Discutendo di Arbasino che loda il Gramsci critico teatrale, mi è venuta in
mente una recensione strepitosa di quest'ultimo del dramma di Ibsen, scritta in
un italiano traslucido, dramma che dà il destro al pensatore sardo-torinese per
stendere alcune stimolanti riflessioni sulla condizione femminile nella società
italiana dell'età giolittiana.
Questa recensione, che ripropongo di seguito, mi colpì fin da giovane. Non a caso la citai in un capitolo della mia tesi di laurea nel lontano 1975. (fv)
"Emma Gramatica, per la sua serata d’onore, ha fatto rivivere, dinanzi a un
pubblico affollatissimo di cavalieri e di dame, Nora della "Casa di
bambola", di Enrico Ibsen. Il dramma evidentemente era nuovo per la
maggioranza degli spettatori. E la maggioranza degli spettatori se ha
applaudito con convinzione simpatica i primi due atti, è rimasta invece
sbalordita e sorda al terzo, e non ha che debolmente applaudito: una sola
chiamata, più per l’interprete insigne che per la creatura superiore che la
fantasia di Ibsen ha messo al mondo. Perché il pubblico è rimasto sordo, perché
non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all’atto profondamente
morale di Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare
solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella profondità del
proprio io le radici robuste del proprio essere morale, per adempiere ai doveri
che ognuno ha verso se stesso prima che verso gli altri?
Il dramma, perché sia veramente tale, e non inutile iridescenza di parole,
deve avere un contenuto morale, deve essere la rappresentazione di un urto
necessario tra due mondi interiori, tra due concezioni, tra due vite morali. In
quanto l’urto è necessario il dramma ha immediata presa sugli animi degli
spettatori, e questi lo rivivono in tutta la sua integrità, in tutte le
motivazioni da quelle più elementari a quelle più squisitamente storiche. E
rivivendo il mondo interiore del dramma, ne rivivono anche l’arte, la forma
artistica che a quel mondo ha dato vita concreta, che quel mondo ha concretato
in una rappresentazione viva e sicura di individualità umane che soffrono,
gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse, per migliorare
continuamente la tempra morale della propria personalità storica, attuale,
immersa nella vita del mondo. Perché allora gli spettatori, i cavalieri e le
dame che l’altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente
necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un certo punto
vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti sbalorditi e quasi
disgustati della conclusione? Sono immorali questi cavalieri e queste dame, o è
immorale l’umanità di Enrico Ibsen?
Né l’una cosa né l’altra. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro
costume alla morale più spiritualmente umana. È avvenuta semplicemente una
rivolta del nostro costume (e voglio dire del costume che è la vita del
pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della nostra borghesia
grossa e piccina, fatto in gran parte di schiavitù, di sottomissione
all’ambiente, di ipocrita mascheratura dell’animale uomo, fascio di nervi e di
muscoli inguainati nella epidermide voluttuosamente pruriginosa, a un altro
costume, a un’altra tradizione, superiore, più spirituale, meno animalesca. Un
altro costume, per il quale la donna e l’uomo non sono più soltanto muscoli,
nervi ed epidermide, ma sono essenzialmente spirito; per il quale la famiglia
non è più solo istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto,
che si completa per l’intima fusione di due anime che ritrovano l’una
nell’altra ciò che manca a ciascuna individualmente: per il quale la donna, non
è più solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente per essi un
amore che è fatto di spasimi della carne e di tuffi di sangue, è una creatura
umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che
ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente.
Il costume della borghesia latina grossa e piccola si rivolta, non
comprende un mondo così fatto. L’unica forma di liberazione femminile che è
consentito comprendere al nostro costume, è quella della donna che diventa
"cocotte". La "pochade" è davvero l’unica azione drammatica
femminile che il nostro costume comprenda; il raggiungimento della libertà
fisiologica e sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi, dei
muscoli e dell’epidermide sensibile.
Si è fatto un grande scrivere in questi ultimi tempi sulla nuova anima che
la guerra ha suscitato nella borghesia femminile italiana. Retorica. Si è
esaltata l’abolizione dell’istituto dell’autorizzazione maritale come una prova
del riconoscimento di questa nuova anima. Ma l’istituto riguarda la donna come
persona di un contratto economico, non come umanità universale. È una riforma
che riguarda la donna borghese come detentrice di una proprietà, e non muta i
rapporti di sesso e non intacca neppure superficialmente il costume. Questo non
è stato mutato, e non poteva esserlo, neppure dalla guerra. La donna dei nostri
paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane
come prima la schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni
spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle, più schiava ancora quando
ritrova l’unica libertà che le è consentita, la libertà della galanteria.
Rimane la femmina che nutre di sé i piccoli nati, la bambola più cara quanto è
più stupida, più diletta ed esaltata quanto più rinunzia a se stessa, ai doveri
che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi agli altri, siano questi
altri i suoi familiari, siano gli infermi i detriti d’umanità che la
beneficenza raccoglie e soccorre maternamente. L’ipocrisia del sacrifizio
benefico è un’altra delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro
costume.
Nostro costume. Cioè costume che ha importanza nella storia attuale, perché
è il costume della classe che è della storia stessa protagonista. Ma accanto a
esso è un altro costume in formazione, quello che è piú nostro, perché è della
classe cui apparteniamo noi. Costume nuovo? Semplicemente costume che si
identifica meglio con la morale universale, che aderisce tutto alla morale
universale, tale perché profondamente umana, perché
fatta di spiritualità piú che di animalità, di anima piú che di economia o
di nervi e muscoli. Le cocottes potenziali non possono comprendere il dramma di
Nora Helmar.
Lo possono comprendere, perché lo vivono quotidianamente, le donne del proletariato, le donne che lavorano, quelle che producono qualcosa di piú che non siano i pezzi d'umanità nuova e i brividi voluttuosi del piacere sessuale. Lo comprendono, per esempio, due donne proletarie che io conosco, due donne che non hanno avuto bisogno né del divorzio né della legge per ritrovare se stesse, per crearsi il mondo dove fossero meglio capite e piú umanamente se stesse. Due donne proletarie le quali, col consentimento pieno dei loro mariti, che non sono cavalieri ma lavoratori semplici e senza ipocrisie, hanno abbandonato la famiglia, e sono andate con l'uomo che meglio rappresentava l'altra loro metà, e hanno continuato nella antica dimestichezza, senza che perciò si creassero le situazioni boccaccesche che sono un retaggio piú proprio della borghesia grossa e piccola dei paesi latini. Esse non avrebbero grossolanamente riso della creatura che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo, perché avrebbero riconosciuto in lei una sorella spirituale, la testimonianza artistica che il loro atto è compreso altrove, perché essenzialmente morale, perché aspirazione di anime nobili a una umanità superiore, il cui costume sia pienezza di vita interiore, escavazione profonda della propria personalità e non vile ipocrisia, solletico di nervi ammalati, animalità grassa di schiavi diventati padroni."
Antonio Gramsci, 22 marzo 1917, in l' "Avanti!" ed. torinese.
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