Pasolini e Berlinguer: l’austerità come lotta?
di Diana Napoli
Walter Siti ha ricordato, in un’intervista per una puntata speciale di Fahrenheit 1, le parole di Alberto Moravia secondo cui Pasolini amava la contraddizione perché pensare era astratto mentre contraddirsi era personale. Quest’osservazione sintetizza probabilmente una delle maggiori difficoltà nell’avvicinarsi a Pier Paolo Pasolini (al netto della vastità della sua produzione e dell’enorme bibliografia critica): trovare anzitutto una modalità con cui approcciarsi alla sua figura al di là dell’esigenza, suscitata spesso dalla sua opera, di un’immediata presa di posizione, di adesione o di distanza.
Lo scriveva bene Franco Fortini raccontando e analizzando, in Attraverso Pasolini, la storia e le ragioni di una relazione burrascosa che si era articolata nel corso di almeno due decenni, dalla collaborazione alla rivista Officina, fondata a Bologna nel 1955, alla distanza sempre più netta che li aveva separati. Non si tratta di indicare la contraddizione come una categoria essenziale a Pasolini, ma di sottolineare quanto sia necessario per il lettore assumerla per poter affrontare le “verità che balenavano dentro i suoi errori logici”: “Aveva torto e non avevo ragione. […] Credo che il progetto di Pasolini, ossia la proiezione di una complessiva proposta di sé a se stesso e degli altri a loro, sia stato erroneo e senza avvenire; e che il suo rovello intellettuale sia stato spesso o oscurato o limitato da un irrimediabile sconcerto della mente. Quando dico che non ebbi ragione, non parlo però di quanto posso avere scritto, anche a lui e su di lui. […] Sebbene creda, sì, di aver avuto, quanto a Pasolini, ragione nell’ordine della ragione, so di avere avuto torto di fronte all’albero d’oro della vita” 2.
Forse Pasolini è stato semplicemente un pensatore inattuale che, proprio alla stregua di Nietzsche, giudicava come un danno ciò di cui la sua epoca andava orgogliosa. Nel pieno boom economico, stigmatizzava il progresso mettendone in luce il costo in termini di felicità e autenticità della vita; negli anni di ascesa elettorale del PCI, negli anni delle grandi vittorie laiche – anche se non necessariamente attribuibili a una decisa azione del PCI – non smetteva di parlare di “sconfitte”. Ma anche quando sembrava esprimere pienamente il proprio tempo, anche quando sembrava coglierne direttamente le istanze – ad esempio girare il Vangelo secondo Matteo nel clima nel Concilio Vaticano II, pubblicare le Ceneri di Gramsci dopo il XX Congresso del PCUS a cui seguirono i tragici fatti d’Ungheria – riusciva a porre sempre una distanza, uno scarto tra sé e il proprio tempo, come a voler dire qualcosa di ulteriore, o a esplicitarne un non detto. In questo senso potremmo osservare che è stato propriamente e pienamente un contemporaneo nel senso in cui Giorgio Agamben definisce questo aggettivo: il contemporaneo è colui che appartiene al proprio tempo senza coincidervi mai completamente ed in questo scarto – in cui sta la sua inattualità – lo afferra “troppo presto”, ma anche “troppo tardi” 3. E proprio abitando il proprio tempo tra un “già” e un “non ancora”, Pasolini è riuscito ad esprimere drammaticamente una transizione, una trasformazione che rappresentava, per usare un’espressione del segretario del PCI Enrico Berlinguer su cui torneremo alla fine, “qualcosa di vero che sta sotto la pelle della storia”.
Non è ovviamente un caso il riferimento a Berlinguer. Pasolini è stato, in parte, un intellettuale engagé. È lui stesso a sottolineare come il ruolo dell’intellettuale sia quello di essere la coscienza critica della società, avendo il “dovere” di “esercitare prima di tutto e senza cedimenti di nessun genere un esame critico dei fatti” 4. In questo esercizio, il suo interlocutore principale è sempre stato il PCI, con cui ha intessuto nel corso degli anni un rapporto senza soluzione di continuità di filiazione e separazione. Ha scritto Mariamargherita Scotti, proprio in relazione a Fortini e Pasolini: “Orfani del cattivo padre comunista, ne cercano continuamente l’abbraccio, consapevoli della difficoltà di una autonomia incapace di fornire quell’identità storica e politica necessaria a sopportare il peccato originale dell’essere intellettuale che solo i partiti del movimento operaio sembrano allora poter regalare a chi ne accetta le regole e la disciplina” 5.
Basti pensare, a titolo di esempio, all’evoluzione dell’accoglienza dei suoi due romanzi “romani” da Ragazzi di vita a Una vita violenta. Al momento della sua pubblicazione, nel 1955, Ragazzi di vita fu fortemente criticato sulla stampa comunista. Solo per citare qualche commento, dalle colonne de L’Unità dell’11 agosto 1955 Gaetano Trombatore decretava che non si trattava nemmeno di un romanzo, ma di un susseguirsi di scene intrise di un “atteggiamento estetizzante” che “senza essere né di distacco né di comprensione si appaga nel gusto di una rappresentazione sensitiva intinta di lubricità”; e questo in quanto l’intenzione di Pasolini era, come il titolo lasciava intendere, limitarsi a parlare “dei ragazzi di vita e non della vita dei ragazzi”. Da Rinascita Rino Dal Sasso tacciava lo scrittore di essere un “turista che scopre un mondo movimentato e interessante tutto compiaciuto per le possibilità letterarie che gli offre” 6. In generale dal partito si levano critiche risentite per la descrizione del mondo delle borgate come un mondo senza futuro, disperato, nonostante da anni i compagni svolgessero un lavoro profondo per cambiare le coscienze, in direzione dell’emancipazione.
Per certi versi Pasolini sembra far sue queste obiezioni. In un’intervista su Nuovi argomenti qualche anno dopo non esita ad affermare: “io credo soltanto nel romanzo ‘storico’ e ‘nazionale’, nel senso di ‘oggettivo’ e tipico’. Non vedo come possano esisterne di altro genere, dato che ‘destini e vicende puramente individuali e fuori dal tempo storico’ per me non esistono: che marxista sarei?” 7. E infatti Una vita violenta, pubblicato nel 1959, viene accolto proprio come un romanzo marxista. Malgrado alcune perplessità, si riconosce che “questa volta Pasolini ha scritto il romanzo, e lo ha scritto proprio ripartendo da quel mondo, ma rifiutandone un’interpretazione strettamente naturalistica, anzi ponendosi esattamente e intrepidamente il problema della immissione di questo magma negli stampi della società di oggi” 8.
Nel cercare, dunque, costantemente l’“abbraccio” del PCI e allo stesso tempo “svincolandosene” (passando, a titolo di esempio, dal tenere una rubrica settimanale sul comunista Vie nuove tra il 1960 al 1965 a scrivere su quotidiani borghesi come Il Tempo e Il Corriere), Pasolini non ha mai smesso però di ergere questo partito a punto di riferimento, considerandolo “la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche”. Nel celebre articolo del 1974 pubblicato sul Corriere della Sera con il titolo Che cos’è questo golpe, e nonostante le critiche che nello stesso articolo muoverà all’indirizzo del sistema di potere del PCI, questo viene descritto – con parole spesso ripetute e prese in prestito – come “un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico” 9.
In questo dialogo mai interrotto, la distanza di Pasolini dal PCI si spiega meno con ragioni contingenti che sulla base di divergenze ideologiche profonde. Com’è noto, la prima forte perplessità di Pasolini riguardava innanzitutto il ruolo del progresso. Sin da Le poesie a Casarsa (pubblicate per la prima volta nel 1942), veniva vagheggiato una sorta di tempo perduto in cui regnavano l’innocenza e la purezza sottratte al corso della storia. Anzi, si potrebbe forse dire, più che mancanza di fiducia nel progresso, mancanza di fiducia proprio nella storia e “delusione della storia” 10. Il suo romanzo Il sogno di una cosa (pubblicato nel 1962 ma scritto nel 1949-1950 e il cui titolo riprende una frase tratta da una lettera di Marx a Arnold Ruge del settembre 1843), che vede come protagonisti dei giovani braccianti dopo la Seconda guerra mondiale, termina con la morte tragica di uno di essi. Pasolini, come aveva scritto nella premessa Al lettore nuovo per una raccolta antologica di sue poesie per Garzanti, aveva aderito al comunismo proprio vedendo le lotte dei braccianti friulani – infatti il titolo originario de Il sogno di una cosa doveva essere I giorni del lodo De Gasperi – e solo successivamente era arrivata la teoria, erano arrivati Marx e Gramsci. Il suo restava un “marxismo mai ortodosso” sotto la cui egida avevano trovato convergenza i diversi filoni della sua poesia 11.
La difficoltà – che è anche una difficoltà esistenziale – di un’adesione ideologica complessiva è palese ne Le ceneri di Gramsci (1957). Il PCI con cui Pasolini si confronta è un partito che aveva fatta sua la lezione gramsciana (dal Risorgimento come rivoluzione passiva e incompiuta, all’egemonia necessaria da esercitare in quanto partito che agisce come un moderno principe, al ruolo degli intellettuali organici). Ma di fronte alla tomba di Gramsci, egli può solo prendere atto de “Lo scandalo del contraddirmi/ dell’essere con te e contro di te; con te nel cuore, /in luce, contro te nelle buie viscere”. Ad attrarlo nel mondo “proletario” è “la sua allegria, non la millenaria/ sua lotta: la sua natura, non la sua/ coscienza; è la forza originaria”. Fino a riconoscere: “E’ un brusio la vita, e questi persi/ in essa, la perdono serenamente/ se il cuore ne hanno pieno: a godersi/ eccoli, miseri, la sera: e potente/ in essi, inermi, per essi, il mito/ rinasce… Ma io, con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita/ potrò mai più con pura passione operare/ se so che la nostra storia è finita?” 12.
La percezione della “fine” di una storia – e il disincanto – la ritroviamo in Epigramma alla bandiera rossa ne La religione del mio tempo. Le glorie borghesi e operaie sono d’altri tempi e sono state cancellate da una trasformazione che la bandiera rossa non è più grado di rappresentare: essa rimane solo in attesa che il più povero la sventoli 13.
E’ molto interessante, a questo proposito, l’analisi di Asor Rosa che, per spiegare la difficoltà pasoliniana di aderire fino in fondo alla visione del mondo del PCI, fa ricorso alla categoria dell’impolitico. Pasolini sarebbe un impolitico cioè, uno “scrittore o intellettuale che pur non avendo una vocazione politica nel senso stretto del termine, tuttavia non può fare a meno di lasciarsi coinvolgere da alcuni grandi movimenti della storia, nel corso dei quali esso libera quella carica di prorompente vitalità che la concentrazione puramente artistica degli anni precedenti gli aveva consentito di accumulare” 14. Non può fare a meno di farsi coinvolgere perché ad animarlo è un “rifiuto drastico e doloroso dello stato di cose esistente, del dominio della storia sull’uomo” 15. E’ in nome di questo rifiuto che Pasolini abbandona la sua impoliticità per assumere il ruolo di intellettuale impegnato, senza che però quest’impegno si risolva mai in una “pacifica identificazione” 16 con la visione del mondo del partito. Pur ricercando “l’abbraccio del padre”, per riprendere quest’espressione, la sua impoliticità non viene mai cancellata del tutto ed esplode – alla fine degli anni Sessanta ma soprattutto nei primi anni Settanta che coincidono con una profonda crisi esistenziale di Pasolini stesso.
Si potrebbero prendere come esempio – tra i tanti – i testi che scrive in occasione della vittoria del “No” al referendum abrogativo del divorzio nel 1974. Benché non si fosse trattato di una battaglia del PCI, la vittoria del “No” viene ovviamente considerata dai comunisti una vittoria laica ascrivibile alla lunga storia della lotta per l’emancipazione che da decenni andava combattendo la sinistra. Pasolini non si stanca di scrivere, da Il Corriere della sera, che si trattava di una sconfitta in quanto indicava un cambiamento nella mentalità e nei costumi in direzione di un consumismo nei rapporti di cui nessuno dei partiti sembrava essersi accorto 17. Le risposte non tardano ad arrivare e, in pieno stile ottocentesco, sulla stampa va in scena una feroce polemica con Moravia, con Calvino, Ferrarotti, con Maurizio Ferrara che, dalle pagine de L’Unità, di Paese Sera lo attaccano e contestano le sue posizioni anche con una certa facilità. Del resto sono gli anni in cui Pasolini parla di un non meglio identificato “Nuovo Potere” che in Italia si manifesterebbe come omologazione, in Cile come giunta militare.
Continua
Articolo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2022/04/15/pasolini-e-berlinguer-lausterita-come-lotta/
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