Inquietudini
Lea MelandriUna delle intuizioni più importanti del femminismo, il partire da sé, ha preso forma nel tempo in molti modi e ha cominciato a cambiare in profondità relazioni sociali e vita di ogni giorno di tante donne e uomini, di tante ragazze e ragazzi. Lo ricordano a modo loro un’iniziativa teatrale e un libro sorprendenti quanto meravigliosi. Il gruppo teatrale di Bologna “AtelierSì” ha realizzato uno spettacolo con le lettere e le risposte scritte da Lea Melandri nella rubrica Inquietudini, apparsa negli anni Ottanta sul settimanale “Ragazza In” e raccolte nel libro La mappa del cuore. Il bisogno di ascoltare ed essere ascoltate delle ragazze nei loro pensieri, nei loro sogni lunghi e romantici, così come nelle loro tristezze, ha trovato uno spazio per far uscire temi rinchiusi in un confinamento privato e ha favorito la nascita di un assai inedito dialogo tra generazioni e generi, con forti risonanze con il presente. Il libro, di cui pubblichiamo l’introduzione, è stato nuovamente edito da Enciclopedia delle donne
La ristampa di un libro a cui si è particolarmente affezionati fa sempre piacere, soprattutto se è legato a un’esperienza e a un passaggio significativo della propria storia. Tale è stata la rubrica sul settimanale “Ragazza In” – Inquietudini –, a cui sono approdata, con sorpresa e incredulità, grazie all’invito di una coppia di amici, Sandra Novelli e Daniele Ionio, nel momento in cui mi lasciavo alle spalle il decennio degli anni Settanta, il movimento non autoritario nella scuola, la rivista L’erba voglio e il femminismo, per un viaggio analitico che sarebbe durato a lungo e che avrebbe portato il mio pensiero e la mia scrittura vicino a ciò che resta “impresentabile” del corpo e delle passioni che l’attraversano. La rottura improvvisa di una relazione amorosa aveva già aperto la strada a ferite ben più profonde, tanto dolorose da non poter diventare neppure ricordi, e le lettere delle ragazze arrivavano come inattese compagne di un viaggio che avremmo percorso insieme, tra sogno e lucidità di analisi. Non volendo usare i luoghi comuni della consolazione, e tanto meno la dogmaticità del linguaggio professionale, interpretativo, non mi restava che affidarmi, per le risposte, alla parentela che sentivo con quell’esploratore di paesaggi interni che è l’adolescente.
Non c’è voluto molto per capire che, nell’angolo della posta, arrivava quella che Sibilla Aleramo, scoperta tardivamente come coscienza femminile anticipatrice attraverso i suoi Diari, definiva “una segreta, sotterranea vita”, intraducibile persino in poesia.
Occorreva un’altra lingua per dare voce a esperienze, le più universali dell’umano, come l’innamoramento, gli abbandoni, la solitudine, lasciate dalla vita sociale in una sorta di esilio, costrette a muoversi tra una “stanza” tenuta gelosamente “privata” e la pagina della “confidenza” di un giornale. Per addentrarsi nel territorio inesplorato che conserva immutati nel tempo i sogni, i desideri, le paure che si accompagnano all’ingresso nella vita sociale, anche la parola doveva assottigliarsi, non temere di lasciarsi incantare da figure indeterminate, riconoscibili solo nella “mappa” del sentimento umano. È accaduto così, quasi per magia, che ogni rubrica si aprisse con i nomi di lettrici trasognate, sospese tra il mito e il disincanto di un mondo respingente come una “macchina di ferro”: “Lacrima nera”, “Leonessa ’66”, “Inquietudine ’71”, “Lacrima ’68”, “Un granello di polvere sull’argenteria”, “Illusione ’67”, “Goccia”, “Angelo Bianco”, “Una foglia di autunno pronta a cadere”. Incurante delle domande, per le quali non c’era risposta – “Ho visto un ragazzo, mi ha guardato. Secondo te mi ama?” – ho creduto di potermi avvicinare a loro sottolineando e trascrivendo frammenti, andando fino a perdermi in un corpo a corpo con un materiale che mi toccava profondamente, per poi staccarmi con la scrittura e tracciare un sottile confine tra me e loro, tra il sogno d’amore che ci accomunava, al di là della distanza di età, e la consapevolezza con cui la mia appassionata partecipazione al movimento delle donne mi aveva insegnato a interrogarlo.
Ho scoperto a poco a poco il rapporto inconfondibile che si stabilisce tra la lettrice e la figura che si profila dietro le risposte, un rapporto in cui si mescolano fedeltà, attese, idealizzazione, come nelle relazioni famigliari e amorose, ma dove è anche possibile accorgersi con sorpresa che la stanza, da cui parte la lettera “non è vuota”: “Nella stanza c’è il profumo del passato, della solitudine, del dolore, della speranza. Apro finalmente quella finestra e un fascio di luce la illumina: non c’è nulla di anormale. Ora posso accorgermi che non è vuota”.
Una conferma analoga della sintonia che si era venuta creando lungo il solco leggero degli stralci delle loro lettere, amplificati dalla mia scrittura enigmatica, riflessiva e poetante, la ebbi poco oltre nel tempo: “Non ti chiedo frasi del tipo “hai molto bisogno di affetto, devi farti coraggio”, “L’amore è grande, quando lo incontrerai, sarai felice”. Queste sono le cose ovvie che ho già sentito mille volte. Se me le dici anche tu sono al punto di partenza. Da te aspetto una risposta che venga dal tuo cuore e che mi faccia sentire parte di un mondo che non ho inventato io”. In breve tempo, i frammenti accuratamente scelti per tema, hanno preso, come mi auguravo, il centro della scena, hanno cominciato a dialogare tra loro, non senza aver fatto prima un affettuoso saluto alla donna che, pur non rispondendo alle domande e limitandosi ad analisi per loro incomprensibili, sembrava aver accolto il loro bisogno di ascoltare e essere ascoltate nei loro sogni lunghi e romantici, così come nelle loro tristezze: “Dolcissima Lea, siamo due ragazze che desiderano ardentemente rispondere alla lettera di Gloria”.
A rendere così appassionante l’insolita collaborazione dopo un percorso decennale di lotte femministe, ho motivo di pensare che sia stata una “inquietudine” che veniva da lontano, dai vent’anni passati in una famiglia contadina, dove fatica, povertà e violenza sulle donne si confondevano, agli occhi di una figlia, con la sessualità, gli affetti, e le cure, dall’esperienza traumatica di un primo tema in quarta ginnasio in cui avevo tentato di dare parola a un vissuto doloroso e che era stato giudicato “scritto benissimo, ma fuori tema”. Fuori e intraducibile nelle lingue colte rimaneva gran parte della mia condizione sociale, dell’appartenenza a un sesso a cui per millenni era stato negato il beneficio della cultura. Considero tuttora un privilegio aver incontrato nel mio arrivo a Milano, in fuga dalla provincia, movimenti per i quali il “fuori tema” era considerato “Il tema”, la vita riscoperta come riserva inesplorata di saperi, di “storie non registrate”, per citare Virginia Woolf. Il femminismo molto aveva detto del corpo, della sessualità, della maternità, dei legami famigliari, del maschile e del femminile come costruzioni del sesso vincente, ma era rimasto in ombra, forse per la sua ambigua confusione con rapporti di potere, l’amore come sogno di appartenenza intima a un altro essere, fusione armoniosa di natura diverse. Era così che lo avevo sentito tornare, esaltante e doloroso, all’inizio degli anni Ottanta e, paradossalmente, non era nel movimento delle donne che potevo farne parola ma con le tante “ragazze In” che mi scrivevano, con quella sintonia che hanno le esperienze più universali dell’umano quando escono dal confinamento nel privato. “Sento il bisogno di avere un ragazzo accanto, una persona che mi ami e mi conforti. Vorrei avere qualcuno che sia sempre lì quando lo cerco, a cui aggrapparmi e per cui vivere, uno che mi porti via da dove mi trovo, che mi conduca lontano dove poter dimenticare e rifarmi una vita. Ma sento che ne ho troppo bisogno, troppa ansia di possederlo in modo assoluto”.
Se la mia rubrica non fosse stata chiusa improvvisamente, come altre della rivista, per un cambiamento della redazione, forse avrei continuato ancora a passare i miei fine settimana ad annaspare tra la valanga delle buste istoriate che si ammucchiavano sul mio letto e che mi strappavano a volte una lacrima: “Corri postino, non ti fermare, che la mia Lea non può aspettare”. A distanza di tanti anni, non mi ricordavo più di quanto fossero “scritte” quelle buste colorate, dai loro “Help me!”, dalle mie sottolineature e notazioni. A farmene tornare memoria e commossa riscoperta sono stati Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismodi del gruppo teatrale di Bologna “AtelierSì”, quando sono venuti a propormi l’idea di fare uno spettacolo con le lettere e le mie risposte: parole che tornavano ad essere voce, corpo, per un dialogo tra “generazioni e generi”, ripresa di quella che era stata l’intuizione più radicale del femminismo, il “partire da sé”, la restituzione alla storia, alla cultura e alla politica, di una materia di vita consegnata inspiegabilmente alla “natura”. Un tesoro – ha detto Andrea intervistato da Anna Stefi per Doppiozero – abbiamo tirato giù dal soppalco questo pacco contenente tutta la corrispondenza e, rovesciandola al centro della stanza, abbiamo cominciato a guardarla insieme. Nonostante la pubblicazione di una raccolta di rubriche nel libro La mappa del cuore per l’editore Rubbettino, incontrato in una felice vacanza in Sila, ospite della mia amica Renate Siebert, non avevo gettato nulla, né le riviste, che compravo regolarmente ogni martedì, sempre stupita di quanto poco fossero comprensibili le mie risposte, né le lettere e le buste che le contenevano. Se il libro può tornare ad essere letto è merito loro e di Rossana Di Fazio e Margherita Marcheselli che si sono offerte di accoglierlo nella loro casa editrice: enciclopediadelledonne.it. Ringraziamento e gratitudine.
APPUNTAMENTI:
Martedì 26 aprile su Rai tre a “Quante storie” – alle 12.45 – andrà in onda un’intervista a Lea Melandri dedicata al libro La mappa del cuore ” con Giorgio Zanchini.
Venerdì 29 aprile, appuntamento teatrale all’Angelo Mai di Roma: Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi conducono un viaggio emotivo attraverso le lettere de La mappa del cuore, intrecciando le urgenze adolescenziali di allora con le risonanze presenti.
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