Instrumentum regni. Religione e stato da Roma antica a Gramsci
Luciano Canfora
Che il rapporto tra la
religione e la politica (o, se si vuole, la vita sociale) sia uno dei
temi di più lunga durata che possano impegnare lo studioso di storia
è quasi una ovvietà. Meno ovvio è in quanti modi, anche tra loro
assai lontani, sia percepito, e si svolga, tale rapporto. La
questione si è posta per ogni genere di società, e si presenta in
modi diversi per le diverse confessioni religiose, dal «cesaropapismo
» dell'impero bizantino, e poi zarista, alla «separazione»
realizzata dalla Terza Repubblica francese, quando finalmente si
consolidò e fu al riparo dai traumi che per decenni dopo il 1871
l'avevano resa fragile. Che, in materia, l'Italia sia stata un luogo
nevralgico e sommamente indicativo è ben noto, ed è stato un bene
che l'editore Laterza abbia mandato da poco in libreria una corposa
silloge, curata da Michele Ciliberto, intitolata La biblioteca
laica, il pensiero libero dell'Italia moderna. Al centro ideale
dell'intera silloge figura la pagina di Machiavelli (dai Discorsi
I, 1: «Della religione dei Romani») sulla religione come
«fondamento» del vivere civile. Alla conclusione, in posizione
giustamente enfatica, vi è il discorso parlamentare di Cavour
culminante nella impegnativa formula «Libera chiesa in libero
Stato».
Sono ben note le
riflessioni che il Machiavelli svolge in quel capitolo a sostegno
della funzione di freno che la religione deve esercitare soprattutto
nei confronti di masse incolte (gli uomini «grossi», come egli si
esprime). Riflessione che, da un lato, si spinge ad indicare in Numa
Pompilio, piuttosto che in Romolo, il vero fondatore della compagine
romana, e dall'altro rivela netto distacco dal fatto religioso come
tale, là dove al Savonarola viene destinato un elogio, che però
tradisce ironia, per aver egli — con la religione — tenuto a
freno addirittura un popolo tutt'altro che rozzo quale quello di
Firenze. «Al popolo di Firenze — così scrive Machiavelli in un
sapiente dosaggio di realismo e di ironia che non risparmia certo i
suoi concittadini — non pare essere né ignorante né rozzo;
nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con
Dio. Io non voglio giudicare s'egli era vero o no, perché d'uno
tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza, ma etc.». Nel capitolo
seguente Machiavelli traduce in modo originale, e quasi imprevisto,
tali premesse e osserva che in Italia l'assenza di religione (e
quindi dell'efficacia politicamente positiva che la religione può
produrre) è da addebitarsi proprio alla chiesa di Roma («quelli
populi — scrive — che sono più propinqui alla chiesa romana,
capo della religione nostra, hanno meno religione»).
Questa considerazione è,
per certi versi, vicina a quella cavouriana, posta a fondamento del
celebre discorso con cui la silloge laterziana si conclude: che,
cioè, proprio il potere temporale della chiesa cattolica ha nociuto
e nuoce alla religione, e che dunque tale potere «fu ostacolo non
solo alla riorganizzazione dell'Italia ma eziandio allo svolgimento
del cattolicismo».
Ovviamente le concrete
situazioni storiche in cui si trovano Machiavelli e Cavour sono
incomparabilmente diverse. Ma vi è anche, in Machiavelli, un rifarsi
assiduo all'esperienza antica, soprattutto romana, che lo porta ad
accentuare quell'elemento «strumentale» (instrumentum regni),
che viene da alcuni pensatori antichi e che invece in Cavour non c'è.
In Machiavelli operano la lettura e l'assimilazione profonda
dell'esperienza romana — come sostanza stessa del suo pensiero —
vista attraverso Livio, ma anche attraverso quel libro sesto di
Polibio che Machiavelli certamente conobbe e nel quale la
formulazione apertamente strumentale dell'uso politico della
religione come forte ed efficace regolatore sociale è netta e
convinta. Modello ideale lo stesso Cesare, impegnatissimo a farsi
eleggere pontefice massimo — dunque supremo esponente della
religione — ma intimamente impregnato di convincimenti epicurei.
Convincimenti che non gli impedirono affatto di attribuire a quella
carica religiosa un ruolo centrale in tutta la sua carriera politica.
Né era necessario, per un colto romano, simpatizzare per Epicuro,
teorico dell'estraneità degli dei rispetto alle cose del mondo.
Anche Cicerone, soprattutto nel De divinatione (bellissimo il
commento che ne fece Sebastiano Timpanaro) ma anche nel De natura
deorum ci appare scettico, ironico sul mestiere truffaldino degli
aruspici, e quasi volterriano, laddove quando parla in pubblico non
fa che apostrofare gli «dei immortali» quasi protagonisti remoti, e
guida, e giudici, della politica.
Questa «doppiezza» fu
propria dei ceti dirigenti del mondo classico, e passò recta via
nella moderna cultura umanistica, giacché gli uomini della
«Rinascita» proprio della parola di quegli antichi largamente si
erano nutriti. Su una tale base, in condizioni storiche certo del
tutto diverse, poté purtroppo anche germogliare l'elogio — che non
suscita certo molta simpatia — della «dissimulazione onesta».
Elogio che nell'Italia dominata dal fascismo fu letto con sensibilità
attualizzante, e che certo a buon diritto trova posto in questa
silloge laterziana.
In Cavour operano altre
premesse. Vi è in lui schietta considerazione per il fenomeno
religioso come tale. E quando perciò egli scrive che il recedere
della chiesa dal suo potere temporale gioverebbe al cattolicesimo
stesso non dà vita ad un sofisma capzioso, ma al contrario esprime
il suo autentico pensiero. In questo egli è molto vicino ad un altro
pensatore liberale che in profondità ha lavorato su questo problema:
Alexis de Tocqueville. È uscita da poco, per le edizioni Dedalo,
un'eccellente antologia tocquevilliana a cura di Paolo Ercolani
(Tocqueville, Un ateo liberale) che comprende tra l'altro,
dalla Démocratie en Amérique, i capitoli sulla «religione
come istituzione politica», beninteso negli Usa. Ed è ammirevole
osservare la serietà con cui Tocqueville, aconfessionale, si pone
dinanzi al fenomeno originalissimo della lealtà repubblicana dei
cattolici americani. Egli approda ad una considerazione non ovvia:
«Se da una parte il cattolicesimo dispone i fedeli all'obbedienza,
dall'altra non li prepara certo alla disuguaglianza» (p. 224). Onde,
osserva, in un Paese lontano dalle impalcature statali del
cattolicesimo (la monarchia retta dal Papa), quei fedeli sono i più
predisposti ad accogliere il principio democratico dell'uguaglianza
ed a viverlo come fondamento stesso del consorzio civile.
Insomma, non solo
riflessione fondata sugli antichi e valutazione distaccata del
fenomeno storico della religione ma, appunto, comprensione storica.
In Italia chi ebbe tale sensibilità fu, in rottura con il generico
anticlericalismo della sinistra letteraria e tradizionale, Antonio
Gramsci. La cui grandezza nella storia intellettuale del nostro Paese
si manifesta anche in questo.
Corriere della Sera, 20
dicembre 2008
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