Ricordo di Piero
Camporesi, storico eretico. Attraverso lo studio della vita materiale
e del cibo ridiede voce a coloro di cui i
libri non parlano, ai dimenticati dalla storia.
Marino Niola
Quando Camporesi
vendicò i pitocchi
Un signore entra in una
stanza dove c’è un tappeto, dai disegni e dai colori bellissimi,
che tutti hanno sempre considerato come un’opera d‘arte; lui lo
prende per un lembo, lo rivolta e ci mostra che sotto quel tappeto
brulicavano vermi, scarafaggi, larve, tutta una vita ignota e
sotterranea». Lo ha scritto Umberto Eco. Il signore è Piero
Camporesi. E il tappeto è la letteratura italiana, che il grande
studioso, di cui ricorre il ventennale della scomparsa, sottopose a
un amoroso trattamento d’urto. Nel tentativo di ravvivarne trame
sbiadite dalla polvere accademica. Di evidenziarne nodi e snodi
dimenticati.
In realtà, anche se vissuto nell’università, questo straordinario intellettuale si definiva «academico di nulla academia», prendendo in prestito l’espressione da Giordano Bruno. E in questa scelta c’è l’indicazione di un percorso eretico. Che oggi, grazie anche alla provvidenziale riproposta delle sue opere da parte del Saggiatore, appare in tutta la sua carica eversiva e anticipatrice, soprattutto alla luce delle trasformazioni dell’ultimo ventennio. E che lui metteva a fuoco con lo sguardo sghembo, capace di tenere insieme materiali disparati.
Petrarca e Bertoldo,
lo strutturalismo di Lévi-Strauss e l’anatomia seicentesca, la
trattatistica religiosa e i ricettari, la scienza sperimentale e gli
almanacchi. Ma anche le voci stridenti e le maschere irridenti
delle culture popolari, il lazzo dei buffoni, il lezzo dei villani,
le allucinazioni degli straccioni, il raggiro dei ciarlatani. Insieme
al brontolio dei ventri contadini gonfiati dalla fame. E deformati
dalle malattie, dal cibo impuro e guasto. Un pane selvaggio per
un’umanità minore.
In questa immensa corte dei miracoli, che ha abitato la nostra prima modernità, Camporesi ha compiuto la sua nekya, una discesa negli inferi di un mondo dominato da umori, odori e miasmi di cui ricostruisce la grammatica e la poetica. Fornicando, come amava dire, con la storia alimentare, l’antropologia, la teologia, l’anatomia, senza trascurare classici e autori del canone.
Camporesi ha di
inimitabile il modo di comparare l’incomparabile, di compaginare
registri culturali dissonanti e di farli risuonare all’unisono in
maniera inedita, indisciplinata, visionaria. Capace di scorgere nuove
configurazioni laddove altri avrebbero visto confusione. La sua
abilità nel giustapporre fino al cortocircuito alto e basso,
escatologia e scatologia, nasce da quella che il suo maestro, il
grande italianista Carlo Calcaterra, definiva «perplessità
interrogativa».L’opposto dell’idealismo di Croce, il recupero
della grande tradizione positivista. «Non l’Italia delle parole,
ma quella dei fatti e dei documenti».
In opere come La
carne impassibile e I balsami di Venere è la vita che
irrompe dalle pagine, prima delle classificazioni e delle distinzioni
tra generi e categorie, che la ingessano e la ingabbiano.
Uno dei grandi meriti di Camporesi è quello di aver ricostruito l’antropologia dell’Italia moderna. Ponendosi il problema, conoscitivo prima che etico, di come far parlare gli ultimi. Ma come fare se «i pitocchi, i subalterni, gli illetterati» non hanno lasciato documenti?
Semplice, per Camporesi.
Che, forte di un’erudizione sterminata, gioca di sponda tra i
documenti e li seziona. Il risultato è una funambolica logopedia
delle voci plebee. E qui viene fuori il Camporesi più poietico,
sperimentatore, che scava nelle parole sotto le parole. Per cavarne i
succhi vitali, la forza evocativa, mitologica, simbolica. Il lucore
archetipico e la potenza metaforica che rendono ogni termine capace
di andare oltre se stesso.
In certe pagine de Il sugo della
vita la prosa mette in moto una catena di visioni, che la fa
decollare dal supporto verbale per proiettarla verso un senso
ulteriore. La lingua camporesiana va al di là della sua funzione
ordinaria, apre la strada a nuovi piani di evocazione e percezione.
Allitterazioni, compitazioni, metafore, iperboli, sinestesie. Un
teatro verbale che assegna a ogni parola un surplus metaforico. Una
macchina del senso che getta un ponte vertiginoso tra surrealismo e
barocco. Sembra impossibile eppure la costruzione tiene. Ed è grazie
a questa straordinaria impalcatura linguistica che Camporesi riesce a
fare del cibo il fuso intorno al quale scorre la storia italiana.
Al centro di tutto il
pane, che diventa “soggetto culturale”, materia reale e simbolica
dell’esistenza. E nelle trasformazioni degli usi alimentari il
maestro vede riflessa l’intera vicenda del nostro paese.
Passato dai digiuni forzati dei poveri d’antan, all’anoressia
dei ricchi di oggi. Quelli che hanno messo la dietetica al posto
dell’etica. Facendo della corretta alimentazione un governo della
vita, buono «sia all’allevamento dei polli, sia alla crescita dei
bambini». Perché, la società di allora, dove i cuochi già
diventano star – Camporesi l’aveva previsto – è la stessa in
cui si muore di carote.
Come nel caso della
signora che non mangiava altro che questo ortaggio, eletto a simbolo
di redenzione della carne. La conclusione della parabola è un
autentico cupio dissolvi. «Spappolato il fegato, gonfio il
ventre idropico, caduti i capelli, sfogliati i peli, adusti i
tessuti. Le carni della bella signora erano ormai pronte per il
grande volo, per il transito celeste». Ancora una volta Camporesi ci
lascia senza parole.
La repubblica – 20
ottobre 2017
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