“DOPO LA SCONFITTA” DI YANNIS RITSOS
Cinquantacinque anni fa, il 21 aprile 1967, in Italia il Telegiornale della sera (l’unico della giornata, allora) iniziò con le sconvolgenti immagini dei carri armati che presidiavano le strade principali di Atene.
Nella notte precedente, infatti, in Grecia era iniziato un sanguinoso colpo di stato militare, attuato dai colonnelli Georgios Papadopoulos, Nikolaos Makarezos e Ioannis Ladas: alle 2,30 un reggimento di paracadutisti aveva occupato il Ministero della Difesa; contemporaneamente le truppe si erano impadronite dei centri di comunicazione, del parlamento e del palazzo reale. La Polizia Militare arrestò in poche ore più di 10.000 persone, compreso il primo ministro Panagiotis Kanellopoulos.
Dopo il golpe dei colonnelli, come afferma la voce narrante nel celebre film di Costa-Gavras “Z - L’orgia del potere” (1969), «i militari hanno proibito i capelli lunghi, le minigonne, Sofocle, Tolstoj, Mark Twain, Euripide, spezzare i bicchieri alla russa, Aragon, Trotskij, scioperare, la libertà sindacale, Lurçat, Eschilo, Aristofane, Ionesco, Sartre, i Beatles, Albee, Pinter, dire che Socrate era omosessuale, l’ordine degli avvocati, imparare il russo, imparare il bulgaro, la libertà di stampa, l’enciclopedia internazionale, la sociologia, Beckett, Dostojevskij, Čechov, Gorki e tutti i russi, il ‘chi è?’, la musica moderna, la musica popolare, la matematica moderna, i movimenti della pace, e la lettera ‘Ζ’ che vuol dire ‘è vivo’ in greco antico».
La dittatura fascista in Grecia durò sette anni: innumerevoli furono gli oppositori, reali o presunti, che furono arrestati, torturati e uccisi; fra loro fu Alexandros Panagulis, celebre anche per la sua relazione con la giornalista italiana Oriana Fallaci, che ne raccontò la storia nel bellissimo libro “Un uomo” (Rizzoli, 1979).
Dopo il golpe Yannis Ritsos (1909-1990), uno dei più grandi poeti della Grecia moderna, a causa delle sue idee di sinistra fu deportato nell’isola di Leros e poi a Samo. Durante la prigionia compose 32 poesie che furono poi pubblicate nel volume “Ripetizioni”; fra queste liriche, propongo la lettura di “Dopo la sconfitta”, per commemorare tutte le vittime di quella feroce dittatura e di tutte le altre violenze dissennate e arbitrarie contro la libertà altrui, con riferimento specifico ovviamente all’attuale situazione in Ucraina.
Ecco il testo della poesia, nella traduzione di Nicola Crocetti.
Invito a leggere con attenzione i primi versi, che a me ricordano l’attuale situazione di Paesi in cui un potere arrogante e dispotico cancella ogni traccia di libertà, dignità e cultura, soffocando ogni dissenso e ogni protesta (e dire che in altri Paesi liberi c’è chi riesce a trovare giustificazioni per queste bieche e ottuse dittature o - peggio - fruisce della propria libertà di espressione, garantita da quasi 80 anni di democrazia, per deliranti negazionismi o machiavelliche dietrologie).
DOPO LA SCONFITTA
Dopo la disfatta degli ateniesi a Egospòtami, e un po’ più tardi
dopo la nostra ultima sconfitta, / finite le libere discussioni, finiti anche gli splendori di Pericle, / il fiorire delle Arti, i Ginnasi e i simposi dei sapienti. Ora / pesante silenzio nell’Agorà e mestizia, e l’impunità dei Trenta Tiranni. / Tutto (anche ciò ch’è più nostro) avviene in contumacia, senza la minima / possibilità di un ricorso, d’una difesa o apologia, / d’una sia pur formale protesta. Le nostre carte e i nostri libri al rogo; / l’onore della patria nel pattume. E se avvenisse mai che ci consentissero / di chiamare a testimoniare un vecchio amico, non accetterebbe per timore / di patire anche lui la nostra sorte - e a ragione, il tapino. Perciò / stiamo bene qui, - forse potremo perfino stabilire un nuovo contatto con la natura /
guardando dietro il filo spinato un pezzo di mare, le pietre, le erbe, / o una nuvola al tramonto, profonda, violetta, emozionata. E forse / un giorno si troverà un nuovo Cimone, guidato in segreto / dalla stessa aquila, che scavi fino a scoprire la punta di ferro della nostra lancia, / arrugginita, consunta anch’essa, e la trasporti solennemente / in processione funebre o trionfale, con musiche e corone, ad Atene.
21 marzo 1968
Il testo, come si vede, insiste sul tragico “ripetersi”, nella storia ellenica, di analoghi momenti di prevaricazione e violenza: il poeta ricorda l’antica sconfitta ateniese ad Egospòtami nel 405 a.C. e prefigura altre terribili sconfitte che si verificano nel tragico presente del suo Paese.
Conseguenza immediata è la perdita della libertà (“finite le libere / discussioni”, vv. 2-3), la fine di ogni splendore artistico e culturale. Sono palpabili (v. 4), il “pesante silenzio nell’Agorà” e l’avvilente “mestizia” (del popolo oppresso), mentre domina “l’impunità dei Trenta Tiranni” (cioè il potere violento dei militari al potere). Ogni decisione viene presa “in contumacia” (v. 5), in assenza degli interessati, che possono solo subìre i provvedimenti arbitrari imposti dall’alto.
Impossibile ogni “difesa o apologia” (v. 6), ogni “sia pur formale protesta” (v. 7).
I libri dei poeti vanno “al rogo” mentre “l’onore della patria” finisce (nonostante i roboanti proclami nazionalistici del regime) “nel pattume” (v. Anche se fosse consentito ai condannati “chiamare a testimoniare un vecchio amico” (v. 9), questi si rifiuterebbe, per il fondato timore di subire la stessa sorte.
Il poeta, con amara ironia, osserva il terribile lager in cui è imprigionato, esprimendo un sarcastico “hic manebimus otpime” (“stiamo bene qui”, v. 11). Poi ipotizza in modo surreale un “nuovo contatto con la natura” (v. 11), osservando i pochi elementi paesaggistici (“un pezzo di mare, le pietre, le erbe, / o una nuvola al tramonto”, vv. 12-13) che si intravedono “dietro il filo spinato” (v. 12) del lager.
Unica speranza è l’arrivo di “un nuovo Cimone” (il figlio di Milziade che, guidato da un’aquila, aveva ritrovato la tomba di Teseo a Sciro); costui potrà ritrovare sottoterra “la punta di ferro” (v. 15) della lancia dei prigionieri, “arrugginita” (v. 16) ma ancora degna di essere trasportata “in processione funebre o trionfale” (v. 17) ad Atene.
La poesia è icastica, lapidaria, priva di ogni compiacimento artistico; si trasforma quasi in una prosa disadorna, con versi lunghissimi, tanto lunghi quanto lunghe erano i mesi di prigionia e l’attesa della liberazione.
Lo stesso Ritsos, che compose questi versi “usando le ginocchia per tavolo” (come scrisse Louis Aragon nella prefazione alla raccolta), aveva orgogliosamente prevenuto ogni possibile critica: «Non ci sentiamo affatto / inferiori, non abbassiamo gli occhi. Nostre uniche pergamene / tre parole: Makrònissos, Ghiaros e Leros. E se maldestri / dovessero sembrarvi un giorno i nostri versi, ricordate solo che furono scritti / sotto il naso delle guardie, la baionetta puntata sempre alle costole». [Makrònissos, Ghiaros e Leros erano tre località in cui si trovavano i campi di concentramento istituiti dai colonnelli].
E quella “baionetta puntata sempre alle costole” è metafora potente di tutte le violenze intollerabili e inaccettabili che sono avvenute (e purtroppo ancora oggi, 21 aprile 2022, avvengono) ai danni della cultura, della libertà, dell’indipendenza e della dignità degli esseri umani.
Mario Pintacuda
P.S.: Allego due immagini: una foto di Yannis Ritsos e la copia di un manifesto propagandistico dei “colonnelli” (quando andai per la prima volta in Grecia, nell’estate del 1971, l’intero Paese ne era tappezzato)./
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