[Francesca Pili]
Premio della Giuria all’ultima edizione del festival di
Cannes, Kuolleet lehdet (Fallen
Leaves per il mercato internazionale, Foglie al vento per
quello italiano) è un film di una tenerezza, di una dolcezza, di
una delicatezza infinite, nel quale Aki Kaurismäki mette in scena una storia
d’amore, materia che, come tema centrale, non aveva ancora trattato, sebbene
nella maggior parte dei suoi film ci sia sempre stato spazio per l’amore.
Ed è una storia d’amore in puro stile kaurismäkiano, incentrata
su un lui e una lei alle prese con problemi economici, dovuti a un mondo del
lavoro ogni giorno più precario, spietato, disumano, alienante, e una
precarietà anche esistenziale che rende i protagonisti “foglie al vento”, come
il titolo suggerisce; foglie al vento che, fuor di metafora, in un parco della
città, vedremo apparire sullo schermo, per la prima volta, in uno snodo
narrativo topico, significativo e significante, soltanto a mezz’ora dalla fine
del film.
Lui e lei, personaggi che, non a caso, a lungo, nel film non
hanno un nome, sono rappresentanti del proletariato di Helsinki (è la
quarta volta che sceglie qui i propri protagonisti dopo Ombre nel
paradiso, Ariel e La fiammiferaia, tutti
girati negli anni Ottanta), e sono persone sostanzialmente sole, che si
barcamenano tra lavori senza alcuna garanzia sociale che si perdono con
estrema facilità, e rapporti umani superficiali e ridotti all’osso.
La loro è una solitudine, è una incomunicabilità, che, a inizio
film, parrebbero non solo esistenziali, ma addirittura ontologiche, e che,
invece, troveranno poi il loro antidoto e il loro ribaltamento nella
solidarietà sociale tra proletari vessati e stanchi, nell’amicizia, e,
ovviamente, nell’amore. Ma non è facile nemmeno quello, sembra che nulla
possa avere un lieto fine, fino a un certo punto della storia e dell’esistenza
dei protagonisti; poi, invece.
I rapporti umani che si creano sono sempre fatti di pochissime
parole e lunghissimi silenzi, e però di gesti concreti che, col sostegno di una
sorte benevola (il caso, la fatalità, nel cinema di Kaurismäki, sono sempre
presenti e molto importanti) e di una buona dose di resistenza, alla fine,
fanno la differenza.
Kaurismäki ha bisogno di soli 81 minuti per raccontare tutto
questo.
In un momento storico in cui sembra che i film debbano durare
sempre di più, come se la quantità fosse per forza sinonimo di qualità, non c’è
una ripresa, un oggetto, un’espressione, una parola, un paesaggio che siano di
troppo, in questi 81 minuti, perfetti, sobri, essenziali, depurati da
tutto ciò che è superfluo (perché, per Kaurismäki, less is sempre more).
Il cinema del cineasta finlandese, con le sue scenografie scarne
ed essenziali, le inquadrature perlopiù fisse e un montaggio che tiene i quadri
separati, i dialoghi rarefatti ma, al contempo, ricchi di battute esilaranti e
folgoranti, la scarsa connotazione spazio-temporale, continua ad
essere all’insegna del minimalismo.
Attorno ai suoi laconici personaggi, che racconta con il
suo peculiare e inconfondibile distacco solo apparente e senza alcuna retorica,
Kaurismäki costruisce, anzi, ricostruisce, un mondo, oltre che minimalista,
stralunato e straniante, dipinto con evidenti e caratteristici tratti retrò: la
scelta del colore è all’insegna di un cromatismo insistito, dai toni pastello,
che molte volte ricorda i quadri di Edward Hopper.
Un mondo di malinconica, quando non addirittura disperata,
rassegnazione, che cede il posto, più che alla speranza, all’azione, descritto
con delicatezza, dolcezza, poesia e umorismo.
Umorismo, sì, quel solito umorismo caustico, asciutto, venato di
ironia, kaurismäkiano, che si traduce, in questo film, soprattutto in botta e
risposta guizzanti, indimenticabili.
Non mancano neanche, e come potrebbe essere altrimenti, le
citazioni, i rimandi, le suggestioni, gli omaggi cinematografici (in primis, ma
anche letterari e musicali): c’è una scena, che è una vera chicca, tra le più
spassose, meravigliosamente paradossale, nella quale i due protagonisti vanno
al cinema a vedere I morti non muoiono di Jim Jarmusch, film
che racconta una storia di zombies – e la sola scena che vediamo è,
per l’appunto, quella degli zombies in gruppo che avanzano, camminando –;
finito il film, Kaurismäki mette in campo due degli spettatori presenti alla
visione, e, all’uscita dalla sala, uno dice all’altro: «Mi ha ricordato Il
diario di un curato di campagna di Bresson», al che l’altro
risponde: «A me ha ricordato Bande à part di Godard».
In altre scene, spesso anche solo, semplicemente, attraverso
locandine appese fuori dalle sale cinematografiche o alle pareti dei vari
locali, omaggia Yasujirō Ozu, Jesús Franco, Luchino
Visconti; mentre, nella sequenza finale, in un modo davvero bello,
icastico, poetico, commovente, Charlie Chaplin.
Foglie al vento è un film anche politico, come, in un modo o nell’altro, è ogni
film di Kaurismäki: se è ovvia e centrale, come già detto, l’attenzione nei
confronti della classe proletaria, alla quale i protagonisti e tutti gli altri
personaggi appartengono, messa in scena sia come narrazione che come satira
sociale, sono da notare pure i riferimenti costanti alla guerra in Ucraina, con
le radio presenti nella maggior parte delle scene in cui i due protagonisti
sono soli, lei a casa e lui nella pensione per lavoratori nella quale alloggia,
sia in una scena in cui sono insieme a casa di lei, che, in sottofondo,
trasmettono pressoché sempre notizie sulla situazione, intervallate, talvolta,
solamente da una particolare canzone d’amore.
Canzone d’amore che non è la sola musica presente, in un film in
cui è parte integrante e fondamentale del racconto, come sempre nel suo cinema,
nel quale la colonna sonora comunica e parla anche al posto delle parole che
non vengono dette.
Foglie al vento è cinema delle piccole cose, delle grandi emozioni, dei
sentimenti come prassi e rivoluzione.
È Kaurismäki che fa il miglior cinema kaurismäkiano possibile.
Recensione tratta da https://www.manifestosardo.org/foglie-al-vento-quando-la-solitudine-e-lincomunicabilita-cedono-il-passo-alla-solidarieta-sociale-e-allamore/
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