24 gennaio 2024

IL DESERTO è il mio posto preferito

 


Oggi a Roma alle 18, presso la sala della Chiesa Valdese di Piazza Cavour, Paolo Ricca, Laura Pennacchi, Maria Grazia Ruggerini e Goffredo Fofi presentano il romanzo di Paola Vinay, Il deserto è il mio posto preferito per guidare, Argolibri, Ancona 2023. Ne proponiamo un estratto.


IL DESERTO E' IL MIO POSTO PREFERITO PER GUIDARE 

di Paola Vinay


Gli anni 1968 e 1969 […] hanno conosciuto in Italia e in Europa un fermento analogo a quello che già negli anni precedenti avevamo vissuto negli Stati Uniti. Il movimento studentesco fu molto attivo in vari Paesi europei, sia pure assumendo in ciascuno di essi caratteristiche peculiari. In Italia il movimento assunse articolazioni diverse, frammentandosi nel tempo in gruppi extra-parlamentari, alcuni più moderati, altri più estremisti, fino all’eversione, dando luogo tutti ad un pullulare di pamphlet, quotidiani e riviste di riferimento.

Contemporaneamente, si verificò in quegli anni in Italia un’ingente mobilitazione della classe operaia per rivendicare contratti più favorevoli e nuovi diritti di rappresentanza. In alcuni casi la mobilitazione studentesca e quella operaia assunsero forme di solidarietà reciproca.

Tutto questo, insieme ad altri movimenti nella società, nella chiesa, nella psichiatria e al movimento per i diritti civili promosso dal Partito Radicale, portò a mutamenti nel costume, a un inizio di modernizzazione della società italiana e alla conquista di nuovi diritti per gli studenti, i lavoratori, i cittadini con problemi psichiatrici, i fedeli e l’individuo, con il divorzio e con il diritto all’obiezione di coscienza. Una società più moderna e più libera cominciava a delinearsi anche nel nostro Paese.

 

Questo pullulare di lotte, movimenti, iniziative a livello della società civile potei seguirlo in base ai racconti degli amici che vi parteciparono, sulla stampa movimentista, sulle riviste politiche e sui quotidiani. Ma, personalmente, in quegli anni non potei partecipare ad alcuna iniziativa o manifestazione. Quello, infatti, fu un periodo che mi vide costretta a letto e a una vita molto prudente a causa dei problemi connessi con la sfera riproduttiva. Era iniziato per me un periodo travagliato e difficile.

Con nostra grande felicità pochi mesi dopo il rientro a Milano rimasi incinta per la seconda volta. Ma anche in questo caso entro il secondo mese di gravidanza cominciai ad avere delle perdite che, data l’esperienza precedente, mi allarmarono non poco. Un ginecologo mi disse di stare sempre a letto, alzandomi solo per andare in bagno. Ubbidii e passai un lungo mese a letto, consolandomi solo con le letture. Spesso soffrivo di mal di testa molto forti che mi impedivano qualsiasi movimento. Ma questa forzata immobilità non servì a niente: una notte, alla scadenza del terzo mese, ebbi una forte emorragia. Andammo subito in ambulanza al grande ospedale pubblico di Milano. A Massimo non fu consentito di entrare e dovette tornare a casa. Io fui portata al pronto soccorso e l’unica cosa che mi fecero fu una lastra ai polmoni per verificare che non avessi un’infezione polmonare contagiosa. Nient’altro, a parte una borsa di ghiaccio sul basso ventre. Poi fui portata in barella nel corridoio del reparto di ginecologia e lasciata lì fino alla mattina seguente, senza un’adeguata copertura. Eravamo venuti di corsa all’ospedale e non avevo avuto neanche il tempo di prendere una vestaglia o qualcosa di caldo per coprirmi: avevo perso molto sangue e avevo freddo. La mattina l’infermiera di turno, con fare imperativo, mi disse di andare in bagno. Lì grossi grumi di sangue vennero giù; non tirai lo sciacquone, ma chiamai subito l’infermiera perché vedesse.

 

Successivamente fui mandata, a piedi, alla visita: un ginecologo, circondato da vari studenti, sentenziò: «Come potete vedere si tratta di un chiaro caso di aborto!». Mi mandarono da sola a piedi, mentre tremavo dal freddo, in una sala dove c’era una panca e una barella. Attesi che arrivasse un medico. Quando arrivò mi fece stendere sulla barella e mentre preparava l’anestesia, cominciò a fare battute maligne del tipo: «Ah, questa volta ti è andata male!», insinuando che quell’aborto lo avevo provocato io. Mi infuriai, perché, anche se non ero il tipo che piange e si dispera magari strappandosi i capelli, soffrivo molto in silenzio per la seconda gravidanza andata male. Mi rivolsi a quell’uomo, indegno di essere un medico, dicendogli: «Come si permette, cosa ne sa lei di me? Anche se fosse, non sono fatti suoi!». Poi cercai di calmarmi nel timore che l’anestesia non mi facesse effetto. Per fortuna fece effetto, mi addormentai e mi svegliai qualche tempo dopo nella camerata del reparto. Massimo era arrivato, finalmente lo avevano fatto entrare. La prima cosa che gli dissi aprendo gli occhi fu: «Hai visto che casino qui?». E lui: «Piano, ché ti sentono tutti!». «Meglio», pensai.

 

Nella camerata c’erano parecchi letti e assolutamente nessuna privacy. L’igiene lasciava molto a desiderare, ho visto perfino uno scarafaggio. I medici arrivavano con il loro corteo, davano una veloce occhiata alle pazienti e se ne andavano. Avevo forti dolori. Ricordavo bene che la volta precedente, a Berkeley, non avevo avuto alcun dolore di rilievo. Lo dissi all’infermiera e lei mi disse di non fare la lagna che non era niente ed aggiunse, anche lei con fare allusivo: «La prossima volta ci penserà!». Ho odiato il personale sanitario di quell’ospedale e, ancora oggi, quando ripenso al modo in cui fui trattata e al modo con cui, con ogni probabilità, trattavano le donne che abortivano, spontaneamente o volontariamente non ha importanza, tremo di rabbia. Volevo scrivere un articolo di denuncia sul giornale, ma non ce la feci: era troppo doloroso ricordare.

Se, almeno, avessero fatto bene il loro mestiere, ma non fu così. Dopo quaranta giorni, ebbi un’emorragia molto forte. Non c’era ancora […] il Servizio Sanitario Nazionale, ma nel frattempo ci eravamo rivolti a un ginecologo privato che mi fece ricoverare nella clinica dove operava. Mi disse che il raschiamento non era stato fatto bene, che andava rifatto e che probabilmente l’aborto era già avvenuto ai primi sintomi e il fatto di essere restata ferma a letto non era servito a niente, anzi poteva aver contribuito al restringimento dell’utero, rendendo quindi più difficile ripulirlo bene con il raschiamento. Aggiunse che molti ginecologi raccomandavano il letto per conformarsi alle aspettative di madri e nonne, ma in realtà, in caso di minaccia di aborto, è meglio proseguire con le normali attività pur senza fare sforzi.

 

Data l’ingente quantità di sangue perso, furono necessarie due trasfusioni prima del nuovo intervento e una dopo. Ricordo che Massimo era presente all’ultima trasfusione: l’anestesista, mentre cercava la vena adatta per infilare l’ago della trasfusione, scherzava con l’infermiera, ma, così distratto, non riusciva a prendere la vena e dovette fare vari tentativi. A quel punto Massimo si sentì male e, per non svenire, si rifugiò in bagno!

Stavolta il raschiamento fu fatto bene e non accusai alcun dolore. Ripresi colore dopo le trasfusioni e potei presto tornare a casa senza ulteriori problemi. A un certo punto si presentò a casa un ufficiale giudiziario che pretendeva il pagamento della retta del ricovero e dell’intervento fatto all’ospedale pubblico. Massimo, infuriato, gli raccontò tutto quello che era accaduto e che era stato necessario procedere a un secondo intervento, aggiungendo che non avrebbe pagato mai per come ero stata trattata e per il disastro che era stato fatto. L’ufficiale se ne andò e nessuno ebbe più l’ardire di venire a chiederci alcunché.


Pezzo ripreso da  https://www.leparoleelecose.it/?p=48511

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