Aleksandr Blok. Ascoltate
di Andrea Tarabbia
Ascoltò la Rivoluzione e la Rivoluzione
lo annientò. Quando morì, per un’endocardite aggravata dalla poca
nutrizione e da un esaurimento nervoso che lo affliggeva da tempo, non
aveva ancora quarantuno anni. Era il 1921: in Russia c’era la Guerra
civile, da quasi quattro anni i bolscevichi erano al potere e molti di
coloro che nella Rivoluzione avevano creduto, tra questi anche lui,
vivevano già disillusi, fiaccati. La mattina dell’8 agosto, il giorno
dopo la sua morte, la «Pravda» scrisse il coccodrillo più freddo della
sua storia editoriale: «Ieri mattina si è spento il poeta Aleksandr
Blok», mentre il suo amico-rivale Andrej Belyj cominciò a sostenere che
Blok era stato ucciso da un’«asma spirituale», un lento soffocamento
provocato dalla delusione, dall’impossibilità di scrivere dentro un
mondo che aveva ucciso la sua creatività. A scorrere i taccuini degli
ultimi anni, una delle parole che vi compare più frequentemente è toska
– angoscia, fatica di vivere. Il 4 maggio del 1919, per esempio, Blok
aveva scritto: «Ho lavorato un po’. Ma ormai non sono più in grado di
lavorare sul serio… finché sul collo mi balla il cappio dello stato
poliziesco». E sono innumerevoli gli appunti, le pagine di diario che,
in quegli ultimi anni, riportano considerazioni analoghe.
Eppure Blok, a suo modo, aveva creduto
nella Rivoluzione: nel 1917 diceva e scriveva continuamente di sentire,
per le strade di Pietrogrado, la «musica» della rivolta, fatta di canti e
marce e del fracasso del vecchio mondo che veniva travolto, portandosi
dietro nell’oblio tutto il peso dello zarismo. Pensava che l’Ottobre
avrebbe portato a una catarsi umana, a una trasfigurazione dei rapporti
sociali, e l’immagine che egli associava alla Rivoluzione, quella di una
bufera inarrestabile e igienica, compare negli appunti, nei saggi e nei
versi come un mantra.
Nel gennaio 1918 pubblicò sulla rivista «Znamja truda» il suo articolo più famoso e controverso: si chiama L’intelligencija e la rivoluzione,
e Blok vi prende una posizione che, superficialmente, può essere
accostata al bolscevismo. Egli scrive che la Russia sta attraversando
«un’epoca che non ha eguali in grandezza», e sostiene che chi
sopravviverà si ritroverà in possesso «di innumerevoli tesori
spirituali». È anche lui preso dall’ansia di rifare tutto, «Fare in modo
che tutto diventi nuovo; che la nostra falsa, sporca, tediosa,
mostruosa vita diventi una vita giusta, pulita, allegra, bellissima».
Paragona la rivoluzione alla natura, a qualcosa di violento (di nuovo la
bufera) che spazza via l’antico e rigenera il mondo. C’è, in questo
testo lirico e vago, politico ed evocativo, una potenza messianica che
forse per la prima volta qualcuno ha davvero il coraggio di accostare a
un gesto come la Rivoluzione. In Blok, il 1917 è soprattutto una visione
mistica e un tema musicale. Egli sembra qualcuno che, durante
quell’anno, cammina per le strade di Pietrogrado e ascolta, nei rumori
delle lotte, nelle urla, negli spari, i suoni nuovi di qualcosa di
grande che sta per avvenire. Questo qualcosa, egli lo sa bene, è la
rivoluzione bolscevica, ma paradossalmente ciò che lui ascolta davvero,
ciò che sente, è un movimento più grande, umano e divino insieme: è
l’annuncio, la profezia di una nuova era: «ascoltar l’alta musica del
futuro, dei cui suoni è impregnata l’aria, e non ricercare singole note
stridenti e false nel maestoso rombo risonante dell’orchestra mondiale»,
scrive. E ancora, nella chiusa dell’articolo: «Con tutto il corpo, con
tutto il cuore, con tutta la coscienza, ascoltate la Rivoluzione». Non
sono, questi, i proclami di un rivoluzionario. Sono le urla di un uomo
spaventosamente triste che sente nei moti del suo popolo l’impulso a
creare un mondo nuovo. Le polemiche intorno a questo articolo sono
feroci: gli antibolscevichi lo accusano di essersi venduto a Lenin;
molti marxisti, allo stesso tempo, storcono il naso di fronte ai
proclami profetici, al tono messianico: c’è troppo misticismo, in Blok,
perché egli possa essere davvero considerato un bolscevico. La «Pravda»
però lo difende, mentre alcuni amici simbolisti, tra cui Sologub,
Merekovskij e Gippius gli danno violentemente contro.
Ma Blok non si ferma. Ha questa bufera
che gli gira nella testa, questa tensione mistica verso il rinnovamento.
È sempre il gennaio del 1918 quando pubblica la sua cosa più grande: è
un poemetto in versi liberi suddiviso in dodici parti, si intitola I dodici.
È l’epos di una notte di tempesta su Pietrogrado, un capolavoro scritto
al ritmo di una marcia militare. Blok, in alcuni momenti, riproduce il
suono degli stivali che affondano nella neve, o il rumore delle raffiche
dei fucili («Trach-tararach! Trach-trach!»), perché se tutto è suono,
tutto si deve sentire, anche tra i versi di un poema. Ebbene, in questa
tormenta, dirigendosi forse verso il Palazzo d’Inverno, camminano dodici
uomini, dodici soldati bolscevichi. Pietrogrado è una città di puttane,
di ubriachi, di assassini e di disperati – l’umanità che Blok racconta,
in versi, da due decenni, ma che adesso si ritrova sotto questa
tormenta e sa che, tra poco, una volta che Pietrogrado sarà presa,
«Un’epoca più gravosa/ci aspetta, caro compagno». I dodici camminano, il
loro è un passo marziale, sono macchiati di sangue, sfatti ma risoluti
mentre il vecchio mondo crolla. Poi, verso la fine, in lontananza,
dentro il bianco della tormenta, compare una bandiera rossa. Chi la
sventola? Chi la porta in giro per le strade?
Così vanno con passo marziale,
Dietro di loro un cane affamato,
Davanti a loro, con la bandiera rossa,
Invisibile nella tormenta,
Immune dalle pallottole,
Con passo dolce e spavaldo,
In un vortice di perle di neve,
In una bianca corona di rose,
Davanti a loro, ecco: è Cristo.
Dietro di loro un cane affamato,
Davanti a loro, con la bandiera rossa,
Invisibile nella tormenta,
Immune dalle pallottole,
Con passo dolce e spavaldo,
In un vortice di perle di neve,
In una bianca corona di rose,
Davanti a loro, ecco: è Cristo.
È così che finisce I dodici:
con i soldati che sono diventati gli apostoli. Seguono Cristo, è lui che
porta la bandiera del cambiamento: «Che Cristo cammini davanti a loro è
indubbio» scrive Blok il 18 febbraio nel suo diario, «La questione non è
“se loro siano degni di Lui”, ma è terribile che di nuovo ci sia Lui
con loro, e per il momento non ce ne sia un altro; ma c’è bisogno di un
Altro? Sono come estenuato». Sono frasi oscure, che non chiariscono fino
in fondo la sua posizione politica. Di lui però si sa che votò per
social-rivoluzionari e menscevichi alle elezioni di fine maggio, otto
giorni dopo aver scritto, nei taccuini, «Che la causa stessa della
rivoluzione venga svuotata: ecco il pericolo. Per essere con la
rivoluzione, oggi, bisogna essere un po’ marxisti. Il lato positivo più
importante del marxismo è che non si ferma al rivolgimento semplicemente
politico, ma presuppone una continuazione. Il lato negativo più
importante è l’insensibilità alla libertà, la negazione materialistica
dell’individuo;[…]».
L’allora commissario del popolo
Lunaarskij, anni più tardi, scrisse: «Blok aveva in orrore i marxisti,
perché gli sembrava che essi trattassero la vita quasi come un problema
di matematica, di meccanica. […] Blok mi disse con un sorriso cattivo:
“Voglio sforzarmi di lavorare con voi. A dire il vero, se foste soltanto
marxisti, sarebbe per me straordinariamente difficile, il marxismo mi
dà un senso di freddo; ma in voi bolscevichi io sento tuttavia la nostra
Russia, Bakunin. Di Lenin amo parecchio, ma non il marxismo”».
Tutto canta, in Blok: le cose, i
pensieri, i concetti, i corpi, gli elementi naturali, le ore del giorno,
gli occhi, i fanali, i lampioni, la pietra. Ogni cosa ha un suono.
Negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione egli giunse
all’afasia, all’incapacità di sentire e dunque di scrivere. La
burocrazia sovietica, la sua morsa e il suo controllo, avevano tradito
la sua visione messianica, ed egli capì che non c’era più niente, in un
paese di guerra e di meccanica, che poteva suonare. Così si spense, si
chiuse nella sua toska: «Tutti i suoni sono cessati. Non
sentite che non c’è più nessun suono?» disse all’artista Annenkov, il
quale riporta il dialogo nelle sue memorie: «Soffoco, soffoco, soffoco!
Soffochiamo, soffochiamo tutti. La rivoluzione mondiale si sta
trasformando nell’angina pectoris mondiale». Il destino di Blok è
spaventosamente simile a quello di Majakovskij, che nel 1930 si tirò un
colpo di pistola al cuore lasciando un biglietto che, tra le poche cose,
diceva anche «La barca dell’amore si è arenata contro il byt». Il byt ha ucciso molti scrittori russi e sovietici, nella storia. Byt
è una parola che non si traduce: viene spesso resa nella nostra lingua
con le espressioni «vita quotidiana», «quotidianità», o anche, dal
francese, routine. In realtà l’espressione, nella cultura russa, è di
gran lunga più articolata, e nel corso dei secoli è andata via via
arricchendosi di sfumature e significati sempre nuovi: in generale, al
concetto di quotidianità, il byt aggiunge un senso di
ripetizione, di banalità, di volgarità ma anche di «stato delle cose».
Insomma: le cose come stanno, la realtà cruda e burocratizzata,
soffocano i poeti. È impossibile far comprendere, in un articolo, che
cosa abbia potuto significare per Blok – uno per cui il mondo risuonava –
la «perdita dell’udito», l’impossibilità di ascoltare il suono: era un
poeta lirico che nel 1917 sperò di poter ascoltare nuovi suoni, ma i
nuovi suoni erano di marce, mitraglie, cavi elettrici, fame e industria
pesante, ed egli non li sapeva cantare. Così si spense: negli ultimi
anni, per vivere, Blok lavora per i bolscevichi, prende parte a
commissioni per la riforma ortografica, stila elenchi di classici della
letteratura russa e mondiale da ripubblicare in edizioni popolari per
contribuire all’educazione del popolo (saranno, alla fine del lavoro,
oltre 1500 titoli). Ma non vede un mondo davvero nuovo che nasce, la sua
idea romantica (e, diciamolo, ingenua) della Rivoluzione si schianta
contro le cose come stanno.
Con Gogol’ e Dostoevskij, Blok è stato
l’uomo che ha creato il mito di Pietroburgo. La Pietroburgo di Gogol’ è
il Nevskij, sono le vie del centro percorse da nasi, impiegati sull’orlo
della follia; la Pietroburgo di Dostoevskij è quell’intrico di canali
che racchiude il centro, è la piazza Sennaja, sono i vicoli; quella di
Blok è le bettole, i bordelli, le sequenze di cortili, autentici
passages popolari in cui ci si può nascondere o si può incontrare una
prostituta: poeta camminatore, Blok ha un amore per la vita (Ljubov’,
figlia di Mendeleev, che sposa nel 1903), molte avventure (attrici, come
la Del’mas) e migliaia di sfoghi sessuali che egli, a volte, racconta
nelle liriche. I pietroburghesi, nei primi anni del secolo, leggevano i
suoi versi anche come una sorta di diario intimo scritto in pubblico.
Ascoltatelo, per esempio, qui:
Nelle bettole, nei vicoli, nei crocicchi,
nell’elettrico sogno ad occhi aperti,
cercavo all’infinito le bellezze
che hanno fama di essere amanti in eterno.
nell’elettrico sogno ad occhi aperti,
cercavo all’infinito le bellezze
che hanno fama di essere amanti in eterno.
È l’inizio di una poesia senza titolo del 1904. Le bellezze di cui si parla sono puttane. Due anni dopo, Blok crea un mito: La sconosciuta. Blok è al ristorante, beve; attorno ci sono ubriachi che ridono e cantano e brindano. E poi:
E ogni sera, nell’ora stabilita,
(o è soltanto un sogno che faccio?)
una figura di fanciulla, avvolta nella seta,
si muove nella nebbia della finestra.
(o è soltanto un sogno che faccio?)
una figura di fanciulla, avvolta nella seta,
si muove nella nebbia della finestra.
La sconosciuta cammina tra gli ubriachi,
si siede: è una visione fatta di piume di struzzo e velette, ma Blok vi
vede rive incantate e lontananze. Così la canta, la sogna, la desidera:
ne fa una dea dei bassifondi. Blok canta la bellezza quando è vicina
alla catastrofe, perché per lui c’è bellezza soltanto quando si
intravede lo sfacelo. Ha scritto Angelo Maria Ripellino: «La città
blokiana, aggregato funesto di bettole, bische, ristoranti e postriboli,
è un’orditura ingannevole, uno spettrale sfolgorio tra le nebbie, un
plesso confuso di linee fluttuanti e ubriache. Eroine evanescenti di
questo ciclo sono le prostitute delle vie di Pietroburgo, proiettate in
un’aura da parabola biblica, ambigue parvenze che acquistano a tratti la
sublimità metafisica di creature umiliate da un’inesorabile sorte».
Sono parole che calzerebbero perfettamente anche se applicate agli
umiliati e offesi dostoevskijani. Solo che, in Dostoevskij, questi
umiliati e offesi sono tutti terreni: soffrono, cercano una redenzione,
un’impennata morale; in Blok essi sono trasfigurati, possiedono qualcosa
di sovrannaturale e si fanno tramite con l’infinito, sono parte della
luce e del canto di Pietroburgo, e sono belli così come sono. Per questo
Blok scrive di saltimbanchi, di zingare, di Pierrot e Arlecchini, di
orde di popoli barbari (Gli sciti, altro grande poema del 1918): sono
figure che ballano e bevono e lottano mentre muoiono o si danno per
poco. Nella loro disgrazia, nella loro impossibilità di redimersi
risiede la disperata bellezza che Blok sa cantare e che, a un certo
punto, non saprà più ascoltare.
Da
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