12 aprile 2022

R. K. SALINARI, Archeologia culturale di una filastrocca

 

Renoir, La lavandaia accovacciata


Raffaele K. Salinari

La bella lavanderina, grande madre pop

Archeologia culturale di una filastrocca, significati, allusioni, spiritualità, cortili disegnati col gessetto


«La bella lavanderina, che lava i fazzoletti, per i poveretti, li metta ad asciugar. Fai un salto, fanne un altro, fai la riverenza, fai la penitenza: orsù, orsù, dai un bacio, a chi vuoi tu!». Nel testo della nota filastrocca popolare La bella lavanderina, che tutti abbiamo recitato da bambini, sono contenute diverse immagini che brillano e compaiono su quel limite indistinto, e per questo potenzialmente simbolico e poetico, che separa, o per meglio dire meglio ricongiunge, il sacro al profano.

Giorgio De Santillana, nel suo celeberrimo Mulino di Amleto, sostiene come nelle fiabe, nelle filastrocche, nei miti, siano spesso contenute le visioni di civiltà antiche, addirittura relitti di interi assetti cosmologici oggi dimenticati, come quelli precedenti la precessione equinoziale e dunque al cambio dell’eclittica. A questo proposito porta come esempio, tra gli altri, la caduta della Ganga (strettamente femminile) il fiume sacro della spiritualità induista, sulla testa dello Yogi cosmico Shiva. Non è questa la sede per approfondire il mito, ma chi volesse farlo lo troverebbe altamente significativo della tesi sostenuta dallo studioso.

Tornando alla nostra filastrocca non ci è dato sapere se La bella lavanderina risponde a criteri così arcaici, ma certo contiene elementi molto antichi che collocano i gesti via via descritti e suggeriti in una prospettiva il cui recupero è di importanza fondamentale per il futuro dell’umanità: la figura della Dea Madre e una gestualità che ne onora il Sacro e l’Eros come parte di esso. È infatti più che evidente come la progressiva materializzazione dei rapporti tra individui e tra individui e Mondo, la ingravescente prospettiva del Regno della Quantità, come la definiva il Libero Muratore René Guénon nell’omonimo libro, sta portando l’umanità oltre ogni equilibrio esistenziale, sia sul piano fisico sia su quello metafisico, e che il recupero di antiche figure di una spiritualità senza dogmi ci può aiutare a non oltrepassare il punto, già molto vicino, di non ritorno.

Cominciamo allora dalla figura centrale: «la bella lavanderina». Non è affatto azzardato vederla come una ipostasi pop della Grande Madre, della Grande Potnia, secondo la descrizione che ce ne da Umberto Pestalozza nel suo Eterno femminino mediterraneo. Qui, infatti, oltre alla decisiva affermazione della sacralità espressa dalla Grande Madre attraverso tutte le donne, le «piccole potnie», troviamo due caratteristiche che vengono evidenziata nella «bella lavanderina»: la bellezza certo, segno principe di una cosmesi che diviene cosmologia. Le genealogia che lega questa idea del Cosmo alla Bellezza è antichissima e procede da una genealogia che passa attraverso la Tanit cartaginese, la Demetra greca, Ishtar ed Inanna a Babilonia e via enumerando sino alla Madonna.

Ma è soprattutto l’umiltà della «bella lavanderina» che colpisce: questo è il segno troppo spesso trascurato, ma di fondamentale importanza, per l’abbinamento della Bellezza alla Saggezza. Umile si riferisce all’humus, al principio generativo terrestre, a quell’«umido radicale» che gli alchimisti ricercano come caratteristica della loro Prima Materia e che dunque, per la legge dell’analogia propria al linguaggio simbolico, deve corrispondere alla postura dello spirito di chi vuole l’accesso alle Verità ultime dell’Essere.

L’attitudine umile della «bella lavanderina» si evince evidentemente dal suo gesto di «lavare i fazzoletti per i poveretti», e di metterli ad asciugare al sole. Chi frequenta la simbologia ermetica conosce bene questa immagine del lavare e del lasciar asciugare, una ennesima forma del Solve e Coagula, ma questo ci porterebbe forse troppo lontano, così come una analisi seppur appena accennata di quell’oggetto, oramai imbalsamato solo in alcuni taschini, che è il fazzoletto. Quante immagini sensuali sono legate ad esso! Dalla gelosia di Otello al sensuale lasciarlo cadere affinché venga raccolto e restituito. Oltre alla biancheria intima, questo accessorio di abbigliamento è, infatti, il più vicino al corpo. Questo pezzo di stoffa è così pronto ad impregnarsi di odori ed aromi, naturali o artificiali, dal sudore al sangue, dagli umori erotici ai profumi più inebrianti. Per i più tradizionalisti cultori della gangia, basti citare il significato del safi che si mette all’imboccatura del chilum. Restando al nostro tema, oltre a ricordare la canzone «amor dammi quel fazzolettino, alla fonte lo vado a lavar», che riprende in toto il tema di aperture della «bella lavanderina», il «fazzoletto di un poveretto» nelle mani della «bella lavanderina», rappresenta tutto il carico di povertà e degrado delle loro vite, ed il lavarlo diventa un vero e proprio battesimo lustrale per interposto oggetto, un gesto catartico potente ed altamente sacro.

Fai un salto, fanne un altro

Di fronte a questo verso della filastrocca non possiamo che pensare al «gioco del mondo», quella serie di dieci case che collegano, attraverso i salti ed il tiro dei dadi, la Terra al Cielo. Al proposito cominciamo con l’osservare come alcuni giochi, comuni a tutti i bambini del mondo, esprimono descrizioni profonde dell’anima mundi, al di là delle distanze tra culture. Ad esempio, colpisce l’analogia tra il gioco del mondo (il gioco del mondo!) – detto anche Campana o Rayuela in spagnolo, che si trova in tutte le culture – e le Sefirot della Cabbala ebraica. Lo schema è lo stesso, ma anche il percorso della conoscenza è uguale. Il bambino, come il saggio, deve superare delle prove per arrivare alla testa dello schema, quella che nella descrizione cabbalistica dello Zohar viene chiamata Keter ‘Eliyon: la «Corona Eccelsa di Dio… che giace oltre la nostra comprensione razionale» (Zohar, XVII). Eppure i bambini ci provano e, con i loro salti – gridando di gioia istintiva, pura e non condizionata – finalmente ci arrivano; ad un certo momento della nostra vita ci siamo arrivati tutti, anche se oramai ci siamo scordati (scordati… come fossimo uno strumento non più in grado di suonare la melodia che ci è stata consegnata).

Il «gioco del mondo» è, allora, un percorso spirituale che, da secoli, viene indagato razionalmente senza riuscire a penetrarne il significato. Eppure, quanto semplice sarebbe dire che il Mondo è realmente un gioco; con questo tutto sarebbe più chiaro, e la manutenzione dello spirito assicurata. Dice Mircea Eliade: «I bambini continuano a giocare al gioco della Campana, senza sapere di ridare vita ad un gioco iniziatico, il cui scopo è di penetrare e riuscire a tornare fuori da un labirinto; giocando alla Campana i bambini scendono simbolicamente agli inferi e tornano sulla terra».

A questo punto, forse, alcuni potrebbero tacciare queste riflessioni di mera casualità; Un caso, una banale analogia tra Rayuela e Sefirot, tra il «gioco dei nomi di Dio» ed il gioco del mondo? Ma cosa significa caso? Forse una necessità della quale non riusciamo ancora a cogliere l’intimo significato. Prova ne sia il fatto che, spesso, nell’interpretazione di passi oscuri del Midrash ebraico, viene utilizzato il potere vaticinante dei bambini, capaci ancora di vivere tra gli opposti, di soffermarsi «là dove si situa la vita». Fai un salto, fanne un altro… Questo apprese Rabbi Loewe, celebre rabbino in Praga, creatore, secondo la leggenda, del mitico Golem – il servitore di fango descritto già nella Bibbia – che si ribellò, come tutti gli esseri di fango, al suo padrone.

Ritrovare allora questa «infanzia dello spirito» nello «spirito dell’infanzia», ci interessa come presupposto politico, perché è oramai chiaro che gli adulti alienati generano soltanto confusione e disarmonia. Certo, i bambini sono centrali, a parole, in ogni concezione adulta dello Spirito, ma solo come corpi di passaggio, nei quali esso si manifesterebbe inconsapevolmente. L’età della cosiddetta maturità discrimina e divide, è «diabolica», dal greco dia-ballo separare, quella infantile non discrimina è, dunque, simbolica, da sin-ballo riunire. L’importanza apparentemente casuale che le cose hanno per un bambino – la sua indifferenza tra materiale ed immateriale, organico ed inorganico – diurno e notturno, reale o immaginale, rappresenta questo punto di vista unificante. Per questo, dalla Cabbala ai Veda, dai Sufi musulmani ai mistici cristiani, la manifestazione della scintilla che vitalizza l’anima mundi, può essere percepita solo da una natura «infantile». Non è liberatoria la scena di Mary Poppins in cui il padre dei ragazzi, appena licenziato, saltella via dall’austera sala del consiglio di amministrazione col suo ombrello strappato? Sarà quello il momento della sua ritrovata serenità profonda, dell’amore per i figli.

Fai la riverenza

Fare la riverenza era un gesto che si insegnava alle ragazze di buona famiglia in segno di rispetto verso qualcuno ma, a differenza dell’inchino, gesto rigido e formale più decisamente maschile e gerarchizzante, anche per sottolineare, con quell’atteggiamento aggraziato del corpo, una forma di equilibrio interiore, segno di una segreta e profonda armonia. Già questa semplice distinzione, diremmo oggi di genere, tra due atteggiamenti di rispetto, fanno comprendere come la percezione e l’espressione del Sacro sia più naturalmente appannaggio della sensibilità femminile, o meglio di quella parte del femminile che vive in ogni essere vivente, la parte che «porta ad effetto» la forza creatrice.

E allora, per comprendere la profondità simbolica della riverenza, il suo significato per così dire archetipico, dobbiamo in primis riferirci al concetto di Sacro. Per una schematica definizione di un campo così vasto, perché onnipervasivo della realtà sottile dell’esistenza, o meglio così avvolgente l’esistenza stessa, sono infatti le cose ad essere nello Spirito e non questo nelle cose, possiamo limitarci a riferire la sua originaria etimologia di sacer cioè separato, rinviando il resto all’omonimo libro di Rudolf Otto. Ma questa separatezza non significa in nessun caso esclusione dalla possibilità di poterlo percepire, anzi, rappresenta solo (solo!) l’unico mezzo per farlo. In poche parole, si deve entrare nel Sacro attraverso la percezione della sua separatezza e poi prepararsi ad affrontare il cammino che ad esso ci ricongiunge.

Ogni spazio dedicato allo Spirito è uno spazio sacro, la cui sacralizzazione deriva proprio da questa separatezza dal mondo profano, cioè letteralmente dalla realtà puramente materiale che resta o dovrebbe «restare fuori dal Tempio». Le Chiese sono, o dovrebbero essere, spazi sacri, nei quali si entra non semplicemente attraversando una porta, non a caso che si apre sempre verso il suo interno, ma inginocchiandosi di fronte al Mistero, segnandosi allo stesso tempo. Questo atteggiamento del corpo predispone dunque all’incontro col Sacro, con il totaliter aliter che, però, informa di Sé tutto. Nei templi della Libera Muratoria lo spazio sacro si crea ogni volta, con rituali che, anch’essi, predispongono attraverso la postura dei corpi, a farsi attraversare dalla luce dello Spirito.

Ma, e qui sta la specificità della riverenza, ci sono gesti che servono a evidenziare la presenza dello Spirito, del Sacro attraverso la Bellezza anche nella quotidianità di spazi profani, posture che hanno, seppure per un solo istante, il potere di sacralizzare l’aura di chi li compie; l’inchino è uno di questi, perché? Perché esso ha, come abbiamo detto, il potere di suscitare la grazia, o meglio le Grazie. Queste divinità fondamentali, nominate nella Teogonia di Esiodo (907) sono le inseparabili compagne di Venere e ne rappresentano, per così dire, le qualità. Sono Aglaia, l’Ornamento ovvero lo Splendore, Eufrosine, la Gioia o la Letizia, e Talia, la Pienezza ovvero la Prosperità. Se cosmo e cosmesi hanno la stessa matrice linguistica, significa che l’equilibrio tra le cose ha bisogno di Bellezza; se poi tutto questo è legato allo splendore, cioè alla luce come simbolo della conoscenza, la triade ci mostra già una strada da seguire. La Gioia poi, cioè quel sentimento di felicità che nasce dal condividere con umiltà l’equilibrio raggiunto, ed infine la Pienezza, cioè la realizzazione di se stessi in tutte le proprie potenzialità in armonia con il resto delle vite, completano il quadro di una riverenza ben fatta.

Ecco, allora che un gesto che le contiene tutte, un gesto aggraziato come dovrebbe essere la riverenza, evoca quell’Afrodite anima del Mondo che Plotino ci dice essere l’Essenza stessa delle cose. Ma non basta: come ci ricorda Davide Susanetti nel suo Luce delle Muse, le Grazie sono strettamente legate alle Muse, queste «splendide ragazze dall’animo concorde», figlie di Zeus e Mnemosine, la Memoria. Create dalle due divinità per rendere stabile il Cosmo, esse formano un’unica voce. Dimorano nell’Olimpo insieme alle Cariti, alle Grazie, e ben si comprende perché siano loro compagne, insieme a Desiderio, unica presenza maschile. Così nella reggia celeste le Muse e le Grazie, non cessano di rallegrale la mente del loro padre, «come se il loro compito fosse di rifare in perpetuo la storia del mondo, di fissare la forma dell’universo nella trama di una voce che mai si interrompe».

Naturalmente, e questo invece pertiene molto ad una certa cultura della colpa, dopo la riverenza, cioè un gesto aggraziato che attira lo sguardo ed ha, come abbiamo visto, una certa connotazione erotica, non può mancare la penitenza, cioè, appunto, il gesto che esprime il senso della colpa, del peccato per aver ceduto alle lusinghe del mondo.

Orsù dai un bacio a chi vuoi tu

Ma, la penitenza dura poco, quasi un atto dovuto per allontanare da sé i beghini benpensanti, i sessuofobi che vedono nell’energia erotica l’impossibile da governare. Ed ecco che finalmente, sbrigata l’incombenza, senza partecipazione dell’anima che ancora aleggia libera nell’aura della riverenza, anzi caricati da questa, si arriva al bacio, per di più «a chi vuoi tu», pienamente titolari delle proprie scelte erotiche, un compimento del percorso iniziato con la figura della «bella lavanderina» che si conclude con il gesto amoroso per antonomasia. E così si chiude il gioco del mondo che la filastrocca ci ha fatto percorrere, le sue case sono state tutte esplorate ed in ognuna abbiamo trovare una risposta e, forse ancora più importante, una nuova domanda per ricominciare il gioco.

Il manifesto/Alias – 9 aprile 2022



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