Tormentata e ironica,
radicale e appassionata, Teresa d'Avila sfugge ai limiti della sua
epoca e appare una contemporanea. Di qui l’attrazione esercitata
dai suoi scritti ora accessibili in una splendida edizione con testo
a fronte, curata da Massimo Bettetini e pubblicata da Bompiani.
Peccato solo che il saggio introduttivo dipinga sin dall’inizio
Teresa solo come una suorina, cancellando ogni tratto femminile e
rimuovendo del tutto il suo passato ebraico.
Donatella Di Cesare
La vera Teresa
d’Avila: femminile e marrana
La mano correva veloce sui fogli, un’ora dopo l’altra, senza più il senso del tempo. Negli interminabili pomeriggi d’estate, nelle lunghe notti d’inverno, quando avrebbe potuto assalirla la malinconia, spettro funesto del monastero, lei era lì, per terra, seduta su una stuoia, appoggiata al ripiano di pietra sotto la finestra. Meditava, ricordava, scriveva. Non che il resto del giorno si sottraesse agli innumerevoli compiti — prendere l’acqua al pozzo, badare alla porta, filare, tessere, cucinare, ricamare — cui tutte le suore erano obbligate, se non volevano perdere quell’autonomia così faticosamente conquistata. Già nel municipio si mormorava che «certe donne, monache carmelitane, avevano abusivamente occupato una casa». Qualcuno aveva perfino minacciato un assalto al convento; quella novità era scandalosa.
Eppure lì, a San José, nell’autunno del 1565, dopo anni di amari tormenti e cupe inquietudini, a Teresa sembrava che la sua vita interiore procedesse come «una navigazione con un vento molto pacato». Era l’augurio che aveva espresso nella sua autobiografia, la Vida, composta «per ordine del confessore» — altrimenti si poteva immaginare che lei, una donna, scrivesse così, liberamente — e poi più volte corretta per eludere i sospetti dell’Inquisizione.
Finalmente era riuscita nel suo progetto: lasciarsi alle spalle l’esistenza confortevole e banale, che si conduceva all’ombra dei chiostri, per riprendere le regole antiche del Carmelo. Silenzio, povertà, introspezione, preghiera, vita comunitaria. Si erano scalzate; portavano sandali di tela e corda, indossavano un abito di lana grezza. Non possedevano nulla. Era una nuova forma di vita all’insegna dell’uguaglianza. Lì, tra loro, il sangue non sarebbe mai stato criterio per escludere, discriminare, colpevolizzare; la limpieza de sangre, assurta a legge razzista nella Spagna cattolica, che aveva già espulso gli ebrei, non avrebbe avuto alcun valore nello spazio del monastero.
Tanto più che molte di
loro, da Leonor de Cepeda a Maria de Ocampo, erano, come lei, figlie
di conversos, ebrei convertiti al cristianesimo e segnati poi da una
duplice non-appartenenza, non più ebrei, ma neppure ancora
cristiani. L’acqua del battesimo non era bastata a lavare l’«impuro
sangue ebraico», quel fluido ineffabile in cui si condensava il
«male incurabile» dell’ebraismo. No, i «nuovi cristiani» non
venivano considerati fratelli. Erano bollati piuttosto come
«marrani», perfidi e infidi, capaci di dissimularsi, di farsi
passare per cattolici, mentre restavano segretamente ebrei.
Teresa non aveva dimenticato. Come avrebbe potuto? Certo, non ne aveva parlato nella storia della sua vita. E anche altrove fu accorta; ad esempio là dove, nelle Costituzioni, scritte per le carmelitane, aveva espunto la frase «è importante per coloro che vogliano essere figli di Dio non tener in nessun conto il lignaggio». Nella sua infanzia e nell’adolescenza il lignaggio aveva pesato in modo subdolo, atroce, ingiusto. Per sempre lei sarebbe stata afflitta dall’obbligo di sustentar la honra, di sopportare il peso di una reputazione perduta.
Oltre le alte mura di Avila si ergeva il terribile ricordo di quel che era avvenuto a Toledo, quando suo nonno Juan Sánchez, drappiere e mercader, fu costretto a passare per le vie della città, tra i lazzi e le invettive della folla, indossando il sambenito, l’infame scapolare giallo che marchiava i marrani. Con lui sfilò l’intera famiglia, anche il figlio minore Alonso. Dopo aver acquistato un certificato falso di hidalguía, che avrebbe dovuto attestare il sangue «pulito», scongiurando carcere e tortura, i Sánchez de Cepeda si rifugiarono ad Avila per ricominciare una vita al di sopra di ogni sospetto. Alonso tentò di eliminare, insieme a quell’antica disgrazia, ogni traccia di ebraismo; sposò in seconde nozze Beatriz de Ahumada, donna di grande bellezza, appartenente alla piccola nobiltà.
Il 28 marzo 1515 nacque
Teresa, chiamata così in ricordo della nonna paterna Teresa Sánchez.
Ma lo scomodo patronimico ebraico (appunto Sánchez) scomparve,
soppiantato dai cognomi cattolici. Ma per i Cepeda y Ahumada,
nonostante ogni occultamento, il passato restò incancellabile. Dopo
aver messo al mondo dieci figli, la madre morì molto presto, a
trentatré anni. Con lei Teresa aveva condiviso l’amore
appassionato per la lettura, conforto e sostegno per una donna
timorata, chiusa nel matrimonio.
Seguire quel modello? O
cercarne un altro? Quando si era abbandonata all’amore per un
cugino, con severità il padre era intervenuto per interrompere
quella relazione. I fratelli emigravano in cerca di fortuna nel Nuovo
Mondo; persino il suo prediletto Rodrigo salpò per il Río de la
Plata. Via via anche la sua sorte sembrò ineluttabile. Don Alonso
continuava a sperperare denaro e un buon matrimonio appariva una
chimera. Teresa fuggì. Meglio il convento: la certezza di una
dignità, la risorsa dello studio e della preghiera, la possibilità
di restare sola, la paradossale libertà nel chiuso di quattro mura.
Il padre andò a
riprendersela. Lei fu irremovibile e pronunciò i voti nel 1537. Un
anno dopo fece ritorno a casa gravemente malata. Un morbo oscuro le
divorava la vita. Fu un susseguirsi di palpitazioni, convulsioni,
addirittura paralisi. Decisivo fu l’incontro con Pedro de Cepeda,
zio paterno, che da «cristiano nuovo» aveva scelto di farsi frate.
Grazie a lui Teresa scoprì l’opera di un altro converso, Francisco
de Osuna, che le additava un’avventura possibile, tutta interiore,
la scoperta delle Indie di Dio.
Questa fu la «conversione» di Teresa, donna tormentata e ironica, radicale e appassionata, che sfugge ai limiti della sua epoca e appare una contemporanea. Di qui l’attrazione esercitata dai suoi scritti che, spesso trascurati nel mondo intellettuale, sono adesso accessibili in una splendida edizione con testo a fronte, curata da Massimo Bettetini e pubblicata da Bompiani. Peccato solo che il saggio introduttivo dipinga sin dall’inizio Teresa come una suorina in nuce, cancellando ogni tratto femminile, rimuovendo del tutto il passato ebraico. Non una volta si menziona Toledo! Come se non fosse mai esistito. Teologia della sostituzione che ripete — ancora adesso e, certo, non senza violenza — il gesto che fagocita, ingloba, elimina.
Ma Teresa, beata, santa, dottore della Chiesa, era una marrana. Perché negarlo? Dal 1946 le carte d’archivio non lasciano dubbi. E proprio questa sua peculiarità, che la relega al margine, si riflette nel suo originalissimo pensiero. Michel de Certeau la inserisce nella tradizione umiliata dei «nuovi cristiani», anime divise, pervase dal bisogno di un’intimità nascosta. L’incontro fra due tradizioni religiose, una respinta in un ritiro interiore, l’altra trionfante ma «corrotta», permette agli esponenti di questa intellighenzia di entrare nel cristianesimo articolando l’esperienza di un altrove. Tra meditazione e poesia, sono i percorsi autobiografici che consentono una libertà insperata per attraversare quella «notte oscura dell’anima», secondo il titolo del celebre poema di Juan de la Cruz.
Come spiegare
altrimenti il capolavoro di Teresa d’Avila Las Moradas, ossia le
dimore, detto anche El castillo interior (1577). Il castello è
«dimora presa a prestito», dove l’anima può lasciarsi
trasportare fuori di sé. Diamante e cristallo riflettono la luce di
questo spazio interiore dove l’altro parla «per me». Il dialogo
dell’anima si dispiega in uno sdoppiamento: l’altro abita nel sé,
il sé nell’altro. Nessuna identità integrale. Tu sei altro da te
stesso. Anche nell’unione mistica la separazione del sé da sé
stesso è ineluttabile. Anzi è grazie alla separazione che l’anima
può ospitare, può far posto all’altro infinito.
Teresa scrive seguendo il
dettato di una parola che la oltrepassa, parola condivisa, che viene
dalla sua cerchia, che si dispiega in un tra — tra donne — e
nella sua duplice differenza, femminile e marrana, non può non
infrangere e contaminare l’universo cattolico. Così indica un sé
inaccessibile anche a sé stesso, abitato dall’altro, infinitamente
altro, e perciò sacro, che occorre difendere e salvaguardare. Tutta
la mistica marrana è una risposta alla violenza degli inquisitori di
ieri e di oggi.
Il Corriere della sera/La
Lettura – 18 novembre 2018
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