Corpi, territori e donne palestinesi
La de-colonizzazione dei territori è inseparabile dalla de-colonizzazione dei corpi. E quel che avviene a Gaza non sfugge a questa logica, perché lo Stato di Israele – come dicono i versi della poetessa palestinese-canadese Rafeef Ziadah il cui video trovate qui sotto, è stato progettato per l’esclusività. È uno Stato installato dal colonialismo europeo sulla terra e sulla pelle. Nel corso delle grandi manifestazioni del 25 novembre in Spagna sono stati evidenziati i legami di oppressione patriarcale che condividono il corpo delle donne palestinesi e il loro territorio occupato. Tre ragazze impegnate in Juventud por el Clima – Fridays For Future España spiegano che assumere il femminismo come lotta contro il regime patriarcale-capitalista trasforma il movimento nella lotta contro tutta la violenza perpetrata da quel regime. Militarismo, degrado ambientale e patriarcato vanno intesi in maniera congiunta. La lotta del popolo palestinese – e di qualsiasi altro popolo colonizzato e oppresso – non può non essere una lotta che riguarda il femminismo, così come il femminismo non può non investire chi si batte per la libertà delle donne e degli uomini palestinesi. La violenza patriarcale trascende i corpi, gli orologi e le frontiere
Ancora oggi i nostri corpi vengono letti attraverso lenti che li vedono come oggetti, sono tuttora intesi in termini di proprietà. Cinquantacinque donne assassinate nel 2023 (1). Questa cifra serve a denunciare una violenza strutturale che ci colpisce in tutte le sue forme. Come glielo vai a dire a Kate Millet o a Judith Butler che, ancora oggi, la lotta per l’uguaglianza viene intesa solo come “lotta della donna”, che il binarismo ha preso il sopravvento e ha costruito un femminismo liberale fatto di politiche di discriminazione positiva e di segni rossi sulla guancia? Chi ce lo avrebbe detto che sarebbe stato così facile, per il capitalismo, prenderci per mano e iniziare un dolce cammino lungo la strada del consumo di empowerment, che sarebbe riuscito a convincerci che patriarcato e capitale non sono – in nessun caso – amici intimi?
La violenza polarizza e si insinua in tutte le oppressioni vissute. La violenza è parte dell’oppressione in sé. In un contesto che va di guerra in guerra, di conflitto in conflitto, per quali classi, corpi, “razze”, categorie di sesso-genere sono pensate le politiche contro la violenza di genere? Da dove deriva il quadro egemonico femminista? È possibile trattarlo in forma non strutturale?
Addentrarci nella dimensione strutturale della violenza ci conduce su un terreno molto più diffuso e paludoso; parliamo di violenza simbolica, di riproduzione inconscia della disuguaglianza e di cultura androcentrica. Parliamo di mettere in relazione il sistema produttivo con il patriarcato. A questo livello di analisi appaiono fondamentali gli studi femministi che fanno riferimento alla strutturazione dualistica dei valori culturali. In questo modo, e secondo i principi dell’antica filosofia occidentale, alcuni elementi culturali sono distribuiti secondo assi differenziati e opposti. È così che la civiltà, la ragione, lo spazio pubblico e la violenza vengono attribuiti al maschile in contrapposizione al femminile inteso come selvaggio, irrazionale, privato e gentile. Il maschile come culturale, il femminile come naturale. La vittoria e il controllo del culturale sul naturale. Di conseguenza, la storia occidentale si è sviluppata a partire da e verso un binarismo simbolico apparentemente irreconciliabile. L’emergere del capitalismo, fortemente legato alla logica maschile del potere e del dominio, non farebbe altro che continuare a rafforzare il dualismo solo nella misura in cui i suoi benefici si basano su una divisione sessuale del lavoro.
I contributi radicali dell’ecofemminismo, come quelli di Val Plumwood o Andrée Collard, vanno oltre, incidendo nello spazio che il femminile condivide con tutto ciò che appartiene all’ambito del selvaggio: il resto delle specie e i popoli non civilizzati. La ragione civilizzatrice, la scienza moderna illuminista, il maschilismo, l’industria militare o il capitalismo esercitano così un’oppressione strutturale sugli attori, sugli elementi, sui valori definiti come opposti. Il risveglio della consapevolezza di questa associazione culturale-simbolica-pre-consapevole ci permette di comprendere come le diverse lotte – antirazzista, ambientalista, antimilitarista, femminista, anticapitalista, antispecista o lgtbiq+ – siano legate dallo stesso filo di oppressione.
Assumere il femminismo come lotta contro il regime patriarcale-capitalista vuol dire trasformare il movimento in una lotta contro tutta la violenza da esso perpetrata. Proteggere la biodiversità del nostro territorio è femminista. Lottare contro una legge sull’immigrazione profondamente violenta è femminista. Boicottare le imprese estrattiviste e di sfruttamento è femminista. Denunciare l’industria delle armi e la violenza coloniale è femminista.
Nel momento in cui comprendiamo che il patriarcato capitalista si basa sull’oppressione di un altro soggetto sottomesso ed escluso, possiamo iniziare a tracciare il profilo delle diverse oppressioni che attraversano corpi e territori. Sempre gli stessi corpi. Sempre gli stessi territori. Gaza non sfugge a questa logica. La radice paterna del potere mette in atto i suoi meccanismi di dominio attraverso lo Stato-nazione militarizzato. Il potere civilizzato parla, il popolo selvaggio tace. Militarismo, degrado ambientale e patriarcato vanno intesi insieme. La lotta del popolo palestinese – e di ogni popolo colonizzato e oppresso – è oggi una lotta che riguarda il femminismo. La violenza patriarcale trascende i corpi, gli orologi e i confini.
La Spagna gioca un ruolo essenziale in tutto questo. Le banche spagnole finanziano progetti di energia solare nei Territori Palestinesi occupati. Questo greenwashing potenzia la violenza contro il territorio e le persone palestinesi, che sono sempre più lontane dal poter raggiungere la propria sovranità. Banco Santander, BBVA, CaixaBank, Abanca, Sabadell, Bankinter, Cajamar, Unicaja, Catalana Occidente sono alcune delle entità coinvolte in progetti di energia solare sviluppati nei Territori Occupati della Palestina. Come? Attraverso aziende spagnole come Abengoa, General Electric, SolarEdge, First Solar, SunTech o Siemens AG. L’intero caso è compreso e raccontato nel rapporto “La complicità del settore finanziario spagnolo nell’occupazione della Palestina. Il caso dell’energia solare e del greenwashing”.
Fortunatamente, non sono poche le voci si sono levate a favore del popolo palestinese. Ad esempio, il 25 novembre scorso, quando il rosa si è fuso con il rosso, il verde e il nero, formando l’arcobaleno che caratterizza la difesa congiunta di tutte quelle lotte condivise. Nel corso delle diverse manifestazioni sono stati evidenziati i legami di oppressione patriarcale che condividono il corpo delle donne palestinesi e il territorio palestinese occupato. La decolonizzazione delle terre è inseparabile dalla decolonizzazione dei corpi. Allo stesso modo, non possiamo separare la questione femminista dagli interessi estrattivisti dello Stato israeliano. Proprio come le terre palestinesi svuotate dalle persone e confiscate vengono utilizzate come campi di addestramento militare e per testare le armi, così funzionano anche come terreno su cui sviluppare il “solare” per la produzione di energia. Il saccheggio territoriale è accompagnato da un chiaro saccheggio delle fonti energetiche in un contesto globale di privatizzazione e lotta per le risorse naturali.
Di fronte a questa situazione dobbiamo organizzarci, posizionarci e boicottare Israele per chiedere un “cessate il fuoco” in difesa dei diritti umani. Le campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) sono lo strumento di organizzazione collettiva e di consumo per la pressione politica ed economica nato al tempo della costruzione illegale del muro in Cisgiordania nel 2004. Si tratta di evitare il consumo di prodotti israeliani, identificati anche nei rapporti del BDS così come di conoscere il legame delle aziende con l’amministrazione israeliana. Negli ultimi mesi, i tre marchi internazionali più importanti sono stati Puma, per essere stato sponsor della Israeli Soccer Association; HP (Hewlett Packard), per essere l’attrezzatura informatica essenziale per la politica israeliana; e Carrefour, per gli accordi di franchising israeliani che operano nei Territori Occupati.
Non si può parlare di femminismo senza prendere posizione a favore delle donne palestinesi. È necessario pronunciarsi, sostenere che l’occupazione, l’estrattivismo e la colonizzazione significano violenza e oppressione della terra e delle donne. Le storie di lotta devono essere ricordate per diventare visibili. Non permettiamo che il nostro silenzio le cancelli; che la violenza patriarcale le saccheggi. I femminismi mostrano chiaramente la necessità di parlare. La necessità di raccontare, mostrare e commentare l’oppressione che viene esercitata, perché ciò di cui non si parla non esiste. Riprendiamo la parola per non cadere nel silenzio, viviamo la memoria come forma di lotta.
Come racconta bene la potessa palestinese-canadese Rafeef Ziadah nella sua poesia intitolata “Ogni volta che respiro”: «Sono le tre generazioni di donne che non hanno mai superato i 40 anni. Cancellate: in un modo o nell’altro. Proiettili o ricordi di proiettili. Ce le hanno rubate. Erano le persone sbagliate, della religione sbagliata, in uno Stato progettato per l’esclusività. Uno Stato installato sulla terra e sulla pelle”.
(1) Il dato si riferisce alle donne uccise in Spagna nel 2023 da un uomo che era o era stato in rapporto di coppia con la donna assassinata. Si tratta del cosiddetto “femminicidio intimo”. Dal 2003, cioè da quando si sono cominciati a contare questo tipo di assassinii, le donne uccise sono 1.238
Martina Di Paula López, Sara Méndez e Luisa Cantos Martínez fanno parte di Juventud por el Clima – Fridays For Future España
fonte e versione originale in Pikara Magazine
traduzione per Comune-info: marco calabria
Pikara Magazine è stato fondato 13 anni fa da quattro ottime giornaliste dei Paesi Baschi. Noi di Comune lo seguiamo da allora. Pratica un giornalismo di qualità, con una prospettiva femminista, critica, trasgressiva e divertente. Non si definisce una rivista specializzata nel femminismo, si occupa in modo brillante e profondo di questioni sociali, politiche e culturali con una prospettiva radicalmente femminista.
Pezzo ripreso da: https://comune-info.net/corpi-territori-e-donne-palestinesi/
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