C’è stato un messinese che ha
scritto uno dei libri più sperimentali della letteratura italiana del
‘900. Un uomo, nato ad Alì Terme, che per portare a termine il suo
romanzo-mondo ci ha messo più di vent’anni: una gestazione
lunghissima e sofferta, condotta in uno stato di quasi totale
isolamento che rischiò di comprometterne la salute, che inizia grossomodo nel
1950 e termina nel 1975, quando finalmente Horcynus Orca fu
pubblicato grazie al sostegno dell’editore Arnoldo Mondadori.
Uno scrittore solitario e schivo, costretto come tanti suoi conterranei a
lasciare la Sicilia, che visse sempre ai margini di un mondo letterario
che non gli tributò molti onori e che egli ricambiò con distacco
e sufficienza, al punto che, invitato allo Strega, con l’assicurazione che
il premio l’avrebbe vinto, declinò la lusinga spiegando che non
si chiede a un maratoneta, pronto per le Olimpiadi, di prendere parte a
una corsetta.
Quell’uomo – quello scrittore
sconosciuto persino a tanti suoi concittadini – si chiamava Stefano
D’Arrigo, e oggi ricorre il 25esimo anniversario della sua scomparsa,
avvenuta a Roma, sua città adottiva, il 2 di maggio del 1992, all’età di
72 anni.
Non fu un autore molto prolifico,
D’Arrigo. Laureatosi a Messina dopo gli studi a Milazzo con una tesi su Friedrich
Hölderlin, si trasferì presto nella capitale tornando nella sua terra natia
solo di rado, l’ultima volta probabilmente nel 1989, al teatro greco di
Taormina, per assistere alla messa in scena dell’Horcynus con la regia di Roberto
Guicciardini. Il suo esordio avviene nel 1957, quando, quasi
quarantenne, dà alla luce la raccolta di poesie “Codice siciliano”,
in cui già si intravedono i temi che caratterizzeranno il suo capolavoro,
un “colosso” di 1300 pagine tanto complesso quanto ostico, pieno zeppo di
neologismi (lo studioso Stefano Lanuzza ne ha contati 2.500), che
ricevette critiche feroci (Enzo Siciliano lo definì un “fritto
misto”) ma anche parecchi elogi (fra i quali quelli di Vittorini, Sciascia,
Pasolini, Giorgio Caproni e Primo Levi).
I primi due capitoli del
romanzo escono già nel 1960, sulla rivista Il Menabò, con
il titolo provvisorio de I giorni della fera: la
struttura narrativa dell’opera è già conclusa, ma l’autore deve ancora
affrontare una profonda revisione lessicale, che si protrae per tutti gli anni
successivi. E proprio la straordinaria ricchezza linguistica è una delle
caratteristiche salienti del romanzo, in cui si intrecciano, inestricabili,
almeno tre livelli: l’italiano colto e letterario, la parlata popolare dei
pescatori siciliani e una gran quantità di neologismi ideati
dall’autore. La complessità semantica, assieme all’assenza voluta di un
glossario e alla mole dell’opera, con un unicum narrativo di
oltre mille pagine, fa della lettura di Horcynus Orca un’impresa
ardua, per nulla facilitata dall’incessante tendenza dell’autore alla
digressione e al flusso di coscienza, caratteristica, questa, che
porterà tanti ad associare d’Arrigo a James Joyce.
La fabula dell’opera copre un
arco temporale di soli cinque giorni, dal 4 all’8 ottobre 1943, ma una
complessa trama di analessi e numerose digressioni sotto forma
di flashback raccontano episodi precedenti, risalenti fino al
1860. Protagonista del romanzo è il nocchiero semplice della
Marina Regia ‘Ndrja Cambrìa, che tenta di tornare a casa, a
Cariddi, attraversando lo Stretto di Messina: ritroverà un
paese irriconoscibile, trasformato dalla guerra e sconvolto
dall’apparizione in mare di una creatura mostruosa, l’Orcaferone,
simbolo enigmatico della potenza ultraterrena della morte.
Definito da Giuseppe
Pontiggia, che si occupò dell’editing del romanzo, “un mitico ed
epico poema della metamorfosi”, Horcynus Orca è un’opera-mondo estrema e
sperimentale, che diviene una sorta di rappresentazione allegorica
del Mare, con i suoi flutti e le sue correnti, i suoi tumulti e i suoi abissi.
Terminata l’opera di una vita,
occorrerà attendere il 1985 per il secondo romanzo, Cima
delle nobildonne, in cui lo scrittore cambia
radicalmente atmosfera, rinunciando allo sperimentalismo
linguistico e raccontando le gesta di un ermafrodito bellissimo,
amato dall’emiro di Kuneor. Per il resto nessun’altra pubblicazione, fatta
eccezione per un atto unico per il teatro, Emanuela, di
fattura “piuttosto lorchiana”, come lo definì lo scrittore, raccontando di
averlo scritto per una rivista antifascista nei primi anni ’40.
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