26 novembre 2017

A. BLOK, Ascoltate

Dal numero 80, 2017, di «Nuovi Argomenti», dedicato alla Rivoluzione di Ottobre, riprendiamo lo scritto di Andrea Tarabbia su Aleksandr Blok

Aleksandr Blok. Ascoltate


di Andrea Tarabbia

Ascoltò la Rivoluzione e la Rivoluzione lo annientò. Quando morì, per un’endocardite aggravata dalla poca nutrizione e da un esaurimento nervoso che lo affliggeva da tempo, non aveva ancora quarantuno anni. Era il 1921: in Russia c’era la Guerra civile, da quasi quattro anni i bolscevichi erano al potere e molti di coloro che nella Rivoluzione avevano creduto, tra questi anche lui, vivevano già disillusi, fiaccati. La mattina dell’8 agosto, il giorno dopo la sua morte, la «Pravda» scrisse il coccodrillo più freddo della sua storia editoriale: «Ieri mattina si è spento il poeta Aleksandr Blok», mentre il suo amico-rivale Andrej Belyj cominciò a sostenere che Blok era stato ucciso da un’«asma spirituale», un lento soffocamento provocato dalla delusione, dall’impossibilità di scrivere dentro un mondo che aveva ucciso la sua creatività. A scorrere i taccuini degli ultimi anni, una delle parole che vi compare più frequentemente è toska – angoscia, fatica di vivere. Il 4 maggio del 1919, per esempio, Blok aveva scritto: «Ho lavorato un po’. Ma ormai non sono più in grado di lavorare sul serio… finché sul collo mi balla il cappio dello stato poliziesco». E sono innumerevoli gli appunti, le pagine di diario che, in quegli ultimi anni, riportano considerazioni analoghe.
Eppure Blok, a suo modo, aveva creduto nella Rivoluzione: nel 1917 diceva e scriveva continuamente di sentire, per le strade di Pietrogrado, la «musica» della rivolta, fatta di canti e marce e del fracasso del vecchio mondo che veniva travolto, portandosi dietro nell’oblio tutto il peso dello zarismo. Pensava che l’Ottobre avrebbe portato a una catarsi umana, a una trasfigurazione dei rapporti sociali, e l’immagine che egli associava alla Rivoluzione, quella di una bufera inarrestabile e igienica, compare negli appunti, nei saggi e nei versi come un mantra.
Nel gennaio 1918 pubblicò sulla rivista «Znamja truda» il suo articolo più famoso e controverso: si chiama L’intelligencija e la rivoluzione, e Blok vi prende una posizione che, superficialmente, può essere accostata al bolscevismo. Egli scrive che la Russia sta attraversando «un’epoca che non ha eguali in grandezza», e sostiene che chi sopravviverà si ritroverà in possesso «di innumerevoli tesori spirituali». È anche lui preso dall’ansia di rifare tutto, «Fare in modo che tutto diventi nuovo; che la nostra falsa, sporca, tediosa, mostruosa vita diventi una vita giusta, pulita, allegra, bellissima». Paragona la rivoluzione alla natura, a qualcosa di violento (di nuovo la bufera) che spazza via l’antico e rigenera il mondo. C’è, in questo testo lirico e vago, politico ed evocativo, una potenza messianica che forse per la prima volta qualcuno ha davvero il coraggio di accostare a un gesto come la Rivoluzione. In Blok, il 1917 è soprattutto una visione mistica e un tema musicale. Egli sembra qualcuno che, durante quell’anno, cammina per le strade di Pietrogrado e ascolta, nei rumori delle lotte, nelle urla, negli spari, i suoni nuovi di qualcosa di grande che sta per avvenire. Questo qualcosa, egli lo sa bene, è la rivoluzione bolscevica, ma paradossalmente ciò che lui ascolta davvero, ciò che sente, è un movimento più grande, umano e divino insieme: è l’annuncio, la profezia di una nuova era: «ascoltar l’alta musica del futuro, dei cui suoni è impregnata l’aria, e non ricercare singole note stridenti e false nel maestoso rombo risonante dell’orchestra mondiale», scrive. E ancora, nella chiusa dell’articolo: «Con tutto il corpo, con tutto il cuore, con tutta la coscienza, ascoltate la Rivoluzione». Non sono, questi, i proclami di un rivoluzionario. Sono le urla di un uomo spaventosamente triste che sente nei moti del suo popolo l’impulso a creare un mondo nuovo. Le polemiche intorno a questo articolo sono feroci: gli antibolscevichi lo accusano di essersi venduto a Lenin; molti marxisti, allo stesso tempo, storcono il naso di fronte ai proclami profetici, al tono messianico: c’è troppo misticismo, in Blok, perché egli possa essere davvero considerato un bolscevico. La «Pravda» però lo difende, mentre alcuni amici simbolisti, tra cui Sologub, Merekovskij e Gippius gli danno violentemente contro.
Ma Blok non si ferma. Ha questa bufera che gli gira nella testa, questa tensione mistica verso il rinnovamento. È sempre il gennaio del 1918 quando pubblica la sua cosa più grande: è un poemetto in versi liberi suddiviso in dodici parti, si intitola I dodici. È l’epos di una notte di tempesta su Pietrogrado, un capolavoro scritto al ritmo di una marcia militare. Blok, in alcuni momenti, riproduce il suono degli stivali che affondano nella neve, o il rumore delle raffiche dei fucili («Trach-tararach! Trach-trach!»), perché se tutto è suono, tutto si deve sentire, anche tra i versi di un poema. Ebbene, in questa tormenta, dirigendosi forse verso il Palazzo d’Inverno, camminano dodici uomini, dodici soldati bolscevichi. Pietrogrado è una città di puttane, di ubriachi, di assassini e di disperati – l’umanità che Blok racconta, in versi, da due decenni, ma che adesso si ritrova sotto questa tormenta e sa che, tra poco, una volta che Pietrogrado sarà presa, «Un’epoca più gravosa/ci aspetta, caro compagno». I dodici camminano, il loro è un passo marziale, sono macchiati di sangue, sfatti ma risoluti mentre il vecchio mondo crolla. Poi, verso la fine, in lontananza, dentro il bianco della tormenta, compare una bandiera rossa. Chi la sventola? Chi la porta in giro per le strade?

Così vanno con passo marziale,
Dietro di loro un cane affamato,
Davanti a loro, con la bandiera rossa,
Invisibile nella tormenta,
Immune dalle pallottole,
Con passo dolce e spavaldo,
In un vortice di perle di neve,
In una bianca corona di rose,
Davanti a loro, ecco: è Cristo.

È così che finisce I dodici: con i soldati che sono diventati gli apostoli. Seguono Cristo, è lui che porta la bandiera del cambiamento: «Che Cristo cammini davanti a loro è indubbio» scrive Blok il 18 febbraio nel suo diario, «La questione non è “se loro siano degni di Lui”, ma è terribile che di nuovo ci sia Lui con loro, e per il momento non ce ne sia un altro; ma c’è bisogno di un Altro? Sono come estenuato». Sono frasi oscure, che non chiariscono fino in fondo la sua posizione politica. Di lui però si sa che votò per social-rivoluzionari e menscevichi alle elezioni di fine maggio, otto giorni dopo aver scritto, nei taccuini, «Che la causa stessa della rivoluzione venga svuotata: ecco il pericolo. Per essere con la rivoluzione, oggi, bisogna essere un po’ marxisti. Il lato positivo più importante del marxismo è che non si ferma al rivolgimento semplicemente politico, ma presuppone una continuazione. Il lato negativo più importante è l’insensibilità alla libertà, la negazione materialistica dell’individuo;[…]».
L’allora commissario del popolo Lunaarskij, anni più tardi, scrisse: «Blok aveva in orrore i marxisti, perché gli sembrava che essi trattassero la vita quasi come un problema di matematica, di meccanica. […] Blok mi disse con un sorriso cattivo: “Voglio sforzarmi di lavorare con voi. A dire il vero, se foste soltanto marxisti, sarebbe per me straordinariamente difficile, il marxismo mi dà un senso di freddo; ma in voi bolscevichi io sento tuttavia la nostra Russia, Bakunin. Di Lenin amo parecchio, ma non il marxismo”».
Tutto canta, in Blok: le cose, i pensieri, i concetti, i corpi, gli elementi naturali, le ore del giorno, gli occhi, i fanali, i lampioni, la pietra. Ogni cosa ha un suono. Negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione egli giunse all’afasia, all’incapacità di sentire e dunque di scrivere. La burocrazia sovietica, la sua morsa e il suo controllo, avevano tradito la sua visione messianica, ed egli capì che non c’era più niente, in un paese di guerra e di meccanica, che poteva suonare. Così si spense, si chiuse nella sua toska: «Tutti i suoni sono cessati. Non sentite che non c’è più nessun suono?» disse all’artista Annenkov, il quale riporta il dialogo nelle sue memorie: «Soffoco, soffoco, soffoco! Soffochiamo, soffochiamo tutti. La rivoluzione mondiale si sta trasformando nell’angina pectoris mondiale». Il destino di Blok è spaventosamente simile a quello di Majakovskij, che nel 1930 si tirò un colpo di pistola al cuore lasciando un biglietto che, tra le poche cose, diceva anche «La barca dell’amore si è arenata contro il byt». Il byt ha ucciso molti scrittori russi e sovietici, nella storia. Byt è una parola che non si traduce: viene spesso resa nella nostra lingua con le espressioni «vita quotidiana», «quotidianità», o anche, dal francese, routine. In realtà l’espressione, nella cultura russa, è di gran lunga più articolata, e nel corso dei secoli è andata via via arricchendosi di sfumature e significati sempre nuovi: in generale, al concetto di quotidianità, il byt aggiunge un senso di ripetizione, di banalità, di volgarità ma anche di «stato delle cose». Insomma: le cose come stanno, la realtà cruda e burocratizzata, soffocano i poeti. È impossibile far comprendere, in un articolo, che cosa abbia potuto significare per Blok – uno per cui il mondo risuonava – la «perdita dell’udito», l’impossibilità di ascoltare il suono: era un poeta lirico che nel 1917 sperò di poter ascoltare nuovi suoni, ma i nuovi suoni erano di marce, mitraglie, cavi elettrici, fame e industria pesante, ed egli non li sapeva cantare. Così si spense: negli ultimi anni, per vivere, Blok lavora per i bolscevichi, prende parte a commissioni per la riforma ortografica, stila elenchi di classici della letteratura russa e mondiale da ripubblicare in edizioni popolari per contribuire all’educazione del popolo (saranno, alla fine del lavoro, oltre 1500 titoli). Ma non vede un mondo davvero nuovo che nasce, la sua idea romantica (e, diciamolo, ingenua) della Rivoluzione si schianta contro le cose come stanno.
Con Gogol’ e Dostoevskij, Blok è stato l’uomo che ha creato il mito di Pietroburgo. La Pietroburgo di Gogol’ è il Nevskij, sono le vie del centro percorse da nasi, impiegati sull’orlo della follia; la Pietroburgo di Dostoevskij è quell’intrico di canali che racchiude il centro, è la piazza Sennaja, sono i vicoli; quella di Blok è le bettole, i bordelli, le sequenze di cortili, autentici passages popolari in cui ci si può nascondere o si può incontrare una prostituta: poeta camminatore, Blok ha un amore per la vita (Ljubov’, figlia di Mendeleev, che sposa nel 1903), molte avventure (attrici, come la Del’mas) e migliaia di sfoghi sessuali che egli, a volte, racconta nelle liriche. I pietroburghesi, nei primi anni del secolo, leggevano i suoi versi anche come una sorta di diario intimo scritto in pubblico.

Ascoltatelo, per esempio, qui:
Nelle bettole, nei vicoli, nei crocicchi,
nell’elettrico sogno ad occhi aperti,
cercavo all’infinito le bellezze
che hanno fama di essere amanti in eterno.

È l’inizio di una poesia senza titolo del 1904. Le bellezze di cui si parla sono puttane. Due anni dopo, Blok crea un mito: La sconosciuta. Blok è al ristorante, beve; attorno ci sono ubriachi che ridono e cantano e brindano. E poi:

E ogni sera, nell’ora stabilita,
(o è soltanto un sogno che faccio?)
una figura di fanciulla, avvolta nella seta,
si muove nella nebbia della finestra.

La sconosciuta cammina tra gli ubriachi, si siede: è una visione fatta di piume di struzzo e velette, ma Blok vi vede rive incantate e lontananze. Così la canta, la sogna, la desidera: ne fa una dea dei bassifondi. Blok canta la bellezza quando è vicina alla catastrofe, perché per lui c’è bellezza soltanto quando si intravede lo sfacelo. Ha scritto Angelo Maria Ripellino: «La città blokiana, aggregato funesto di bettole, bische, ristoranti e postriboli, è un’orditura ingannevole, uno spettrale sfolgorio tra le nebbie, un plesso confuso di linee fluttuanti e ubriache. Eroine evanescenti di questo ciclo sono le prostitute delle vie di Pietroburgo, proiettate in un’aura da parabola biblica, ambigue parvenze che acquistano a tratti la sublimità metafisica di creature umiliate da un’inesorabile sorte». Sono parole che calzerebbero perfettamente anche se applicate agli umiliati e offesi dostoevskijani. Solo che, in Dostoevskij, questi umiliati e offesi sono tutti terreni: soffrono, cercano una redenzione, un’impennata morale; in Blok essi sono trasfigurati, possiedono qualcosa di sovrannaturale e si fanno tramite con l’infinito, sono parte della luce e del canto di Pietroburgo, e sono belli così come sono. Per questo Blok scrive di saltimbanchi, di zingare, di Pierrot e Arlecchini, di orde di popoli barbari (Gli sciti, altro grande poema del 1918): sono figure che ballano e bevono e lottano mentre muoiono o si danno per poco. Nella loro disgrazia, nella loro impossibilità di redimersi risiede la disperata bellezza che Blok sa cantare e che, a un certo punto, non saprà più ascoltare.

Da  

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