18 gennaio 2024

LEGGERE HERMANN BROCH

 


HERMANN BROCH E IL SORTILEGIO DI UNA COMUNITÀ RURALE

di Ludovico Cantisani

Soltanto la letteratura consente di tratteggiare il silenzio attraverso le parole. La pagina raduna insieme discorsi e silenzi, paesaggi e sensazioni. La sordità di un testo va di pari passo con la sua capacità di scavare labirinti di discorsi. Serve qualche passo indietro consente uno sguardo d’insieme, la comprensione del disegno tracciato da quelle linee. La pagina, il capitolo, l’intero libro appaiono così un tutt’uno composito, anzi una confluenza, di tutte le diverse componenti della narrazione che accomunati dal segno grafico in parole sono in realtà un viatico per evocare mondi.

Hermann Broch è una delle figure più sorprendenti della letteratura tedesca del Novecento. Un vero e proprio Esaù, se vogliamo: proveniente da una famiglia di ebrei benestanti molto attivi in Austria nel settore tessile, dopo una buona carriera nel ramo attese nel 1927 la morte del padre per vendere l’azienda e dedicarsi quasi improvvisamente a un’avventura letteraria che avrebbe fruttato, tra i titoli più celebri, La morte di Virgilio e la trilogia I sonnambuli, per cui tanto il contemporaneo Elias Canneti quanto il più giovane Milan Kundera espressero parole di significativa ammirazione.

Il Sortilegio, recentemente riproposto dalla Carbonio Editore recuperando la traduzione di Eugenia Martinez e uno scritto di Italo Alighiero Chiusano sullo scritto, è un testo meno noto nella bibliografia di Hermann Broch, ma non meno importante dei suoi due capolavori per comprendere il clima, la direzione e le sfide tanto storiche quanto stilistiche della letteratura tedesca nell’imminenza e nel protrarsi della Seconda Guerra Mondiale. Broch, di suo, non lo considerava nemmeno un testo finito, e nel saggio inserito a mo’ di prefazione Chiusano ricostruiva la complessa storia editoriale che avvolgeva Il Sortilegio, a cui lo scrittore viennese lavorò dal 1935 fino alla morte nel 1950, passando per almeno tre stesure delle quali nessuna venne considerata definitiva dell’autore. Leggendo la versione scelta per quest’edizione Carbonio però non c’è affatto una sensazione di incompletezza, e neanche gli “estremi wagneriani” di cui parla Chiusano per la lunghezza di certi periodi di Broch disturbano la lettura: ciò che davvero resta de Il Sortilegio è la sensazione di un ritornello crudele di una profezia letteraria che all’inizio della stesura del testo era ancora prefigurazione di oscure cose a venire, e che al momento della prima uscita postuma del libro, nel 1953, risuonava come una cupa epifania post eventum.

Nel villaggio alpino di Kuppron, abitato da poche centinaia di contadini, arriva un misterioso forestiero, Marius Ratti, che prendendo parte al lavoro nei campi e dispensando consigli a destra e a manca presto arriva a insinuarsi sempre più nel tessuto sociale della zona. Il romanzo, raccontato dal punto di vista di un medico condotto che ha abbandonato la città per rifugiarsi a Kuppron dopo una delusione d’amore, descrive con grande realismo come a poco a poco la figura carismatica e manipolativa di Ratti riesce a costruire attorno a sé una vera e propria setta. Il gruppo di persone attorno a Ratti irrompe nella vita del villaggio disturbando i più anziani e i più morigerati – “onoriamo i padri e odiano i vecchi”, come dice una delle ballate che Broch mette in bocca a questi paranazisti montanari -, recupera antiche credenze circa l’oro dei nani nascosto nel cuore delle montagne, e passa il tempo a marciare in un compatto passo d’oca che per un momento pare attrarre lo stesso narratore col suo sortilegio e il fantasma di una rinnovata comunità: “non sembra ce un passo uniforme e ritmicamente cadenzato possa strappare l’uomo al suo sogno impotente?”.

“Quando comincia il tempo del raccolto, l’uomo non esprime più i propri pensieri, perché non ne ha più; cammina sulla terra, con i grandi passi bilanciati del falciatore, operaio del raccolto, come tanti e tanti costretti a pensare le stesse cose, e ciò ch’essi pensano non è altro che l’oscura forza di attrazione della terra”. Il Sortilegio di Hermann Broch trae il meglio dalla sua ambientazione montanara, trasportando gradualmente il lettore in una dimensione sempre meno agreste e sempre più ctonia, a stretto contatto con l’elementale – la terra, l’aria, la roccia delle montagne, gli elementi e i metalli estratti dal cuore delle miniere. L’addentrarsi in un mondo perduto – “la gente quassù vive una vita solitaria; non ha granché in comune né col villaggio-di-sotto né con l’antico insediamento minerario e, se non fosse per le automobili che ora più di frequente passano attraverso il valico, e per le quali è stata perfino costruita una baracca di legno con mescita di birra, tutto sarebbe come cinque secoli fa” – tocca il suo apice nella descrizione di diversi riti popolari che in parte lo stesso gruppo formatosi attorno a Ratti cerca di plagiare e piegare alla sua visione: non diversamente da come lo stesso Hitler, “sciamanizzando in Germania e in Europa” come diceva de Martino, si rifece alle correnti mitologiche presuntamente più arcaiche della regione germanica per giustificare il fondamento della sua visione, del suo dominio, della sua letale linea politica.

La maggiore qualità de Il Sortilegio è uno stile che rispecchia l’atmosfera, anzi l’ambientazione. L’immagine cristallina di un’Austria rurale, esposta ai ritmi e ai moti della natura, viene a poco a poco divorata da un annuvolarsi crudele, e inizialmente travestito di un grottesco folklorismo. Non sorprende trovarsi a constatare, in questo, una risonante affinità tra Il Sortilegio e un altro dei capolavori della letteratura tedesca al tempo dell’hitlerismo, Sulle Scogliere di Marmo di Ernst Jünger. Broch e Jünger si trovano ad essere simmetrici e opposti sul quadro della storia e della storia delle lettere: industriale di ascendenze ebraiche convertitosi alla letteratura, allo scoccare del ‘38 in fuga verso Gran Bretagna e USA il primo, ufficiale militare dalla prosa aristocratizzante il secondo, tra i maggiori e più controversi propugnatori della teoria dell’“emigrazione interne e interiore”.

Anche Sulle Scogliere di Marmo era una trasposizione allucinata del clima del nazifascismo che arrivava a sognare i germi di una sua caduta, e in quel romanzo del 1942 Jünger adottava uno stile petroso, ruvido, non privo a sua volta di violenza, di sogni di tirannicidio – tanto il libro quanto l’autore erano più addentro di Broch nell’enigma della cultura tedesca del Novecento, nell’emergere del nazismo dal cuore forse snaturato forse invece più autentico della civiltà, in quel momentaneo connubio tra politica, letteratura e filosofia che in figure come Martin Heidegger, Carl Schmitt e lo stesso Jünger toccò le punte più interessanti del suo ambiguo ipnotizzare negli anni trenta, prima che il progressivo rivelarsi del nazismo nella sua facies totalitaria li inducesse, secondo modalità diverse, a prenderne le distanze. Il Sortilegio di Broch invece è, e prelude, a una fuga, storicamente questo squarcio di montagna non corrisponde al proliferare del verbo nazionalsocialista nelle metropoli, tra convegni di piazza, momentanee prigioni e fumose birrerie. Ma quid est Historia? Antropologicamente e archetipicamente il romanzo incompiuto di Broch fa molto di più, scorgendo nel cuore della cultura germanica, austriaco-tedesca, anche di quella popolare, il margine di manovra per quel sinistro sortilegio che Hitler seppe evocare nel cuore della Germania e dell’Europa – di una cultura secolare e di una civiltà millenaria.

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