza, ma etc.». Nel capitolo seguente Machiavelli traduce in modo originale, e quasi imprevisto, tali premesse e osserva che in Italia l'assenza di religione (e quindi dell'efficacia politicamente positiva che la religione può produrre) è da addebitarsi proprio alla chiesa di Roma («quelli populi — scrive — che sono più propinqui alla chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione»).
Questa considerazione è, per certi versi, vicina a quella cavouriana, posta a fondamento del celebre discorso con cui la silloge laterziana si conclude: che, cioè, proprio il potere temporale della chiesa cattolica ha nociuto e nuoce alla religione, e che dunque tale potere «fu ostacolo non solo alla riorganizzazione dell'Italia ma eziandio allo svolgimento del cattolicismo».
Ovviamente le concrete situazioni storiche in cui si trovano Machiavelli e Cavour sono incomparabilmente diverse. Ma vi è anche, in Machiavelli, un rifarsi assiduo all'esperienza antica, soprattutto romana, che lo porta ad accentuare quell'elemento «strumentale» (instrumentum regni), che viene da alcuni pensatori antichi e che invece in Cavour non c'è. In Machiavelli operano la lettura e l'assimilazione profonda dell'esperienza romana — come sostanza stessa del suo pensiero — vista attraverso Livio, ma anche attraverso quel libro sesto di Polibio che Machiavelli certamente conobbe e nel quale la formulazione apertamente strumentale dell'uso politico della religione come forte ed efficace regolatore sociale è netta e convinta. Modello ideale lo stesso Cesare, impegnatissimo a farsi eleggere pontefice massimo — dunque supremo esponente della religione — ma intimamente impregnato di convincimenti epicurei. Convincimenti che non gli impedirono affatto di attribuire a quella carica religiosa un ruolo centrale in tutta la sua carriera politica. Né era necessario, per un colto romano, simpatizzare per Epicuro, teorico dell'estraneità degli dei rispetto alle cose del mondo. Anche Cicerone, soprattutto nel De divinatione (bellissimo il commento che ne fece Sebastiano Timpanaro) ma anche nel De natura deorum ci appare scettico, ironico sul mestiere truffaldino degli aruspici, e quasi volterriano, laddove quando parla in pubblico non fa che apostrofare gli «dei immortali» quasi protagonisti remoti, e guida, e giudici, della politica.
Questa «doppiezza» fu propria dei ceti dirigenti del mondo classico, e passò recta via nella moderna cultura umanistica, giacché gli uomini della «Rinascita» proprio della parola di quegli antichi largamente si erano nutriti. Su una tale base, in condizioni storiche certo del tutto diverse, poté purtroppo anche germogliare l'elogio — che non suscita certo molta simpatia — della «dissimulazione onesta». Elogio che nell'Italia dominata dal fascismo fu letto con sensibilità attualizzante, e che certo a buon diritto trova posto in questa silloge laterziana.
In Cavour operano altre premesse. Vi è in lui schietta considerazione per il fenomeno religioso come tale. E quando perciò egli scrive che il recedere della chiesa dal suo potere temporale gioverebbe al cattolicesimo stesso non dà vita ad un sofisma capzioso, ma al contrario esprime il suo autentico pensiero. In questo egli è molto vicino ad un altro pensatore liberale che in profondità ha lavorato su questo problema: Alexis de Tocqueville. È uscita da poco, per le edizioni Dedalo, un'eccellente antologia tocquevilliana a cura di Paolo Ercolani (Tocqueville, Un ateo liberale) che comprende tra l'altro, dalla Démocratie en Amérique, i capitoli sulla «religione come istituzione politica», beninteso negli Usa. Ed è ammirevole osservare la serietà con cui Tocqueville, aconfessionale, si pone dinanzi al fenomeno originalissimo della lealtà repubblicana dei cattolici americani. Egli approda ad una considerazione non ovvia: «Se da una parte il cattolicesimo dispone i fedeli all'obbedienza, dall'altra non li prepara certo alla disuguaglianza» (p. 224). Onde, osserva, in un Paese lontano dalle impalcature statali del cattolicesimo (la monarchia retta dal Papa), quei fedeli sono i più predisposti ad accogliere il principio democratico dell'uguaglianza ed a viverlo come fondamento stesso del consorzio civile.
Insomma, non solo riflessione fondata sugli antichi e valutazione distaccata del fenomeno storico della religione ma, appunto, comprensione storica. In Italia chi ebbe tale sensibilità fu, in rottura con il generico anticlericalismo della sinistra letteraria e tradizionale, Antonio Gramsci. La cui grandezza nella storia intellettuale del nostro Paese si manifesta anche in questo.

Corriere della Sera, 20 dicembre 2008

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