Rafael Alberti e Ignazio Buttitta in una foto di Carlo Puleo
“Piango ancora per Federico”.
Un'intervista a Rafael Alberti per i 90 anni
a cura di Carlos Elordi
"Lei sta parlando
con un nonagenario: che parola orribile".
Gli occhi di Rafael
Alberti sorridono, il poeta nei gesti e nei sentimenti conserva la
vivacità di sempre. Ha appena compiuto novant'anni: è stato un
evento per la Spagna. Lo hanno celebrato perfino quei quotidiani che
durante il franchismo negavano praticamente la sua esistenza,
trattandolo come un proscritto, cancellando la sua voce, proveniente
dall'esilio. Alberti ha accettato tutti gli omaggi, anche il tardivo
riconoscimento - che ora è di tutti - per la sua feconda opera:
"Dimenticare è l'unico modo di costruire il futuro. E poi tutto
in questa Spagna è meno tormentato, meno feroce che nel passato".
È di ricordi che lui
vuole parlare in questa serata al Puerto de Santa Maria, la cittadina
che lo ha visto nascere, davanti alla straordinaria baia di Cadice.
E anzitutto di Federico
Garca Lorca, il grande amico. "E' l' unica persona che veramente
mi è mancata in questo compleanno: lo rimpiango ancora, come se lo
avessero fucilato ieri". E racconta, come se svelasse un grande
mistero, gli orrori della terribile vicenda: "È stato il
generale Queipo de Llano, da Siviglia, colui che ha ordinato la sua
morte: ' Dategli caffè, molto caffè', ha detto in codice, per
telefono, ai suoi sbirri di Granada. Si sarebbe capito, benché
l'idea non mi avrebbe fatto felice, che fucilassero me. Ma, perché
il povero Federico?". E recita, a bassa voce, ma con la bella
cadenza andalusa di sempre, qualche verso del poema che allora ha
scritto, commosso dalla terribile notizia: "Non hai avuto la tua
morte, quella che a te toccava".
"Mi sento
soprattutto un superstite", dice, di nuovo con il sorriso in
bocca, mentre guarda la moglie Maria Asuncìon, la giovane donna che
lui ha sposato tre anni fa e che lo cura con un amore commovente.
"Sono il superstite di una generazione irripetibile, che in gran
parte ha fatto una fine molto disgraziata". E ricorda con
ammirazione e con dolore alcuni dei nomi più brillanti della cultura
spagnola di questo secolo. Tanti di loro fucilati ancora giovani,
altri morti in esilio. "Era una Spagna piena di futuro". Di
Bunuel dice: "Era un tipo formidabile, per noi è sempre stato
un uomo eccezionale". A Dalì invece dedica parole durissime:
"Lui era un franchista" - e per Alberti quello continua ad
essere il più grave insulto -. Ha fatto perfino un ritratto equestre
di Franco. Io non glielo perdono, perché lui sapeva cosa era
successo al suo amico intimo Federico".
Parla anche della guerra
civile del 1936, di quella sua poesia militante che recitava ai
combattenti, a pochi metri dal fronte. "Credevamo che quanto
stavamo facendo fosse utile e necessario, ma dopo abbiamo capito che
tutto era troppo terribile". Ricorda Togliatti, Luigi Longo, gli
esponenti delle Brigate Internazionali venuti a combattere accanto
agli spagnoli. "Sono venuti con un grande entusiasmo personale,
disposti a fare molto". Il comunista Alberti non è disposto ad
aggiornare il suo pensiero politico, perché per lui quella continua
ad essere la scelta di una vita: e lo si capisce. Con quel
manicheismo di allora dice di Ernest Hemingway, di cui è diventato
un grande amico: "Era bravo, ci appoggiava. Ma lui era venuto in
Spagna solo perché amava la corrida: e si è trovato in mezzo a
tutto quel pasticcio".
Chiediamo allora a questo
andaluso di pura razza che ha ancora l'accento di Cadice e che ogni
sera ascolta per ore musica "flamenca" cosa pensa della
"fiesta". "A me è piaciuta sempre molto",
risponde. "Adesso non ne sono molto sicuro: non è un buon
'aficionado' chi si mette dalla parte del toro, un animale
straordinario che sembra quasi un ragazzo sacrificato".
Trentasette anni di
esilio - la metà di essi trascorsi a Buenos Aires, gli altri a Roma
- passano veloci nei ricordi di quest'uomo cosmopolita che adesso
solo vuole parlare della Spagna. E del suo ritorno. A Madrid, nell'
omaggio resogli dagli intellettuali per il suo compleanno, il
ministro della Cultura, l'ex-comunista Jordi Sole Tura, ha ricordato
una immagine storica quella di Rafael Alberti e della Pasionaria che
presiedono per qualche ora la prima sessione del Parlamento
democratico nel 1977. Erano i due deputati più anziani in un
Congresso formato da uomini e donne che non avevano conosciuto la
guerra civile: "Mi sono reso conto allora che ci trovavamo in
una Spagna con nuove possibilità", dice il poeta. Continua a
scrivere ("ho diversi incarichi"), ogni due mesi pubblica
su “El Pais” un nuovo capitolo della sua Alberata sperduta,
un libro di ricordi. E dipinge ogni giorno per qualche ora.
"Ma soprattutto
vivo: un po' errante fra Madrid e questo mio Puerto de Santa Maria,
ritrovando qua e là i motivi della mia poesia. E credendo in quello
in cui ho sempre creduto. Perché io non voglio che si possa dire che
Alberti è morto non essendo più come era: benché sia caduto il
muro di Berlino".
“la Repubblica”, 30
dicembre 1992
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