Ecco il 25 aprile, ora è più necessario che mai. Quest’anno insiste lì sul comodino, nello zaino o sul tavolo, il volume delle opere di Beppe Fenoglio di Einaudi-Gallimard (Romanzi e racconti. Edizione completa, a cura di Dante Isella, 1992) con grande insistenza del Partigiano Johnny, la cui potenza narrativa e stilistica, la cui incompiutezza rendono il romanzo della Resistenza da cominciare e ricominciare, sempre. Prima di tutto per la bellezza stupefacente della scrittura di Fenoglio. Per la sua lingua. Ovviamente anche per il ritratto della Resistenza, dei giovani di allora che ci offre. Ma la lingua, la lingua e lo stile sono sublimi e ci invitano a leggere lentamente, immaginando le scene, i partigiani sdraiati nel bosco, i colpi di moschetto, i fascisti che cadono. I pianti sui morti partigiani, la pietà. Il freddo, le munizioni scarse, la “pagnotta croccante così squisita e basale”. Una lettura infinita, un discorso sulla lettura che può durare ore e ore e riprendere. Grazie Beppe Fenoglio.
Beppe Fenoglio, Alba, 1 marzo 1922, Torino, 18 febbraio 1963
Scrive Dante Isella che la “forza liberatoria della prosa del Partigiano si sviluppa, al contrario, da un’idea di lingua plastica, malleabile a proprio talento; e opera sfruttando, al limite estremo, le possibilità implicite nell’italiano, come in diverso grado in ciascun sistema linguistico, i cui meccanismi creativi, anchilosati per lo scarso uso, vengono vitalmente riattivati. Non, dunque, una lingua raggelata, fossile, con cui scontrarsi; ma una lingua magmatica con cui collaborare creativamente. Il risultato è una prosa incessantemente produttiva di neoformazioni lessicali, morfologiche e sintattiche”. (Dante Isella, La lingua del “Partigiano Johnny”, in Romanzi e racconti, cit.)
Scrive Fenoglio nel Partigiano:
«Johnny s’inoltrò nell’aia, felice ed ansioso di mischiarsi agli uomini, a tutti, senza più l’istinto necessario di individuar Tito e di stargli attaccato. Tito era nel bel centro dell’aia, col fucile a lato, stava ripristinando meticolosamente le sue calzettone e cavallerizze. Come vide Johnny, gli strizzò l’occhio, senza allegria, ma con profondità, ma Johnny non gli andò vicino, ognuno di quegli uomini, anche il più imbestiato, gli appariva un Tito, e più un fratello. Per l’umidità della terra di scontro, molti tossivano, tutti di quando in quando si schiarivano la gola, e la carrucola del pozzo cigolava. Il cuore di Johnny s’apriva e scioglieva, girò tutta l’aia apposta per farsi partecipe e sciente d’ogni uomo. Erano gli uomini che avevano combattuto con lui, che stavano dalla sua parte anziché all’opposta. E lui era uno di loro, gli si era completamente liquefatto dentro il senso umiliante dello stacco di classe. Egli era come loro, bello come loro se erano belli, brutto come loro, se brutti. Avevano combattuto con lui, erano nati e vissuti, ognuno con la sua origine, giochi, lavori, vizi, solitudine e sviamenti, per trovarsi insieme a quella battaglia.
Il tenente Biondo era leggermente seduto, le sue gambe cavalline molto divaricate, sul tratto dominante del muretto, fisso lazily al lontanissimo, melting spiazzo dove i fascisti stavano lentamente evacuando. Ora guardava accoratamente ad una sigaretta che per esser stata tenuta in battaglia nella tasca dei calzoni era tutta distorta e perdeva tabacco da più strappi. Johnny gli passò una delle sue, soltanto appiattite. Poi subitamente gli si riallontanò, per non parlargli. Gli avrebbe detto:– Tu sei solo un sergente, tenente Biondo. Ma hai comandato splendidamente. Eppure non potevamo pretendere che tu fossi un vero capo. Gente sola, e giovane e malmessa come noi poteva bastarle che tu fossi il capo nel senso di dare il segnale dell’inizio della battaglia. Ma tu, sergente, sei un vero capo. Hai comandato magistralmente.»
-Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, capitolo 9.
Pezzo ripreso da https://gruppodilettura.com/2022/04/24/beppe-fenoglio-partigiano-johnny-perche-leggerlo/
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