09 gennaio 2024

PERCHE' RILEGGIAMO DOSTOEVSKIJ?


 

Dostoevskij, perché lo leggiamo ancora e ancora


Ci siamo: mercoledì 10 gennaio, ore 20:45, il Gruppo di lettura “Grandi libri” discute L’idiota. Incontro in presenza (Biblioteca Cologno Monzese) e su Zoom, aperto a tutti, anche a chi non l’ha letto. Scrivetemi una mail luigi.gavazzi@gmail.com per avere il link

Ma perché leggiamo ancora Dostoevskij?
Azzardo la mia risposta: per le voci dei personaggi, per la loro autocoscienza divisa, incrinata (e anche per la nostra).

A distanza di molti anni e di varie letture di alcuni dei romanzi di Dostoevskij (confesso: mi manca ancora Karamazov) mi trovo ogni volta a esitare se penso a cosa dirne.
Paolo Nori, nel suo, Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij (Mondadori, 2021), che però non si presenta come una biografia ma come un “romanzo”, dice che la prima volta che ha letto Delitto e castigo, a 15 anni, il libro gli ha aperto una ferita che non ha mai smesso di sanguinare. Nori si chiede perché i libri di questo scrittore russo, così lontano da noi, continuino a farci sanguinare. Risponde – in parte – nel suo libro. Quel sanguinare comunque ha a che fare col sentirsi vivi. Il che è sempre un buon punto di partenza per parlare dei libri che leggiamo.


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Qui, e in particolare a proposito di L’idiota, che mi sembra il più sconcertante dei romanzi di Dostoevskij, anche nel senso del più complicato da decifrare e da tenere fermo nello scaffale come un libro «che ho già letto», potrei dire allora che quando lo leggi, la vita, anche la nostra, così lontana da quella di Myškin, finisce comunque nel vortice.

Il libro di Nori su Dostoevskij mi sembra meriti perché aiuta almeno a rispondere alla domanda – che inserisce nelle primissime righe – sul perché leggere oggi Dostoevskij.

Del resto migliaia di critici, scrittori, filosofi, recensori, psicanalisti, storici ecc. si sono cimentati nel commento ai libri di Dostoevskij. Non è difficile trovare un aiuto per provare a rispondere alla domanda di Nori.

La scena
Qui io mi limito a confessare che a me la cosa (uso questa parola perché è così generica da mostrarsi come un gomitolo polveroso di idee, sentimenti, emozioni, ricordi, paure, pensieri, entusiasmi ecc.) che più mi piace oggi quando leggo i romanzi del nostro Dostoevskij è immaginare – nel senso proprio di provare a vedere –  le scene che mette sulla pagina.
L’ha spiegato bene, tra gli altri, Milan Kundera quando ha scritto che Dostoevskij (insieme a Balzac) rende la scena l’elemento fondamentale della composizione del romanzo. Tutto quanto non è legato al susseguirsi delle scene viene considerato secondario. La scena in questi romanzi pone, dice sempre Kundera, il problema della realtà quale essa appare nell’attimo presente, non come sguardo retrospettivo sul passato. Ma quella di D. (e di Balzac) è una scena che si ispira all’arte drammatica, alla teatralità. «Una scena diventa, come in un’opera teatrale, artificiosamente concentrata, densa, […] e sviluppata secondo una logica improbabile; […] poiché mira a esprimere tutto l’essenziale, […] la scena deve rinunciare a tutto l’inessenziale, a tutto ciò che è banale, ordinario, quotidiano, a ciò che dipende dal caso o anche soltanto dall’atmosfera». [Milan Kundera, I testamenti traditi, Adelphi].

Polifonia (le voci)
L’altra grande categoria che a distanza di tanti anni mi affascina e guida ancora nella lettura di Dostoevskij – e tanto più di L’idiota, – è la polifonia, che Michail Bachtin ha identificato come la caratteristica decisiva in Dostoevskij. Che è poi una forma che diventa anche filosofia di vita: «Nelle sue opere compare un eroe la cui voce è costruita così come si costruisce la voce dell’autore del romanzo di tipo ordinario. La parola dell’eroe sul mondo è pienamente autonoma come l’ordinaria parola dell’autore. […] Possiede un’autonomia assoluta all’interno della struttura dell’opera e quasi risuona accanto a quella dell’autore e si unisce in un modo particolare con essa e con le voci altrettanto autonome degli altri eroi.»
Nei romanzi di D., dice Bachtin, interagiscono coscienze [i personaggi] che sono pienamente autonome. È sbagliato ridurre queste opere a un monologo filosofico di singoli eroi [per esempio di Myškin] o al «mondo oggettivo inteso monologicamente, correlato ad un’unica coscienza artistica.

Il personaggio
Nel secondo capitolo del suo libro – opera decisiva per la lettura del nostro autore, scritta nel 1929 ma rielaborata nel 1963  – Bachtin scrive che «il personaggio interessa Dostoevskij come particolare punto di vista sul mondo e su se stesso (corsivo di B.). Come posizione semantica e valutativa dell’uomo rispetto a se stesso e rispetto alla realtà che lo circonda. Per Dostoevskij è importante non quello che il suo personaggio è nel mondo, ma ciò che il mondo è per il personaggio e ciò che egli è per se stesso. […] Il personaggio come punto di vista, come sguardo sul mondo, esige metodi assolutamente particolari di scoperta e caratterizzazione artistica.» Ciò che insomma deve essere caratterizzato per D. non è il determinato modo di essere del personaggio, non la sua figura precisa, «ma il risultato ultimo della sua coscienza e autocoscienza, in definitiva l’ultima parola dl personaggio su se stesso e sul suo mondo.
«Di conseguenza come elementi dai quali si forma la figura del personaggio non servono i tratti della realtà – del personaggio e dell’ambiente che lo circonda – ma il significato che questi tratti hanno per lui, per la sua autocoscienza.. [Michail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, 1968].

Queste cose mi sembrano infinitamente più importanti della “bontà” di Myškin o della redenzione di Raskol’nikov. O almeno le trovo più nostre, mie, in questo scorcio del nuovo millennio. Senza dimenticare però, come ha scritto Giovanni Bottiroli, che nei grandi eroi di Dostoevskij l’autocoscienza agisce come un principio di dissoluzione nei confronti di ogni fissità, come un principio di tormentante scissione. Il personaggio non coincide con sé e, e nemmeno potrebbe volerlo, Il “talento crudele” di D. lo ha condannato a torturare se stesso.» [Bottiroli. Che cos’è la teoria della letteratura, Einaudi].

Dunque la polifonia di D., secondo Bachtin, ci spiega Bottiroli, «vuol dire pluralità di voci divise, incrinate, internamente dialettiche o dialogiche. Vuol dire anche che nessuna voce riuscirà mai a sovrastare le altre, nessun punto di vista si imporrà definitivamente sugli altri e ne decreterà la compiutezza. Ribellarsi all’altro è sempre possibile.»
E ancora: «un punto rimane fermo: la condizione di possibilità della polifonia va individuata nel conflitto e non nel molteplice. Soltanto una molteplicità elaborata in una prospettiva scissionale, e dominata da essa diventa polifonica».
Non siamo dunque, con i personaggi di D., e con la voce stessa dell’autore/narratore fra esse, in una interazione fra voci indivise, che è solo una multifonia e non una polifonia. Una voce nei romanzi di D. entra in contatto radicalmente con le altre perché «non può mai chiudersi in se stessa: l’alterità la determina sin dall’inizio». [Bottiroli, cit.].

Insomma, è un mondo, il mondo di D., dove c’è spazio anche per chi, con la propria autocoscienza divisa, in divenire, si è aperto alle altre voci. Autocoscienza che rifiuta le definizione imposte dalle voci del potere che già la abitano e vorrebbero parlare al suo posto. Il soggetto che si chiude alle altre voci, «chiude le porte dopo che qualche estraneo ha già avuto il tempo di introdursi. L’apertura e il conflitto diventano allora condizioni necessarie per conquistare una parola propria, un proprio punto di vista.»

Pezzo ripreso da:  https://gruppodilettura.com/2024/01/09/dostoevskij-perche-lo-leggiamo-ancora-e-ancora/


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