“Il disastro
imminente?. Vivevamo come se non fosse”. In un’intervista inedita
del 1982 la figura del padre, le letture giovanili e la memoria del
Lager.
Primo Levi
A occhi chiusi nella
tragedia
Intervista di Pier Mario Fasanotti e Massimo Dini
Primo Levi ragazzo com’era?
« Un ragazzo molto timido, molto afflitto da un complesso di inferiorità poiché ero il più magro e più minuto della mia classe; avevo amici robusti e non ebrei, per cui ritenevano ovvio che un ragazzo ebreo non potesse fare il salto in lungo, per esempio, e io mi sforzavo invece di farlo, cercavo di guadagnare terreno su questo terreno, quello dell’attività fisica, anche se con risultati nulli (...). A scuola tutto si capovolgeva, ero il primo della classe; scadente come attività fisica, come aspetto, mi sentivo brutto, ma a scuola ero bravo pressoché in tutto, avevo la vita facile ancora. Ho avuto dei professori brava gente; il D’Azeglio era stata una cittadella antifascista, al mio tempo c’era già stato il colpo di falce, avevano mandato in prigione o al confino o comunque espulso molti… Monti, Zini; insomma era stato messo sotto silenzio, sia come allievi che come professori, non era più un liceo di contestatori».
Rimpianti della Torino di allora?
«Il fatto di conoscersi tutti, che non fosse una grande città, ma una città piccola, un grande villaggio, era tranquillizzante. Io sono uno strano piemontese, rimpiango di non saper parlare il dialetto, che non ho mai imparato e mi piacerebbe poterlo parlare; io allora trovavo divertente che mia madre andando a fare la spesa parlasse piemontese, mio padre anche, anzi, mio padre parlava prevalentemente piemontese, la sua madrelingua non era l’italiano, era il piemontese, benché parlasse anche il tedesco, il francese e l’ungherese; era poliglotta, però la sua lingua era il piemontese».
Cosa voleva dire essere ebrei a Torino?
«C’era qualche voce sionista, che io ascoltavo distrattamente; c’era stato un tentativo qui a Torino, poco prima delle leggi razziali, un segmento della comunità ebraica torinese aveva fondato un giornale, La nostra bandiera, che era un giornale collaborazionista, cioè parafascista, che tendeva a dimostrare che gli ebrei erano ed erano sempre stati cittadini italiani, dei fascisti a pieno titolo e questo giornale era malvisto qui; mio padre, che era agnostico politicamente, lo vedeva molto male, intuiva che non era cosa pulita insomma. A Torino c’era un filone ebraico antifascista importante, che faceva capo a Vittorio Foa, a Mario Levi e così via; prevaleva la corrente antifascista, per molti motivi, per motivi intellettuali soprattutto, gli ebrei torinesi erano in massima parte antifascisti, non militanti, ma serissimi; così anche mio padre, che aveva la camicia nera, ma che però se la sentiva prudere addosso, aveva dovuto iscriversi al partito come tanti, come tutti, per non aver intralci nel suo lavoro, però ricordo le sofferenze, irritato quando se la doveva mettere la domenica, per andare a votare; non era un leone neppure lui, non se la sentiva di fare attività antifascista aperta o di spingere me a farlo».
Suo padre com’era?
«Parlava il tedesco correntemente, il francese correntemente e abbastanza bene l’ungherese, perché aveva lavorato a lungo a Budapest — lui sì che girava — anche se era abbastanza sedentario, ma il destino lo aveva scaraventato a Budapest, non so bene per quale motivo; lui s’era laureato qui a Torino come ingegnere, aveva lavorato a prosciugare il bacino del Fucino in Abruzzo e raccontava di questo lavoro, di questa sua avventura abruzzese, con molto calore; dopodiché gli avevano offerto, non so in che modo, un posto in una grossa industria ungherese — a quel tempo era ancora austro-ungarica — prima della Prima guerra mondiale, gli avevano offerto un posto a Budapest, proprio in quella grande industria meccanica dove è nata la rivolta del ’56; era un’industria, a quei tempi, tedesca, dove si parlava ungherese ma prevalentemente tedesco. Aveva lavorato come ingegnere progettista a Budapest per parecchi anni e poi era stato costretto a tornarsene in Italia quando è scoppiata la Prima guerra mondiale».
La letteratura che ruolo ha avuto per lei in quegli anni?
«(...) Ero un lettore instancabile allora; mio padre pure era un grande lettore, si faceva fare delle giacche apposta dal sarto che avessero due tasche laterali capaci ciascuna di un libro, e aveva sempre il suo libro in tasca, lo leggeva camminando addirittura (...). Comprava moltissimi libri e li portava a casa e li lasciava a disposizione mia e di mia sorella senza limite, salvo per Salgari. Salgari non poteva vederlo, diceva che non era serio, che era un pasticcione, uno scrittore impreciso, volgare. Io leggevo tutto, leggevo gli scrittori ungheresi, che allora erano di gran moda, Molnár, Dos Passos, Céline, quelli che mio padre comprava li leggevo».
Come si è rapportato con l’ambiente letterario?
«Gli ambienti letterari li frequento poco e per obbligo; naturalmente nutro una certa gratitudine sia per il circolo Bellonci, sia per il circolo La Primavera, per il Viareggio, etc. ci vado, ho una amicizia abbastanza profonda con alcuni, come Rigoni Stern, con Tomizza, ho stima per altri, per Sciascia, per esempio, che però non ho mai incontrato; non mi sento in competizione con nessuno; con Calvino ci siamo visti tante volte presso Einaudi, quando lui era qui a Torino o altrimenti nell’orbita Einaudi; ho una simpatia profonda per Sgorlon, che pure conosco poco, ci siamo visti soltanto in occasione di uno Strega e di un Campiello (...). Amicizia la sento per Rigoni Stern e Nuto Revelli, perché siamo colleghi in senso profondo, siamo persone quasi coetanee e tutti e tre siamo stati spinti a scrivere…».
E la percezione della tragedia immensa in arrivo…?
« Non è facile dire quando sia stato il momento preciso di questa percezione, non soltanto per quanto riguarda me, ma per l’intera generazione; che dovesse coinvolgerci è una percezione che io, come molti altri, abbiamo rimosso, l’abbiamo subita solo a colpi e poi l’abbiamo rimossa più volte, per parecchi episodi. L’entrata in guerra dell’Italia per noi è stato uno choc, le notizie che ci pervenivano così, a intervalli, di quello che capitava agli ebrei nell’Europa occupata ci arrivavano a onde e dopo ogni onda c’era un lavorio interiore in ciascuno di noi (anche in mio padre, che era ancora vivo) di palese rimozione, cercavamo di chiudere gli occhi, cercavamo di vivere “ come se non fosse”, finché era possibile — dopo l’8 settembre non era più possibile in nessun modo, la scelta diventava obbligatoria, non c’era più modo di fare come se nulla fosse».
La sua esperienza del
Lager: la memoria ha modificato qualche cosa, è un’esperienza che
per lei è ancora di drammaticità viva, intensa oppure è qualcosa
di lontano?
«È qualcosa di lontano nel tempo e non mi ferisce più. La sognavo sovente e ora non la sogno più da molti anni. Però la percepisco ancora come l’avvenimento fondamentale della mia esistenza, dalla quale non si può prescindere, senza la quale sarei diverso; per un altro verso, l’averne scritto è stato per me un’altra avventura, altrettanto grossa, altrettanto ingombrante e stranamente le due esperienze si compensano e si mescolano: il fatto negativo del Lager e il fatto positivo di averne scritto e di essermi arricchito scrivendone, di aver fornito una documentazione, aver fatto una testimonianza. Questa esperienza è positiva e va a compensare l’altra e si è anche, in un certo modo, sostituita all’altra come una specie di memoria artificiale. Mi funge da memoria. Proprio adesso sto cercando di rielaborare queste esperienze in senso generale, scrivere una serie di saggi su alcuni aspetti del fenomeno deportazione, che mi sembrano un po’ trascurati dalla letteratura, non solo dalla mia, da quella che ho scritto io, ma anche dagli altri (...). Un tema è quello del fatale costituirsi; quando vado in giro per le scuole in generale i ragazzi — me ne accorgo — hanno percepito quell’esperienza in termini manichei, cioè di bianco e di nero: quello che loro chiamano gli aguzzini da una parte e i prigionieri dall’altra. E questo modo di vedere non è corretto, non è storico; tra i due, tra gli aguzzini e i prigionieri c’era un gruppo di persone che erano a un tempo sofferenti e provocatori di sofferenza, e che erano collaboratori in parte, anche costretti a collaborare, su cui il giudizio rimane sospeso».
C’è qualcosa del passato che ancora le fa paura?
«E come no, fa paura a tutti; non è che abbia paure differenti dagli altri, la paura della bomba atomica ce l’ho anche io come tutti (forse un po’ meno degli altri però), non so perché, ma finisce che non ci credo tanto; mi trovo per lo più tranquillo e più ottimista dei miei interlocutori giovani (...); è molto difficile prendere una posizione razionale davanti a queste cose; può darsi benissimo che la mia posizione di uomo tranquillo e tranquillizzante sia la stessa rimozione che avevo allora, come dicevo prima; a quel tempo la trappola stava chiudendosi…; questo processo di rimozione era un fatto tipico degli ebrei italiani; comunque era una rimozione e può darsi che sia in atto un’altra rimozione, speriamo di no; non si può avere paura per tutta la vita, la paura sparisce con gli affetti, con il lavoro, con la vita quotidiana».
Come concilia questo dichiararsi non religioso e nello stesso tempo geloso della propria identità ebraica?
« È una cultura importante, antica, degna, stramba, anomala, ma come possedere una riserva di caccia, almeno a me dà questa impressione. Capisco Mario Rigoni Stern che scrive solo di Asiago, perché lui è uno scrittore di Asiago; scrittori ebrei siamo parecchi, ma non tutti sono interessati a… per esempio, Natalia Ginzburg è ebrea come me ma sensibile, non le interessa… In fondo la solidarietà che c’è fra Rigoni Stern e me consiste in questo: lui ha l’altopiano, io ho il piano ideale, che mi interessa, come ripeto, come riserva di caccia, un mondo che interessa a me e so che interessa anche ai lettori, mi sembrerebbe una sciocchezza e un peccato buttarla via, coltivare un altro filone dal momento che posseggo questo, che mi è famigliare».
La Repubblica – 5
novembre 2017
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