Serena
Vitale è una studiosa della letteratura russa con molti meriti, ma –
secondo me – l'intervista che segue, di Nicola Porcelluzzi, un
giovane slavista veneto, pubblicata da “Il Tascabile” e ripresa
da diversi siti non le rende onore. La lettura proposta, una cultura
e una poesia che all'improvviso maturano (nel primo ventennio del
Novecento) e che la Rivoluzione uccide o spinge al suicidio, mi pare
semplificata e semplificante al limite della banalizzazione. C'è un
passaggio che viene ignorato e che non è secondario: e cioè che
anche la Rivoluzione è frutto di quella improvvisa e meravigliosa
esplosione di modernità e che i tragici travagli che affliggono i
geni della poesia non hanno radice diversa da quelli che colpiscono
le esistenze di tanti rivoluzionari (inclusi alcuni geni della
Rivoluzione). Forse si dà un buon consiglio a Vitale e a
Porcelluzzi, se li si invita a rileggere Poesia e rivoluzione di
Trotzky. Li aiuterebbe ad una più ricca e serena comprensione dei
processi. (S.L.L.)
Poesia e Rivoluzione russa.
Un’intervista a Serena Vitale in occasione del centenario
a cura di Nicola Porcelluzzi
“Studierai
russo perché è la lingua di Lenin”, scriveva Majakovskij: anni fa
mi sono trovato a studiarlo all’università, senza mai chiedermi
perché – almeno all’inizio. I progressi nella lingua erano
lentissimi, e sofferti; al contrario, l’eredità storica e
letteraria di una terra che sfuggirà sempre alla nostra
comprensione, velata da un principio di indeterminazione, ha
contribuito a ri-cablarmi il cervello, ri-sintonizzarmi il cuore, e
mi accompagnerà sempre. Non è scontato spiegare cosa significa
studiare la letteratura russa, e soprattutto sovietica, a vent’anni
compiuti. È un’immersione da cui si risale lentamente, cercando di
apprezzare un paesaggio sempre meno cupo.
C’è
però qualcuno che lo capisce bene, anzi, che ha vissuto per questo.
In occasione del centenario della rivoluzione infatti, ho avuto la
fortuna di intervistare Serena Vitale, una scrittrice (e insigne
slavista) che questa immersione l’ha portata fino in fondo,
sacrificandosi alla Letteratura già negli anni Settanta, quando da
Mosca trafugava in Italia libri proibiti, intervistava classici del
Novecento come Sklovskij, il padre del formalismo. Queste e altre
storie vengono raccontate nel suo A Mosca, a Mosca!, un libro
da leggere.
Riascoltando
la nostra conversazione mi stupisco di quanto Vitale abbia ripetuto
quell’intercalare, “come lei saprà benissimo”, un inciso che
mi intimorisce, mi onora – anche se non corrisponde a realtà, e mi
fa pensare che avrei voluto dirle quanto poco in realtà ne sappia,
soprattutto di fronte alla sua erudizione, alla sua chiarezza
espositiva e al suo coraggio.
Ho recuperato un
volume di Lo Gatto, una Storia della letteratura sovietica,
perché so che la definizione vaga di “poeti della rivoluzione”
non la convince, anzi, la respinge, ed è stato intenso tornare a
pagine che avevo letto avidamente non troppi anni fa, cinque o sei,
anni che sembrano essersi moltiplicati per via di quello che è
successo nel frattempo, sia – banalmente – a livello
autobiografico che, meno banalmente, a livello sociale, politico,
culturale. Ecco Lo Gatto: “sul piano rivoluzionario, la rivoluzione
non era avvenuta. Le origini di quello che sarà il campo letterario
sovietico dei primi anni Venti si possono già individuare nel
simbolismo”, in Gorkij, in Pietroburgo di Belyj…
Ma
guardi, non ricordavo che l’avesse detto il grande Lo Gatto, che io
ho avuto l’onore di conoscere quando andavo all’Università di
Roma, lui veniva – già fuori ruolo – spesso alle feste che
facevamo a Natale, il grande padre della slavistica italiana. Lo vado
ripetendo da giorni e mi guardano come una matta, avessi saputo che
c’è l’autorità di Lo Gatto… Certo, tutto ha inizio con il
simbolismo, con la décadence,
con questo improvviso aprirsi della Russia alla fine dell’Ottocento
ma soprattutto all’inizio del Novecento, alle influenze che
arrivano da Occidente, e come è solita fare la Russia (si pensi alla
cristianizzazione), assorbe un influsso, un richiamo e lo rielabora
in modo del tutto autonomo.
Il
simbolismo in Russia assume delle connotazioni
mistico-religioso-filosofiche che sono quelle che fanno anche nascere
il pensiero filosofico russo di quegli anni. Si dice infatti che non
esiste una filosofia in Russia, ma altroché se esiste. Se si
prendono i grandi pensatori di inizio Novecento, se si considera
quella specie di koiné
in cui i filosofi, i poeti e gli scrittori agivano insieme, si
scambiavano le proprie impressioni: penso ai discepoli del
simbolismo, che tra l’altro riconoscevano l’autorità di maestri
come Blok, o gli studiosi geniali dei meccanismi della lingua e della
poesia come Belyj – su cui ho fatto la tesi di laurea… Di Belyj
poi non è solo la poesia a svettare, è il suo pensiero che è
grandissimo.
È difficile
raccontare a un pubblico, a una persona che non si è occupata di
queste pagine, come la tradizione letteraria russa in due secoli
(Settecento e Ottocento) abbia preso tutto quello che si chiamava
letteratura in Europa, condensandolo e arrivando al Novecento pronta
per dire la sua.
La
letteratura russa in quel periodo è esplosa. Fino ad allora era
confinata alla religione, la narrazione era nata all’interno dei
monasteri, poi per lungo tempo restò confinata alla nobiltà –
neanche tanto tempo poi, mezzo secolo appena – e infine è
scoppiata. Come comprendere questa esplosione? Esplode anche
insegnando all’Europa, perché il grande romanzo russo ottocentesco
a volte addirittura supera la tradizione europea. La Russia è un
paese di enorme potenziale che in queste oscillazioni tra Oriente e
Occidente riesce sempre a trasformare e rielaborare questo materiale
che la trasforma in maestra. Come spiegarlo, sono i miracoli della
storia, difficile riassumerlo in poche righe.
Un’altra cosa
complicata è spiegare agli amici, a chi legge, quanto davvero sia
affascinato e sconvolto dalla ricchezza del primo decennio della
prima letteratura sovietica, tutto quello che è successo tra il 1917
e il 1929 (anno in cui iniziano a spandersi i tentacoli del Realismo
Socialista). È successo di tutto.
Di
tutto. Tenendo conto che la reazione alla crisi del simbolismo da
parte di tutte queste persone che ci hanno affascinato… come dire,
io stessa ho fatto l’errore di intitolare un mio saggio Avanguardia
e rivoluzione, ma non è proprio così, le due cose non sono
vincolate. Le avanguardie si svilupparono dalla crisi del simbolismo
in un’epoca che poi visse il trauma della rivoluzione: Majakovskij,
per esempio, aderì al bolscevismo, certo, ma per il resto il governo
bolscevico fece strame di questi poeti, di questi letterati. Dopo la
presa del potere, quando il nuovo soviet chiamò a raccolta gli
intellettuali al Palazzo Smol’nyj si presentò solo Majakovskij.
Per il resto fu un’ecatombe.
Quello
che bisogna capire è che non fu l’oligarchia bolscevica al potere
a perseguitare le avanguardie che ci affascinano tanto, il
cubo-futurismo, l’acmeismo, e tutta quella fioritura straordinaria
che la poesia europea forse non ha mai conosciuto, futurismo e
surrealismo compresi; furono soprattutto i rappresentanti delle
Associazioni Proletarie che si ergevano a comandanti e persecutori di
questi intellettuali. Tentavano di insegnare a scrivere a
Majakovskij, a Chlebnikov. Dobbiamo meravigliarci che siano
sopravvissuti fino al Trenta. Considero la data della morte di
Majakovskij come la fine simbolica dell’Avanguardia, una fine
violenta. Non conosco nessuna grande letteratura che in dieci anni –
questi favolosi anni Venti che sono figli degli anni Dieci – abbia
prodotto questa dozzina di geni, e di questi geni quasi nessuno è
morto nel proprio letto. In Russia allo scrittore viene delegato un
ruolo di guida, di maestro del pensiero, di espressione popolare che
non ha pari nel mondo.
Facciamo
un gioco, provo a tirare fuori i nomi di questi dodici geni, e lei mi
corregge.
Proviamo.
Allora, immagino che
ci siano Blok e Belyj.
Belyj
non lo includo, parlavo di grandi poeti; però lo includo volentieri
tra i geni. Se mettiamo anche i filosofi e i teorici del linguaggio
poi superiamo la trentina di voci. Senza Belyj non ci sarebbe stato
il formalismo, lo strutturalismo, Belyj è un genio della teoria del
linguaggio. I romanzi sono straordinari, Pietroburgo, il ciclo
moscovita… ma parliamo di poeti.
Mi affido alla memoria
e al cuore. Majakovskij, Blok, Chlebnikov?
Un
grandissimo. Riconosciuto da tutti come maestro. Vuole che le dica
come sono morti? Blok di quello che chiamo suicidio bianco, tentò di
aderire alla rivoluzione ma non gli venne permesso di andare
all’estero per curarsi, e morì così, inerte. Majakovskij,
l’abbiamo detto, suicida [L’ultimo libro di Serena
Vitale per Adelphi è Il defunto odiava i pettegolezzi, e
parla di questo]. Continuiamo il
gioco.
Poi
c’è Esenin.
Grandissimo
poeta contadino, melodioso come solo la campagna russa poteva
produrre, anche se non è il mio preferito. Anche lui inizialmente
aderisce alla rivoluzione, per poi accorgersi che la campagna russa
da lui idolatrata si trovava ancora peggio di prima. Un altro
suicidio, da parte di un alcolizzato, un uomo che non riusciva a
trovare il suo spazio.
Dilaniato
tra i due poli irrisolvibili, tra la nostalgia di una vita più dura
e i bisogni di una città che non lo capiva.
Mosca
non lo capiva, Esenin dava scandalo, però la campagna di cui cantava
era distrutta, la civiltà del treno lo ossessionava – la figura
del teppista urbano nasce con lui.
Poi
c’è Pasternak.
Pasternak
è morto nel suo letto, ma tutti conoscono le persecuzioni che subì
nell’ultima fase della sua vita. Durante gli anni immediatamente
successivi alla rivoluzione per un po’ tacque, scrisse le cose
meravigliose di Mia sorella la vita, dove c’è una poesia in
cui si affaccia dall’abbaino e chiede, “Compagni ditemi, che
secolo c’è fuori?” e da qui si capisce il suo estraniarsi, il
suo prendere le distanze. Aderì a un gruppo minore del
cubo-futurismo, e fino agli anni Trenta lo lasciarono in pace. Stalin
gli telefonò per chiedergli “ma Mandel’štam secondo lei è
bravo?”, una di quelle telefonatine che faceva ogni tanto, l’orrore
del potere. Però poi tacque, e sappiamo la storia di Zivago,
le persecuzioni, più che personali rivolte verso le persone amate,
come la seconda moglie finita in un lager. Gli resero la vita
impossibile.
Siamo arrivati a
Mandel’štam.
Su
Mandel’štam non so neanche cosa dire. Bastano le date, 1891–1938.
Fu vittima prima dell’apartheid, una persecuzione, una negazione
della sua esistenza che lo portò quasi alla pazzia, e… [sospira]
Secondo me è stato il più grande poeta del secolo. Prima
condannato, poi esiliato, poi morto in un lager. Veniva
dall’acmeismo, un movimento nato nel 1912… Anzi già che ci siamo
nominiamo Anna Achmatova. La più grande insieme a Mandel’štam,
diventa grandissima quando il potere perseguita i suoi cari. Non
l’hanno mai toccata personalmente – anche se aveva sempre il KGB
praticamente in casa – però avevano toccato quello che le era più
caro, gli uomini che amava, soprattutto il figlio. Requiem è
un cantico meraviglioso dove lei da poetessa da camera si trasforma
in voce eroica ed epica di tutta la Russia al femminile, quella che
faceva le code davanti alle carceri per i figli, i mariti.
Ricordo la fila che
viene versificata nel libro, e se non sbaglio dedica l’opera alle
madri in attesa all’esterno del suo carcere.
Certo,
lei racconta nella prefazione che qualcuno le si avvicinò mentre era
in attesa di fronte a una prigione di Leningrado, e le chiese “lei
sarebbe capace di descrivere tutto questo?”. Lei ci pensò un
attimo, e disse: sì. Mi commuovo ancora adesso. Il Requiem è
una cantata tragica come solo una madre poteva scrivere, anzi, come
solo una donna poteva scrivere, sugli orrori delle repressioni.
Così arriviamo al
primo marito di Achmatova, Gumilëv.
Gumilëv,
ucciso nel ’21. A quanti siamo arrivati, otto? Grande poeta
acmeista che non ebbe il tempo di svilupparsi perché morì
giovanissimo: venne accusato ingiustamente di un complotto
monarchico. Il suo era un acmeismo in versione vitalistica, una
poesia in cerca del primo giorno della Creazione. Cosa sarebbe
diventato se non fosse morto a trent’anni, non è dato sapere.
Vado con l’ultimo
che mi viene in mente al momento, Chodasevic.
Un
grande, vede, lo sto ripetendo in continuazione. [ridiamo]
Costretto a emigrare, c’è anche da tenere presente questa enorme
emorragia di forze che causò l’avanzare del bolscevismo. Se
emigravano, emigravano a volte anche per caso, pensando di potere
tornare, la prima ondata migratoria degli anni Venti era ancora
incerta, non si capiva ancora cosa sarebbe successo. Però rimase lì,
in Francia, e scrisse una poesia molto europea, La notte europea
infatti, di un pessimismo assoluto ma di una fattura meravigliosa,
classica. E siamo a nove. Ah, c’è la Cvetaeva.
Collegamento nato
anche grazie al comune destino di emigrata. Chodasevic l’avevo
scoperto grazie a un libro incredibile, Necropoli.
Necropoli,
il libro di memorie, ma le consiglio La notte europea,
scriveva pochissimo, sul filo di questa linea puskiniana, però anche
lui figlio dell’epoca, con quell’occhio terso, lucido sulla
realtà che potevano regalare soltanto gli anni Dieci.
Uno dei preferiti di
Nabokov. Chi stiamo dimenticando?
La
Cvetaeva, è inutile parlarne, cosa dire ancora di lei? Il suo
rapporto con la rivoluzione è molto complesso perché passa
attraverso la figura del marito, controrivoluzionario.
Lo
segue poi in Unione Sovietica dove morirà, non sappiamo come,
probabilmente suicida. Appena era tornata in patria le avevano
portato via la figlia, il marito. Ho una certezza che mi deriva da
una lunga conoscenza di Marina Cvetaeva, che lei si sia uccisa il
giorno in cui ha saputo che anche il marito non c’era più. Quando
si trovava in condizioni terribili, durante l’evacuazione bellica,
sono quasi sicura che venne a sapere della morte del marito; il
rapporto di Cvetaeva con il regime bolscevico insomma è attraversato
da questo amore enorme per il marito, un amore difficile da
comprendere per noi, sapendo delle sue avventure amorose –
Pasternak incluso. La persecuzione che ha subito è ormai di dominio
pubblico. A quanti siamo?
Siamo a dieci.
Credo
di avere dimenticato un poeta poco conosciuto in Italia che è
Zabolockij, di cui è stato tradotto – non impeccabilmente… –
solo Colonne di piombo, poeta eccezionale. Fu colpito da una
specie di nevrosi ossessiva, un uomo profondamente segnato nella
psiche dalla repressione, distrutto dalla paranoia. Purtroppo non
posso ancora dimostrarlo in italiano, ma un gigante. E poi c’è
tutto il gruppo OBERIU.
La mia tesi era
proprio su un racconto di Daniil Charms.
Charms
e Vvedensky furono i creatori di questa versione russa dell’assurdo,
del dada russo. Figura unica nel panorama letterario, Charms dopo il
secondo arresto si finse pazzo per essere ricoverato e morì in un
letto di fame, in un ospedale psichiatrico durante l’assedio di
Leningrado. Lui e Vvedensky condividono un destino tragico,
terribile. Bisognerebbe tradurre tutto quello che hanno scritto. C’è
un unico problema: per vivere erano costretti a scrivere poesie per
l’infanzia. La poesia per l’infanzia – che visse una tradizione
meravigliosa in Russia – ha sfamato molti poeti, il problema è che
le poesie per l’infanzia di Mandel’stam, Pasternak, Majakovskij
eccetera non si possono tradurre perché come tutte queste poesie
sono sempre al limite del limerick, del gioco di parole, si tratta di
un patrimonio inaccessibile per l’Occidente. Ah, mi è venuto in
mente il dodicesimo: Klujev.
Un altro poeta
contadino.
Poeta
contadino, all’inizio blandito dal potere bolscevico che pensava di
poterne sfruttare la naturale carica eretica, un’energia che c’era
nella religione popolare, nelle sette eretiche russe, le sette
rappresentate da Belyj ne Il colombo d’argento,
per dire. La religione russa è sempre in odore di eresia e Lenin
pensò addirittura di sfruttare questa energia, ma fu un idillio che
durò pochissimo – le sette vennero castigate come la religione
ufficiale, e Klujev muore in un lager nel 1937. Il suo russo è
intraducibile, le sue radici antichissime.
La religione russa
popolare presentava un lato mistico, quasi paganeggiante…
Certo,
quella che veniva chiamata doppia fede, ne parla anche Esenin in un
saggio. Dobbiamo ricordare che era un paese cristianizzato dal Mille
dopo Cristo; è chiaro che chi dipende dal calendario agrario
sovrappone le festività religiose a quelle del calendario agrario.
Paganesimo e fede ortodossa si fondono in una miscela fantastica. Si
tratta di documenti rari, ma se ancora adesso si va nelle foreste del
Nord si trovano tracce di questa religione popolare, una doppia fede
che non implica un’ambiguità, ma è caratteristica di una
popolazione fortemente contadina – nella seconda metà
dell’Ottocento il 90% circa dei russi era ancora contadino. Una
tradizione monumentale che si è persa, e si trova ancora nella
lingua di qualche nonna nascosta nella foresta.
Parlando di rapporto
tra uomo/natura e prima letteratura sovietica, mi vengono in mente
Bogdanov e Platonov, un altro gigante assoluto.
Un
altro gigante. [ridiamo] Pensi che abbiamo parlato solo di poeti; si
immagini che galassia di scrittori, pensatori, fisici, matematici,
quante le idee che scorrevano… è un’idea di geni, non possiamo
farci niente.
Oggi è il 7 novembre,
considerato convenzionalmente come anniversario. Ho ripreso in mano
una poesia di Majakovskij, si chiama 150.000.000, dove il
poeta si immagina il centenario della rivoluzione, e scrive: “forse
è il centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, forse è
semplicemente un meraviglioso stato d’animo”. Cosa possono
significare, per un russo, queste parole?
Niente.
Non gli interessa niente. Tranne qualche superstite leninista magari…
150.000.000 fu
giudicato da Lenin un libro per pazzi. Disse, non stampatene più di
millecinquecento copie (o giù di lì), questo è un libro per pazzi.
Un libro che in realtà glorificava l’evoluzione, e riflette un
giovane Majakovskij che ha ancora non ha subito il verme della
delusione.
Infatti è del
1919-20. Infine, grazie al potere della letteratura posso dire dove
lei si trovava la sera di cinquant’anni fa. Si trovava nella casa
di “un rivenditore specializzato in rarità editoriali”
simboliste.
No
no, quella era la mattina. Era uno di quelli che campava rivendendo
agli stranieri cose come le icone, ovviamente delle croste, figure
medio-legali che la polizia sopportava perché potevano sfilare
qualche informazione. La sera invece vidi da in alto in alto, dal
ventottesimo piano della NGU [sorta di mega-residenza universitaria,
ndA], i fuochi… e la faccia di Lenin, enorme: poi ho scoperto il
trucco, era sospeso da una specie di mongolfiera. Panem et
circenses. Me lo ricordo bene perché in quei giorni facevano
girare la vodka extra: uno scialo incredibile.
Uno scialo
incredibile, nella migliore tradizione sovietica. La parte per il
tutto.
Il testo dell'intervista è stato pubblicato da “Il Tascabile” ( http://www.iltascabile.com/
). Noi l' abbiamo ripreso dal blog di Salvatore Lo Leggio condividendone anche la breve premessa. (fv)
Nessun commento:
Posta un commento