“Siamo pervasi di parole inutili, di una quantità folle di parole e
di immagini. La stupidità non è mai muta né cieca. Il problema non è più
quello di fare in modo che la gente si esprima, ma di procurare loro
degli interstizi di solitudine e di silenzio a partire dai quali avranno
finalmente qualcosa da dire. Le forze della repressione non impediscono
alla gente di esprimersi, al contrario la costringono ad esprimersi.
Dolcezza di non aver nulla da dire, diritto di non aver nulla da dire: è
questa la condizione perché si formi qualcosa di raro o di rarefatto
che meriti, per poco che sia, d’esser detto.”
Gilles Deleuze
ll 4 novembre 1995 moriva a Parigi il filosofo francese Gilles Deleuze. Doppiozero lo ricorda, a vent'anni dalla morte, con una serie di scritti suoi e su di lui.
È possibile “situare” con precisione la posizione di Gilles Deleuze nella storia della filosofia. Non aggiungo l'aggettivo “moderna” o “contemporanea” perché la storia della filosofia è una sola dal momento che a definirla non è la successione dei sistemi di pensiero ma la riproposizione costante e monotona di una sola questione, quella che concerne la possibilità per la filosofia di cominciare. Può darsi, cioè, un pensiero puro, un pensiero senza immagine, un pensiero che sia libero dalle presupposizioni della doxa, dalle equivoche “evidenze” del senso comune come dalle direttive morali di un malinteso buon senso? Oppure la filosofia è l'impossibile, è il sogno cattivo di una umanità tracotante che s'illude di potersi spogliare della sua finitezza, della sua mancanza e addirittura del suo limite strutturale, la morte, per coincidere in un punto – la filosofia, appunto! – con il piano stesso dell'infinito? Ecco la questione, posta nella sua brutale semplicità, che attraversa da cima a fondo l'intera filosofia deleuziana e che ne spiega l'inattualità, la sorda ostilità che l'ha sempre accompagnata, gli equivoci di cui è stata vittima, ma anche il fascino che essa ha saputo esercitare su chi si avvicinava alla filosofia perché continuava ingenuamente a credere nella possibilità di una “sapienza” che non avesse più l'uomo come sua unità di misura.
Come tanti studenti di filosofia della mia generazione, io mi sono formato in un tempo – la fine degli anni '70 e gli '80 – in cui la dismissione della filosofia era moneta comune. C'erano dei maestri del pensiero, è vero. La brillantezza intellettuale dell'epoca è fuori discussione e, ad uno sguardo retrospettivo, lascia ammirati. Ma cosa insegnavano, in ultima analisi, questi maestri? Che cosa si apprendeva sui banchi di scuola del decostruzionismo di Derrida, dell'ermeneutica heideggeriana-gadameriana, della teoria wittgensteiniana dei giochi linguistici, dell'escatologia messianica ispirata a Benjamin? Che la filosofia era “metafisica” e che la metafisica, prodotta dalla hybris dell'homo europaeus, era violenza, volontà di potenza travestita da volontà di verità per meglio colonizzare il pianeta. A chi volesse comunque fare filosofia non restava allora altro che dedicarsi ad una pratica di sistematica decostruzione dell'impianto del sapere tramandato. L'intelligenza critica ha conosciuto in quegli anni vette che resteranno forse insuperate (penso, in particolare, a Derrida). Il presupposto di tanta acribia era però una risposta negativa alla domanda-fondamentale: la filosofia non può cominciare e non è mai di fatto cominciata.
All'aspirante filosofo non restava allora altro da fare che uno sfinente esercizio genealogico, una pratica sostanzialmente ironica (nel senso romantico del termine), di relativizzazione degli enunciati filosofici condita con il vagheggiamento – questo sì al limite del kitsch – di altre possibilità del pensiero che sarebbero rimaste, chissà perché, miracolosamente immuni dal contagio metafisico: il “poetico”, il “mistero”, il “totalmente Altro” ecc. La retorica del tempo era solita stigmatizzare chi non si conformava a questo paradigma con l'epiteto filosoficamente più infamante, almeno dopo la svolta kantiana: egli sarebbe infatti un “ingenuo” perché si ostina a credere nella possibilità di un pensiero capace di dare voce ad un reale più vecchio dell'uomo, più vecchio perché sottratto a quella correlazione originaria alla coscienza umana che, secondo il pensiero mainstream, funziona invece come orizzonte insuperabile (in Italia la filosofia di Emanuele Severino è stata, a dispetto della sua oggettiva grandezza, la vittima preferita da tale critica).
Ebbene, in tale cornice antropologica e antropocentrica, antispeculativa e sostanzialmente scettica (e, aggiungerei, senza poterlo spiegare, anche gnostica), la filosofia di Deleuze era una sorta di mosca bianca. Deleuze credeva infatti nella filosofia e credeva nel reale. Deleuze, in pieno Novecento, era un filosofo classico, che con un alzata di spalle si scrollava di dosso l'epidemico chiacchiericcio sulla fine della filosofia e sui nuovi inizi del pensiero. Ed era un filosofo classico senza essere ingenuo e/o dogmatico, come invece avveniva al vecchiume accademico che contestava il relativismo dilagante con la riproposizione, al limite del patetico, di metafisiche e teologiche certezze. Anzi, ogni trascendenza (morale, religiosa, concettuale) era da lui stanata e braccata con un furore misto ad umorismo che non aveva eguali nei tanti suoi contemporanei dediti alla decostruzione.
Deleuze, insomma, bestemmiava. Proprio lui, il filosofo che morirà suicida, nel 1995, una mattina di Novembre, si rifiutava di rendere omaggio al solo dio che i moderni riconoscono: non credeva al negativo, al suo primato, alla sua originarietà. Non credeva insomma in quello in cui tutti, in ultima analisi credono, tanto i dotti filosofi allevati nel culto della dialettica quanto il senso comune “progressista”. Non è il no titanico rivolto all'essere a misurare la dignità “trascendente” dell'esistenza. Non è l'essere-per-la-morte a costituire la cifra dell'umano. O meglio, la morte è senz'altro l'orizzonte dell'umano modo d'essere, come negarlo?, ma l'uomo – e con lui tutti i suoi correlati: la storia, la legge, il valore – non è la prima e l'ultima parola della filosofia. Parafrasando Platone, si potrebbe dire che per Deleuze ci sono cose più rilevanti dell'uomo senza che, per questo, sia necessario tirare in ballo il buon vecchio dio che dell'uomo è solo una protesi. Quali sono, allora, queste cose? Per nominarle Deleuze ha scelto parole molto semplici ma anche molto compromesse. Ha parlato di “natura” e di “vita”. Ha fissato il compito della filosofia nel pensare la natura e la vita. Ma la natura e la vita sono da pensarsi sotto il profilo del “divenire”, vale a dire non come insieme di fatti costituiti, sostantivati e trasformati in oggetti, bensì come processi in atto. Della natura è il lato naturante quello che interessa Deleuze e della vita il lato vivente. I participi presenti ribadiscono, già a livello grammaticale, che in filosofia si ha a che fare solo con delle affermazioni, con degli atti “in atto”, vale a dire con quei “sì” senza ombra di no che sono gli organismi, tutti gli organismi nessuno escluso, zecche e topi compresi.
Deleuze corrisponde così all'invito che, nella finzione platonica (Parmenide), il vecchio Parmenide rivolgeva ad un ancora inesperto Socrate: o sarai capace di pensare capello, fango e sporco, cioè il vivente nel suo aspetto mostruoso, oppure dovrai rinunciare alla filosofia. Provando a pensare natura e vita, Deleuze compie così un altro gesto scandaloso: invece di liquidare la scienza con aristocratico disprezzo (come fanno, ahimè, la maggioranza dei filosofi “continentali” addestratisi sui testi heideggeriani), Deleuze cerca di produrre un quadro concettuale che sia adeguato agli “oggetti”, non più a scala umana, che la nuova scienza ha fatto emergere. Deleuze, insomma, pensa la scienza e pensa la tecnica invece di giudicarla.
Per un tale pensiero realista e anti-tragico non poteva esserci una facile udienza in un'epoca che aveva elevato finitezza e mancanza, cioè l'uomo, a fondamento ultimo. I fraintendimenti, infatti, sono arrivati subito e hanno accomunato ammiratori e detrattori: Deleuze filosofo irrazionalista dell'immediatezza, Deleuze nichilista e anarchico, Deleuze pensatore post-moderno, Deleuze teorico del caos sessantottino e involontario apologeta del capitalismo finanziario ecc ecc. Qualsiasi sciocchezza è stata detta e continua dirsi a suo proposito da chi in realtà fatica addirittura a leggerlo, per incompetenza e per disabitudine alla complessità della grande filosofia classica. Perché in realtà Deleuze ripeteva lo stesso gesto dei suoi riconosciuti maestri: il Platone del Parmenide, i filosofici medievali dell'univocità, i grandi filosofi della natura rinascimentale, l'“ebreo maledetto” Spinoza, l'“ottimista” Leibniz e poi, nella modernità, Nietzsche, Bergson, James, Whitehead, Ruyer, l'ultimo Lacan. E lo faceva perché riteneva che quel gesto fosse il gesto con il quale non una filosofia, ma la filosofia potesse cominciare e, insieme ad essa, la beatitudo che la filosofia promette agli uomini, a patto però che essi si sappiano spogliare, senza rimpianti, della loro orgogliosa forma umana (come accade nel caso del suicidio dettato dalla filosofica constatazione che non vale più la pena di continuare ad insistere in quella forma quando è essa è foriera solo di dolore).
da http://www.doppiozero.com/materiali/deleuze/un-filosofo-classico-gilles-deleuze-ventanni-dalla-morte
Gilles Deleuze
ll 4 novembre 1995 moriva a Parigi il filosofo francese Gilles Deleuze. Doppiozero lo ricorda, a vent'anni dalla morte, con una serie di scritti suoi e su di lui.
È possibile “situare” con precisione la posizione di Gilles Deleuze nella storia della filosofia. Non aggiungo l'aggettivo “moderna” o “contemporanea” perché la storia della filosofia è una sola dal momento che a definirla non è la successione dei sistemi di pensiero ma la riproposizione costante e monotona di una sola questione, quella che concerne la possibilità per la filosofia di cominciare. Può darsi, cioè, un pensiero puro, un pensiero senza immagine, un pensiero che sia libero dalle presupposizioni della doxa, dalle equivoche “evidenze” del senso comune come dalle direttive morali di un malinteso buon senso? Oppure la filosofia è l'impossibile, è il sogno cattivo di una umanità tracotante che s'illude di potersi spogliare della sua finitezza, della sua mancanza e addirittura del suo limite strutturale, la morte, per coincidere in un punto – la filosofia, appunto! – con il piano stesso dell'infinito? Ecco la questione, posta nella sua brutale semplicità, che attraversa da cima a fondo l'intera filosofia deleuziana e che ne spiega l'inattualità, la sorda ostilità che l'ha sempre accompagnata, gli equivoci di cui è stata vittima, ma anche il fascino che essa ha saputo esercitare su chi si avvicinava alla filosofia perché continuava ingenuamente a credere nella possibilità di una “sapienza” che non avesse più l'uomo come sua unità di misura.
Come tanti studenti di filosofia della mia generazione, io mi sono formato in un tempo – la fine degli anni '70 e gli '80 – in cui la dismissione della filosofia era moneta comune. C'erano dei maestri del pensiero, è vero. La brillantezza intellettuale dell'epoca è fuori discussione e, ad uno sguardo retrospettivo, lascia ammirati. Ma cosa insegnavano, in ultima analisi, questi maestri? Che cosa si apprendeva sui banchi di scuola del decostruzionismo di Derrida, dell'ermeneutica heideggeriana-gadameriana, della teoria wittgensteiniana dei giochi linguistici, dell'escatologia messianica ispirata a Benjamin? Che la filosofia era “metafisica” e che la metafisica, prodotta dalla hybris dell'homo europaeus, era violenza, volontà di potenza travestita da volontà di verità per meglio colonizzare il pianeta. A chi volesse comunque fare filosofia non restava allora altro che dedicarsi ad una pratica di sistematica decostruzione dell'impianto del sapere tramandato. L'intelligenza critica ha conosciuto in quegli anni vette che resteranno forse insuperate (penso, in particolare, a Derrida). Il presupposto di tanta acribia era però una risposta negativa alla domanda-fondamentale: la filosofia non può cominciare e non è mai di fatto cominciata.
All'aspirante filosofo non restava allora altro da fare che uno sfinente esercizio genealogico, una pratica sostanzialmente ironica (nel senso romantico del termine), di relativizzazione degli enunciati filosofici condita con il vagheggiamento – questo sì al limite del kitsch – di altre possibilità del pensiero che sarebbero rimaste, chissà perché, miracolosamente immuni dal contagio metafisico: il “poetico”, il “mistero”, il “totalmente Altro” ecc. La retorica del tempo era solita stigmatizzare chi non si conformava a questo paradigma con l'epiteto filosoficamente più infamante, almeno dopo la svolta kantiana: egli sarebbe infatti un “ingenuo” perché si ostina a credere nella possibilità di un pensiero capace di dare voce ad un reale più vecchio dell'uomo, più vecchio perché sottratto a quella correlazione originaria alla coscienza umana che, secondo il pensiero mainstream, funziona invece come orizzonte insuperabile (in Italia la filosofia di Emanuele Severino è stata, a dispetto della sua oggettiva grandezza, la vittima preferita da tale critica).
Ebbene, in tale cornice antropologica e antropocentrica, antispeculativa e sostanzialmente scettica (e, aggiungerei, senza poterlo spiegare, anche gnostica), la filosofia di Deleuze era una sorta di mosca bianca. Deleuze credeva infatti nella filosofia e credeva nel reale. Deleuze, in pieno Novecento, era un filosofo classico, che con un alzata di spalle si scrollava di dosso l'epidemico chiacchiericcio sulla fine della filosofia e sui nuovi inizi del pensiero. Ed era un filosofo classico senza essere ingenuo e/o dogmatico, come invece avveniva al vecchiume accademico che contestava il relativismo dilagante con la riproposizione, al limite del patetico, di metafisiche e teologiche certezze. Anzi, ogni trascendenza (morale, religiosa, concettuale) era da lui stanata e braccata con un furore misto ad umorismo che non aveva eguali nei tanti suoi contemporanei dediti alla decostruzione.
Deleuze, insomma, bestemmiava. Proprio lui, il filosofo che morirà suicida, nel 1995, una mattina di Novembre, si rifiutava di rendere omaggio al solo dio che i moderni riconoscono: non credeva al negativo, al suo primato, alla sua originarietà. Non credeva insomma in quello in cui tutti, in ultima analisi credono, tanto i dotti filosofi allevati nel culto della dialettica quanto il senso comune “progressista”. Non è il no titanico rivolto all'essere a misurare la dignità “trascendente” dell'esistenza. Non è l'essere-per-la-morte a costituire la cifra dell'umano. O meglio, la morte è senz'altro l'orizzonte dell'umano modo d'essere, come negarlo?, ma l'uomo – e con lui tutti i suoi correlati: la storia, la legge, il valore – non è la prima e l'ultima parola della filosofia. Parafrasando Platone, si potrebbe dire che per Deleuze ci sono cose più rilevanti dell'uomo senza che, per questo, sia necessario tirare in ballo il buon vecchio dio che dell'uomo è solo una protesi. Quali sono, allora, queste cose? Per nominarle Deleuze ha scelto parole molto semplici ma anche molto compromesse. Ha parlato di “natura” e di “vita”. Ha fissato il compito della filosofia nel pensare la natura e la vita. Ma la natura e la vita sono da pensarsi sotto il profilo del “divenire”, vale a dire non come insieme di fatti costituiti, sostantivati e trasformati in oggetti, bensì come processi in atto. Della natura è il lato naturante quello che interessa Deleuze e della vita il lato vivente. I participi presenti ribadiscono, già a livello grammaticale, che in filosofia si ha a che fare solo con delle affermazioni, con degli atti “in atto”, vale a dire con quei “sì” senza ombra di no che sono gli organismi, tutti gli organismi nessuno escluso, zecche e topi compresi.
Deleuze corrisponde così all'invito che, nella finzione platonica (Parmenide), il vecchio Parmenide rivolgeva ad un ancora inesperto Socrate: o sarai capace di pensare capello, fango e sporco, cioè il vivente nel suo aspetto mostruoso, oppure dovrai rinunciare alla filosofia. Provando a pensare natura e vita, Deleuze compie così un altro gesto scandaloso: invece di liquidare la scienza con aristocratico disprezzo (come fanno, ahimè, la maggioranza dei filosofi “continentali” addestratisi sui testi heideggeriani), Deleuze cerca di produrre un quadro concettuale che sia adeguato agli “oggetti”, non più a scala umana, che la nuova scienza ha fatto emergere. Deleuze, insomma, pensa la scienza e pensa la tecnica invece di giudicarla.
Per un tale pensiero realista e anti-tragico non poteva esserci una facile udienza in un'epoca che aveva elevato finitezza e mancanza, cioè l'uomo, a fondamento ultimo. I fraintendimenti, infatti, sono arrivati subito e hanno accomunato ammiratori e detrattori: Deleuze filosofo irrazionalista dell'immediatezza, Deleuze nichilista e anarchico, Deleuze pensatore post-moderno, Deleuze teorico del caos sessantottino e involontario apologeta del capitalismo finanziario ecc ecc. Qualsiasi sciocchezza è stata detta e continua dirsi a suo proposito da chi in realtà fatica addirittura a leggerlo, per incompetenza e per disabitudine alla complessità della grande filosofia classica. Perché in realtà Deleuze ripeteva lo stesso gesto dei suoi riconosciuti maestri: il Platone del Parmenide, i filosofici medievali dell'univocità, i grandi filosofi della natura rinascimentale, l'“ebreo maledetto” Spinoza, l'“ottimista” Leibniz e poi, nella modernità, Nietzsche, Bergson, James, Whitehead, Ruyer, l'ultimo Lacan. E lo faceva perché riteneva che quel gesto fosse il gesto con il quale non una filosofia, ma la filosofia potesse cominciare e, insieme ad essa, la beatitudo che la filosofia promette agli uomini, a patto però che essi si sappiano spogliare, senza rimpianti, della loro orgogliosa forma umana (come accade nel caso del suicidio dettato dalla filosofica constatazione che non vale più la pena di continuare ad insistere in quella forma quando è essa è foriera solo di dolore).
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