è ormai fuggita la nostra infanzia selvatica e felice,
quando passando tra campi di sulla purpurea mischiata
all'ortica seghettata e a cespugli di rose, ci ferivamo le mani
e crescevamo nell'aria pensando d'essere nuvole in movimento
nel percorrere il tempo e gli spazi come fossero nostri possedimenti.
tutto cambiò dopo il menarca.
ci chiusero in una gabbia come giumente,
il corpo laccato con vernici d'oro, specchio per le allodole,
gli occhi truccati come code di pavone: tieni il viso basso!
non guardare la vita dentro gli occhi e, se lo fai, seducila
ed addormentala, ma senza dare doni. stai composta. non correre,
non ridere in questo modo, non dire mai sì agli uomini, sta zitta!
noi pensavamo invece alla vita come a un'addizione luminosa di pensieri,
una tavola larga dove mettere pani freschi d'amore e di desiderio,
ma di che sostanza velenosa fosse,
di che ipocrita mestizia essere donne a quattordici anni,
che cosa fosse cercare il caldo delle braci,
le mani già gelate avvolte in minimi ricordi, questo ce l'ha insegnato
il tempo della carne, il silenzio della nostra terra
abbandonata. perché crescere per noi fu soltanto una perdita d'amore?
eppure ora so che tutto questo è stato per meritare il dono.
noi siamo quelle che prendiamo il fiele e la mota e ci soffiamo
dentro il nostro fiato, come ha fatto Dio: ed ogni cosa si riempie
e si fa sacra. il corpo cova ancora lo spirito, il seme cade nel terreno
buono, si illumina il cielo di segni luminosi, di astri tremuli, di uccelli
che passando sembrano mazzetti di fiori vivi trasportati dal vento.
noi l'abbiamo avuta qui l'eredità, quando, lasciato il porcile del mondo,
tornammo alla dimora della poesia, noi prodighe figlie dell'insonnia.
(Franca Alaimo)
quando passando tra campi di sulla purpurea mischiata
all'ortica seghettata e a cespugli di rose, ci ferivamo le mani
e crescevamo nell'aria pensando d'essere nuvole in movimento
nel percorrere il tempo e gli spazi come fossero nostri possedimenti.
tutto cambiò dopo il menarca.
ci chiusero in una gabbia come giumente,
il corpo laccato con vernici d'oro, specchio per le allodole,
gli occhi truccati come code di pavone: tieni il viso basso!
non guardare la vita dentro gli occhi e, se lo fai, seducila
ed addormentala, ma senza dare doni. stai composta. non correre,
non ridere in questo modo, non dire mai sì agli uomini, sta zitta!
noi pensavamo invece alla vita come a un'addizione luminosa di pensieri,
una tavola larga dove mettere pani freschi d'amore e di desiderio,
ma di che sostanza velenosa fosse,
di che ipocrita mestizia essere donne a quattordici anni,
che cosa fosse cercare il caldo delle braci,
le mani già gelate avvolte in minimi ricordi, questo ce l'ha insegnato
il tempo della carne, il silenzio della nostra terra
abbandonata. perché crescere per noi fu soltanto una perdita d'amore?
eppure ora so che tutto questo è stato per meritare il dono.
noi siamo quelle che prendiamo il fiele e la mota e ci soffiamo
dentro il nostro fiato, come ha fatto Dio: ed ogni cosa si riempie
e si fa sacra. il corpo cova ancora lo spirito, il seme cade nel terreno
buono, si illumina il cielo di segni luminosi, di astri tremuli, di uccelli
che passando sembrano mazzetti di fiori vivi trasportati dal vento.
noi l'abbiamo avuta qui l'eredità, quando, lasciato il porcile del mondo,
tornammo alla dimora della poesia, noi prodighe figlie dell'insonnia.
(Franca Alaimo)
Una poeta che amo, un filo di luce avvolto al mio polso, indissolubile
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