“POESIA, MITO, RIVOLUZIONE”. UN ESTRATTO DA “L’ALTRA VOCE”
DI OCTAVIO PAZ
di minima&moralia pubblicato
giovedì, 11 Gennaio 2024
Pubblichiamo, ringraziando l’editore Mimesis, un estratto da “L’altra voce. Poesia e fine del secolo” (la traduzione e la cura del volume
sono a opera di Massimo Rizzante). Questo testo è una parte del discorso
pronunciato da Paz in occasione della consegna del Premio Alexis de Tocqueville
da parte del Presidente della Repubblica francese François Mitterand.
*
La Révolution, par le sacrifice,
confirme la superstition.
Charles Baudelaire
Non è facile dire chiaramente e in poche parole quel che provo:
emozione, gratitudine, sorpresa. Prima di tutto: mi ha commosso che Lei, signor
Presidente, abbia avuto la bontà di consegnarmi personalmente il premio Alexis
de Tocqueville. Non dimenticherò mai il suo gesto. Le sue parole generose
accrescono la mia emozione: in esse scorgo quel prezioso segno di amicizia che
a volte uno scrittore rivolge a un collega che parla una lingua diversa, anche
nel caso in cui le loro lingue siano vicine come lo spagnolo e il francese. La
mia gratitudine, per questo motivo, è doppia: è destinata sia all’uomo di Stato
sia allo scrittore di lingua francese, una lingua la cui letteratura è stata la
mia seconda patria spirituale.
Il mio ringraziamento ai membri della Fondazione Alexis de
Tocqueville si mescola a una leggera e piacevole sensazione di irrealtà. Quando
il signor Alain Peyrefitte ha avuto la gentilezza di annunciarmi la decisione
dei giurati, la mia prima reazione, lo confesso, è stata di stupore e perfino
di incredulità: perché a me, a un poeta? Ben presto ne ho intravisto la
ragione: più volte, mosso tanto dagli eventi della vita quanto dai cambiamenti
del mondo e del mio paese, ho partecipato al dibattito pubblico e ho scritto
alcuni libri sulla storia e sulla politica del nostro tempo. Al di là dei
discutibili meriti dei miei scritti, immagino che si sia voluto premiare me,
scrittore di un continente spesso lacerato da un fozato e dispotico immobilismo
e dalle convulsioni di partiti faziosi e settari, a causa soprattutto della mia
fedeltà. Ho in effetti sempre cercato di essere fedele a quell’atteggiamento,
di cui la vita e l’opera di Alexis de Tocqueville sono un esempio, che si può
riassumere così: la mia libertà comincia con il riconoscimento della libertà
degli altri. Agli albori dell’età moderna, di fronte a uno spettacolo che poi
si è ripetuto molte volte – il tiranno travestito da liberatore –,
Chateaubriand scrisse queste parole profetiche:
“La Rivoluzione mi stava per conquistare… ma vidi la prima testa
mozzata infilzata a un palo e me ne allontanai. Ai miei occhi il crimine non
sarà mai un argomento per difendere la libertà; non conosco nulla di più
servile, di più vile, di più ottuso di un terrorista. Non ho forse poi
incontrato questa razza di Bruti al servizio di Cesari e della loro polizia?”
Sin dall’adolescenza ho scritto poesie e non ho smesso di
scriverne. Ho voluto essere poeta e nient’altro. Nei miei libri in prosa mi
sono proposto di servire la poesia, giustificarla e difenderla, spiegarla agli
altri e a me stesso. Presto ho scoperto che la difesa della poesia, disprezzata
nel nostro secolo, era inseparabile dalla difesa della libertà. Da ciò il mio
interesse appassionato per le questioni politiche e sociali che agitano il
nostro tempo. Dopo la Seconda guerra mondiale ho conosciuto André Breton e i
suoi amici. Oggi non condivido molte delle sue idee filosofiche ed estetiche,
ma conservo viva e intatta nei suoi confronti la mia ammirazione. Nei suoi
scritti e nella sua vita la libertà e la poesia possiedono entrambe l’aspetto
della fiamma: seducente e impetuoso. Breton, come del resto Chateaubriand
all’estremo opposto, non confuse mai il tiranno con il liberatore. La libertà
non è una filosofia e non è neppure un’idea: è un moto della coscienza che ci
porta, in certi momenti, a pronunciare un monosillabo: Sì o No. Nel corso di un
brevissimo spazio di tempo vediamo disegnarsi alla luce di un lampo il segno
contraddittorio della natura umana.
Nel corso della Storia e nelle più diverse circostanze i poeti
hanno partecipato alla vita politica. Non mi riferisco a una concezione della
poesia come di un’arte al servizio dello Stato, di una Chiesa o di
un’ideologia. Sappiamo bene che questa concezione, antica quanto il potere, ha
prodotto sempre gli stessi risultati: gli Stati crollano, le Chiese si
disgregano o si fossilizzano, le ideologie si dissolvono, ma la poesia resta.
No: alludo alla libera partecipazione del poeta agli affari della città. Anche
in società che non hanno conosciuto la libertà politica, come l’antica Cina,
non pochi furono i poeti che contribuirono al funzionamento della cosa
pubblica. Molti di loro non esitarono a censurare gli abusi del Figlio del
Cielo e non furono rari quelli che a causa delle proprie opinioni subirono il
carcere, l’esilio o altre pene. In Occidente questa tradizione è stata molto
presente: è sufficiente ricordare i poeti greci e romani. Due dei più grandi
poeti della nostra tradizione, il fiorentino Dante e l’inglese Milton, sono
stati anche importanti pensatori politici. Al primo dobbiamo il trattato De
monarchia. Al secondo alcune audaci dichiarazioni a favore dell’emancipazione
della coscienza, come la sua celebre difesa del diritto al divorzio, o la sua critica
alla legge sulla censura che egli ebbe il coraggio di pronunciare davanti allo
stesso Parlamento che l’aveva emanata.
Questi precedenti storici non ci devono far dimenticare che
esiste una fondamentale differenza tra quegli atteggiamenti e la situazione dei
poeti moderni. I poeti cinesi censuravano il trono, ma appartenevano alla
burocrazia imperiale; quasi tutti erano alti funzionari e la censura faceva
parte della tradizione morale e intellettuale confuciana. Dante e Milton si
videro coinvolti in controversie in cui la politica era indistinguibile dalla
religione. Per entrambi il fondamento delle loro opinioni era la teologia.
Combatterono in questo mondo con gli occhi rivolti all’altro e con argomenti
che venivano dall’al di là. Dante pone nell’ultimo girone dell’Inferno, a lato
di Giuda Iscariota, l’arcitraditore, due nemici dell’Impero: Bruto e Cassio.
Per Dante la realtà di questo mondo era una figura della vera realtà dell’altro
mondo; per que- sto motivo i delitti politici sono giudicati da un tribunale
divino. Nelle città della Grecia e nella Repubblica di Roma l’influenza della
religione fu minore; le questioni che dividevano i cittadini erano politiche e
non erano impregnate di teologia. Tuttavia, l’analogia con l’antichità
greco-latina è ingannevole; in quest’ultima manca un elemento fondamentale che
è il segno distintivo della nascita dell’età moderna: l’idea di Rivoluzione. Si
tratta di un’idea che non poteva sorgere se non nella nostra epoca, poiché è
erede della Grecia e del cristianesimo, cioè, della filosofia e del desiderio
di redenzione. In nessun altro periodo storico l’idea di Rivoluzione ha avuto
tale potere di attrazione. Le altre civiltà sperimentarono grandi cambiamenti –
tumulti, cadute di dinastie, guerre fratricide –, ma solo i loro mutamenti
religiosi possono paragonarsi alla nostra passione per la Rivoluzione. Si
tratta di un’idea che per più di due secoli ha ipnotizzato molte coscienze e
varie generazioni. È stata la stella polare che ha guidato le nostre
peregrinazioni e il sole segreto che ha illuminato e riscaldato le veglie di
molti solitari. In essa si sono ritrovate le certezze della ragione e le
speranze dei movimenti religiosi.
Sin dal momento in cui è apparsa all’orizzonte storico, la
Rivoluzione è stata una nozione dai due volti: ragione fattasi atto e atto
provvidenziale, determinazione razionale e azione miracolosa, Storia e mito.
Figlia della ragione nella sua forma più pura e rigorosa, la critica è stata, a
immagine e somiglianza della ragione, creatrice e distruttrice; o, detto ancora
meglio, in grado di creare mentre distruggeva. La Rivoluzione prende forma nel
momento in cui la critica si trasforma in utopia e l’utopia si incarna in
alcuni uomini e nelle loro azioni. La discesa della ragione sulla terra è stata
una vera epifania e come tale è stata vissuta dai suoi protagonisti e, in
seguito, dai suoi interpreti. Vissuta e non pensata. Per quasi tutti la
Rivoluzione è stata la conseguenza di certi postulati razionali e
dell’evoluzione generale della società; quasi nessuno si è reso conto di
assistere a una resurrezione. Certo, la novità della Rivoluzione pare assoluta;
rompe con il passato e instaura un regime razionale radicalmente diverso da
quello antico. Tale novità assoluta, tuttavia, è stata vista e vissuta come un
ritorno agli inizi. La Rivoluzione è il ritorno al tempo delle origini, al
tempo prima di ogni ingiustizia, prima di quel momento in cui, come affermava Rousseau,
tracciando i confini su un pezzo di terra, un uomo dicesse: “Questo è mio”.
Quel giorno cominciò l’ineguaglianza e con essa la discordia e l’oppressione:
la Storia. Insomma, la Rivoluzione è un atto eminentemente storico e ciò
nonostante un atto che nega la Storia: è il tempo nuovo che inaugura e la
restaurazione del tempo originario. Figlia della Storia e della ragione, la
Rivoluzione è figlia del tempo lineare, progresivo e irripetibile; figlia del
mito, la Rivoluzione è un momento del tempo ciclico quale quello degli astri e
delle stagioni. La natura della Rivoluzione è duplice, ma noi non possiamo
pensarla se non separando i due elementi e scartando quello mitico come un
corpo estraneo… E non possiamo viverla se non collegandoli. La consideriamo un
fenomeno che risponde alle previsioni della ragione; la viviamo come un
mistero. In questo enigma risiede il segreto del suo fascino.
L’Età Moderna ha rotto l’antico vincolo che univa la poesia al
mito, ma solo per unire la poesia all’idea di Rivoluzione. Tale idea,
proclamando la fine dei miti, si è convertita nel mito principale della
modernità. La storia della poesia moderna, dal romanticismo ai giorni nostri, è
stata la storia delle sue relazioni con quel mito, chiaro e coerente come una
dimostrazione geometrica, tempestoso come le rivelazioni dell’antico caos.
Relazioni incendiarie ed estreme: dalla seduzione all’orrore, dalla devozione
all’anatema, dall’idolatria all’abiura – tutta la gamma delle due grandi
passioni umane: l’amore e la religione. L’entusiasmo di Hölderlin davanti a
Napoleone e la delusione che provò nel vederlo diventare imperatore così come
le simpatie girondine di Wordsworth e l’avversione che gli ispirò Robespierre
sono solo due esempi delle oscillazioni dei romantici tedeschi e inglesi di
fronte alla Rivoluzione. Tali oscillazioni, spesso violente, si ripeterono nel
corso del XIX secolo nei confronti di ogni movimento rivoluzionario e sono
culminate nel XX secolo nelle grandi ondate di sentimenti contraddittori –
ancora una volta dal fanatismo al disgusto – che hanno provocato nel mondo
intero la prolungata influenza della Rivoluzione bolscevica.
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