IL METRO di CAINO. La destruction di Baudelaire.
di Umberto Fiori
[Esce oggi per Castelvecchi Il metro di Caino, un libro di saggi in cui Umberto Fiori rilegge testi celebri della tradizione (dalla Bibbia ai classici greci, da Leopardi a Baudelaire, Sereni, Caproni e molti altri). Pubblichiamo in anteprima il saggio su La Destruction di Baudelaire].
1. La Destruction (Les fleurs du mal, CIX)
Sans cesse à mes côtés s’agite le Démon;
il nage autour de moi comme un air impalpable;
je l’avale et le sens qui brûle mon poumon
et l’emplit d’un désir éternel et coupable.
Parfois il prend, sachant mon grand amour de l’Art,
la forme de la plus séduisante des femmes,
et, sous de spécieux prétextes de cafard,
accoutume ma lèvre à des philtres infâmes.
Il me conduit ainsi, loin du regard de Dieu,
haletant et brisé de fatigue, au milieu
des plaines de l’Ennui, profondes et désertes,
et jette dans mes yeux pleins de confusion
des vêtements souillés, des blessures ouvertes,
et l’appareil sanglant de la Destruction!
La Distruzione
Senza posa al mio fianco dà in ismanie il Demonio,
si libra intorno a me come un’aria impalpabile;
io la ingoio e la sento bruciare i miei polmoni
e colmarli di un desiderio eterno e colpevole.
A volte, conoscendo l’amore che ho per l’Arte,
prende forma di femmina, della più seducente,
e con qualche specioso e strisciante pretesto
abitua le mie labbra a certi filtri infami.
E così mi allontana dallo sguardo di Dio,
mi porta, ansante e rotto dalla fatica, al centro
delle pianure della Noia, profonde e deserte,
e getta nei miei occhi colmi di confusione
degli abiti lordati, delle ferite aperte,
l’apparato sanguinante della Distruzione.
A una prima lettura, La Destruction appare come la confessione di un peccatore pentito, il racconto della sua perdizione e del suo castigo. Lo schema è abbastanza prevedibile: il poeta viene tentato dal Demonio, si dà a una vita dissoluta e riceve infine l’immancabile punizione. La pena che ci viene prospettata, tuttavia, non è esattamente quella che ci aspetteremmo a conclusione di un racconto edificante. Il libertino non viene gettato –come Don Giovanni- nelle fiamme dell’Inferno, non viene frustato e squartato dai diavoli: il suo desiderio lo conduce “al centro/ delle pianure della Noia”, “lontano dallo sguardo di Dio”. Questo è il luogo che il Demonio, con le sue lusinghe, gli ha dischiuso.
*
Più che una punizione, la sua potrebbe apparire –almeno inizialmente (v.5)- come una liberazione. Se lo sguardo di Dio è l’occhio onniveggente che dall’alto dei cieli sorveglia e giudica il bene e il male delle azioni umane, esserne lontano, per chi vuole soddisfare senza vincoli le proprie voglie, dovrebbe risultare un vantaggio. Invece, lungi dall’aprire spazi di libertà e di piacere, questo allontanamento approda alla paralisi, alla Noia. Non si tratta –va da sé- della minuscola noia di chi non sa come svagarsi: quella di cui ci parla Baudelaire è una Noia maiuscola, torva, disperata, le cui “pianure profonde e deserte” si animano a tratti di allucinazioni ripugnanti: “degli abiti lordati, delle ferite aperte”. Culmine di questa tormentatissima Noia è la visione terrificante della Distruzione, del suo “sanguinante apparato”.
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Se lo schema generale (tentazione-peccato-punizione) può apparire scontato, il castigo che gli ultimi versi in brevi tratti presentano è invece del tutto inatteso e sconcertante. A renderlo tale è anche un senso di accelerazione, direi di precipitazione: mentre gli otto versi delle quartine espongono tentazione e peccato con piana solennità, le terzine ci offrono in rapidi lampi una fitta sequenza di evocazioni che restano inesplicate: lo sguardo di Dio, le pianure della Noia, e subito dopo –senza alcuna preparazione- i dettagli ributtanti di una scena di cui nulla si dice; infine la Distruzione, il suo “apparato sanguinante”. La “confusione” che riempie gli occhi del peccatore è perfettamente mimata da questa sarabanda infernale. Fermare gli elementi che emergono e dileguano, pensarli, stabilire tra loro un rapporto, non è facile. Mentre sfilano uno dopo l’altro, il nesso che li lega non viene esplicitato; eppure, tutto procede come se si susseguissero secondo una necessità ineluttabile: una frana genera altre frane, un’esplosione ne innesca una seconda e questa una terza, fino alla definitiva Distruzione del titolo.
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Che cosa, o chi, viene distrutto? Il peccatore, saremmo indotti a pensare. Non è così. La Distruzione di cui parla il poeta non investe lui stesso: è una visione, è lo spettacolo nauseante che viene gettato davanti ai suoi occhi (anzi nei suoi occhi). La punizione non consiste se non nella terribile rivelazione che lo invade.
A punirlo non è Dio. Quella che Baudelaire ci descrive è un’esperienza radicalmente “liberata” dal Suo sguardo, un’esperienza che ha luogo in una dimensione remota, a cui Dio non ha accesso. La punizione non viene presentata come qualcosa di esterno alla colpa, qualcosa che interviene –da fuori, dall’alto- a colpirla: il castigo è il peccato stesso. Tentato dal Demonio, l’uomo si lascia trascinare dal desiderio: il cammino lo conduce non al piacere ma alla Noia, e infine alla visione insostenibile della Distruzione. Le tappe di questa sorta di iniziazione satanica ci vengono presentate una dopo l’altra, dalle quartine alle terzine, in un crescendo: il poeta “inghiotte” –come in una perversa Eucaristia- il Demonio che gli aleggia intorno; quest’”aria impalpabile” lo colma di desiderio; il desiderio trova il proprio oggetto nella femmina e nelle droghe, fino all’esito “a cascata” di cui abbiamo appena ragionato.
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Il Demonio instilla nel poeta il desiderio: è di qui che si originano la perdizione e il castigo finale. Che il desiderio di cui si parla sia “colpevole” è fin troppo facile accettarlo. Lussuria, débauche, assuefazione a “filtri infami”: c’è qualcosa di più peccaminoso? Se però riducessimo la colpa insita nel desiderare alla qualità degli oggetti che esso elegge, e la vicenda che ci viene esposta alla rovina morale del signor Charles Baudelaire, poeta debosciato e “maledetto”, avremmo di fronte una confessione tanto edificante quanto insipida, banale e incongrua. Confessioni del genere terminano di solito con il racconto di un pentimento e di una purificazione: di tutto ciò, ne La destruction, non c’è traccia.
Baudelaire non ci racconta del suo personale ravvedimento: quello che mette in scena è ciò che lega il desiderio alla Noia, e infine a ciò che egli chiama Distruzione. Il carattere autobiografico di questa riflessione e la convenzionalità dei termini utilizzati non devono sviarci: parlando dei peccati di un determinato individuo, qui, si ragiona di quelli che insidiano ogni uomo, anche il più lontano da eccessi “decadenti”. Il Demonio che si agita intorno al poeta è lo stesso di cui si dice, nella poesia Au lecteur, che “regge i fili che ci muovono” (“C’est le Diable qui tient les fils qui nous remuent!”). Il Diavolo non frequenta solo i poeti debosciati: è il gran burattinaio che fa ballare gli uomini, tutti gli uomini; l’intera umanità è cullata da Satan Trismégiste, che la lusinga e la governa. E’ questo grande alchimista a vaporizzare “il ricco metallo della nostra volontà”. Nemmeno la Noia, ai cui territori approda il poeta-peccatore, riguarda lui soltanto: è il mostro (“il più schifoso, il più malvagio e immondo”) che ogni uomo ben conosce (“Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat,/ -hypocrite lecteur, -mon semblable,- mon frère!”).
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Proviamo allora a rileggere La Destruction cercando di interpretare i termini e le immagini che ci propone alla luce di un approccio più “universale”, meno legato alla personale vicenda del poeta, alla sua immagine stereotipata. Il legame che subito viene richiamato, tra Demonio e desiderio, è dei più risaputi. La chiave che apre a Satana il cuore dell’uomo -come sa ogni buon parrocchiano- è il desiderio che cova in noi. Ma in che senso il desiderio è (o può essere) colpevole? I precetti morali e ancor più quelli religiosi, a partire dai Comandamenti, lo dicono con grande chiarezza: “Non desiderare la donna d’altri”, “Non desiderare la roba d’altri”. Che la colpa dipenda dall’oggetto che uno desidera Baudelaire non lo esclude, e tuttavia non è su questo che si concentra. Certo, nella seconda quartina si evocano donne seducenti, “filtri infami”, ma solo qualche bacchettone potrebbe pensare che “frutti proibiti” come questi siano sufficienti a dannare per sempre un’anima, a farle perdere ogni contatto con Dio. Nel testo, il desiderio che il Demonio instilla nell’uomo non viene qualificato a partire dal suo oggetto: prima ancora di precisare verso che cosa esso si indirizzi, si dice che è “eterno e colpevole”.
Che relazione c’è tra i due aggettivi? Se la sequenza fosse colpevole ed eterno, l’eternità non avrebbe lo stesso peso. Il desiderio –sembra suggerirci Baudelaire- è eterno dunque colpevole; peccaminoso non in base al suo oggetto, ma in quanto eterno: eternamente rinnovantesi, inestinguibile, inesauribile. Il desiderio dell’uomo non può trovare soddisfazione: qualsiasi oggetto finito –lecito o illecito- risulterà inadeguato alle sue infinite aspettative, qualsiasi soddisfacimento sarà inevitabilmente effimero, precario, provvisorio. L’inganno del Demonio consiste proprio nell’illuderci che un appagamento sia possibile; così –ostaggio della propria brama- l’uomo insegue un oggetto dopo l’altro finché, di delusione in delusione, perviene “ansimante e rotto di fatica”, alla Noia.
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La Noia, il sentimento della nullità di tutte le cose, del loro vuoto, della loro indifferenza, è l’inevitabile approdo di ogni desiderio umano, anche del più innocente. Si tratta di qualcosa di più di uno stato d’animo, dell’“umor nero” che può investirci in alcuni momenti della vita. Le “pianure della Noia” vengono descritte come “profonde e deserte”, ma sono definite innanzitutto negativamente, a partire dal loro essere “loin du regard de Dieu”. Che cos’è, lo sguardo di cui si parla? Perché esserne lontani (ne abbiamo già ragionato) non si risolve in una liberazione ma in una condanna? Prima ancora che l’occhio del sommo Giudice, lo “sguardo di Dio” è qui la metafisica sorgente di ciò che si oppone alla Distruzione: la Co-struzione potremmo dire, il cum che tiene insieme le cose; è la forza che riconduce il molteplice all’unità, la differenza all’uguaglianza, che del caos e dell’entropia fa un uni-verso. La confusione, lo smarrimento che dalla lontananza di quello sguardo deriva, è il risultato del libero gioco che la Distruzione ottiene, grazie all’opera del Demonio.
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La Distruzione è l’esito del desiderio, e della Noia che ne consegue. La Noia, scrive Baudelaire (ancora Au lecteur), “ferait volontiers de la terre un débris/ et dans un bâillement avalerait le monde” (farebbe volentieri della terra un mucchio di frantumi,/ e ingoierebbe il mondo in uno sbadiglio). La distruzione di cui si parla, naturalmente, non è da prendersi alla lettera; il débris in cui la Noia vorrebbe trasformare la terra è il risultato dello smembramento, dello sgretolamento causato dalla lontananza dello sguardo di Dio, dall’assenza di un occhio che connetta le cose l’una all’altra, che dia loro senso.
Gli effetti di questa “esplosione” del mondo, di questo suo precipitare in un apocalittico sbadiglio, ci vengono fuggevolmente esibiti nel penultimo verso, uno dei più terribilmente memorabili di questo celebre sonetto. A trasmetterci una sensazione di nausea e di orrore è certo la qualità degli oggetti evocati, “des vêtements souillés, des blessures ouvertes”, ma ancora di più il fatto che questi dettagli non siano inseriti in un contesto, che restino duramente inesplicati, galleggianti come sparsi rottami nel flusso sempre più rapinoso del testo. Che cosa ha lordato quegli abiti? Chi ha inferto quelle ferite, e perché?
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In quelle immagini, qualcuno ha voluto ravvisare un richiamo a Sade. Certo, i particolari sembrano alludere, più che a una battaglia (o, poniamo, a una rissa, a un’aggressione), a un teatro di lucida, morbosa crudeltà. Questo effetto, però, deriva sostanzialmente da una programmatica decontestualizzazione, che dà alle due epifanie una forza ipnotica, e un carattere fortemente enigmatico. Se apparissero all’interno della descrizione organica di una zuffa (“i contendenti avevano gli abiti lordati di fango, e alcuni presentavano delle ferite aperte in varie parti del corpo”), non avrebbero lo stesso effetto. E’ il loro isolamento a renderle inquietanti. Di chi sono quegli abiti sporchi? Di che cosa sono sporchi? Che relazione hanno con le ferite? E le ferite, perché restano aperte? Perché nessuno le lava, le richiude? Lo sguardo che evoca queste immagini è sconvolto e gelido al tempo stesso: nella “confusione” in cui si trova, non sa più vedere ciò che dà loro senso, non riesce a ricostruire l’intero della scena da cui sono tratte. I dettagli che ci vengono gettati in faccia non hanno spazio, né tempo, non hanno dove poggiare. “Blessures ouvertes” sono gli oggetti del mondo strappati al loro contesto, sradicati; sono le cose che nessuno “sguardo di Dio” riconduce alla sensatezza dell’Uno. Lontano da quello sguardo, ogni cosa sanguina.
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L’apparato della Distruzione, oggetto della visione finale, è sanguinante. Anche qui, come nel caso dei dettagli che precedono, io credo si debba evitare la tentazione di prendere alla lettera il testo, pensando a un’orgia sadica, a qualche perverso ordigno (appareil) di tortura e di piacere. Se rinviassimo abiti lordi, ferite slabbrate e apparati grondanti sangue all’“implicita” scena sadiana in cui sembrano assumere pienamente il loro senso, tradiremmo –io credo- le intenzioni del poeta. Baudelaire non ci sta dicendo che la libidine può portare alcuni individui al sadismo: nelle allucinazioni irrelate dell’ultima terzina, egli ci mostra –attraverso la frammentazione degli oggetti del mondo- la Distruzione che il desiderio umano produce. L’apparato “sanguina” perché le cose del mondo, le parvenze che lo costituiscono, si svuotano sotto la pressione di un volere che le eccede all’infinito, e che non sa più tenerle insieme. Nella stretta del “désir eternel” e della Noia le cose esplodono, s’insozzano, si spargono, il loro sangue cola insensatamente.
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Mi pare significativo che al primo titolo, Volupté, Baudelaire abbia preferito quello attuale. La Destruction non è l’autocritica moraleggiante di un libertino, non è una predica contro la lussuria e in difesa della temperanza, è la descrizione lucida e sconvolgente di una condizione: la nostra.
Pezzo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=43979
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