Mario Benedetti, Materiali di un’identità
La nuova edizione dell’opera di Mario Benedetti, uscita il mese scorso, (Tutte le poesie, Garzanti) ha il merito di rimediare alla scarsa reperibilità dei suoi libri: Umana gloria (Mondadori, 2004) è da tempo fuori commercio, così come Pitture nere su carta
(Mondadori, 2008). L’elefante Garzanti, inoltre, ha il pregio di dare
rilievo a un poeta ancora non studiato a sufficienza da un punto di
vista critico. Ora che le sue opere sono tutte disponibili in un unico
volume, che comprende tre introduzioni (di Stefano Dal Bianco, Gian
Mario Villalta, Antonio Riccardi), gli studi sulla poesia di Mario
Benedetti potranno riprendere slancio, e le ricognizioni generali sulla
poesia contemporanea avranno un motivo in meno per ignorare la sua
opera.
Tuttavia va detto che questi non sono tutti i libri di Mario Benedetti. Mancano le prime raccolte, quelle precedenti Umana gloria (che in gran parte, però, sono confluite nel libro del 2004), e soprattutto manca una delle più recenti, Materiali di un’identità (Transeuropa, 2010).
Tuttavia va detto che questi non sono tutti i libri di Mario Benedetti. Mancano le prime raccolte, quelle precedenti Umana gloria (che in gran parte, però, sono confluite nel libro del 2004), e soprattutto manca una delle più recenti, Materiali di un’identità (Transeuropa, 2010).
I Materiali sono un libro
eterogeneo, non facile da classificare come poesia; forse per questo
motivo sono stati scartati dalla selezione di Garzanti. Allo stesso
tempo, si tratta di una delle opere di poesia più sperimentali degli
ultimi anni. È un prosimetro (così lo definisce Fabio Magro qui),
oppure un libro di poesia in prosa, come già molte delle opere di
Benedetti, ma in forma estremizzata. Vi si alternano capitoli quasi
saggistici – ad esempio quello su Rilke o quello su Michelstaedter, al
quale Benedetti aveva dedicato una tesi – ad altri contenenti versi che
anticipano il libro successivo (Tersa morte, Mondadori 2013);
alcune pagine sono impossibili da ricondurre a un solo genere
letterario: troppo personali o liriche per essere ricondotti al saggio,
troppo filosofiche e prosastiche per essere poesia. Materiali di un’identità è un libro in cui verso e prosa, meditazione e autobiografia si intrecciano di continuo. Basti un solo esempio:
Io sono per te «un
dei tanti, come un altro sarebbe/ che per nome e per vista conoscessi»,
«Ti sono questo corpo e questi suoni» e il tuo aggirarti «fra gli
uomini» tra i quali «con questo parli ed a quello t’affidi» perché
semplicemente vivi «fra l’oggi e il domani e questo e quello», scrive
Carlo Michelstaedter nel poemetto A Senia. E l’impossibilità di
assolutamente “consistere” (la «pretesa dell’assoluto»
michelstaederiana, un Assoluto puntiforme, egoico – «io non sono per te
“io”, la mia vita,/ io, questa mia volontà più forte» – che troviamo in La persuasione e la rettorica)
ed in modo angoscioso l’inammissivilità della propria
interscambiabilità (a livell pulsionale se il Senso, in definitiva, si
riduce a questo o proviene da questo). Ma per me è gelosia
indiscriminata, presenza-specchio negli altri che mi diffrange.
II
La bellezza delle lacrime. La trasparenza.
Tutto è vicino e lontano.
Io a frammenti di te, di noi.
Progetto di vita in cui non saremo,
non siamo, non fummo.
«Sai» non è un «tu», eppure è da lì.
Bocca sul catino. Non ho madre.
Padre, di me stesso padre. Sul cielo stellato.
Che cos’è questa poesia? L’ho scritta suggestionato da Bataille, rimontando parti: “Il supplizio”, secondo capitolo del libro L’esperienza interiore. Si capisce? Il mio testo, intendo.
II
La bellezza delle lacrime. La trasparenza.
Tutto è vicino e lontano.
Io a frammenti di te, di noi.
Progetto di vita in cui non saremo,
non siamo, non fummo.
«Sai» non è un «tu», eppure è da lì.
Bocca sul catino. Non ho madre.
Padre, di me stesso padre. Sul cielo stellato.
Che cos’è questa poesia? L’ho scritta suggestionato da Bataille, rimontando parti: “Il supplizio”, secondo capitolo del libro L’esperienza interiore. Si capisce? Il mio testo, intendo.
Questi paragrafi sono tratti dal primo
capitolo. Nelle pagine successive Benedetti spiega la propria idea di
poesia come «estremo del possibile»; oltre a Bataille, a Rilke e a
Michelstaedter, cita o commenta Celan, Beppe Salvia, Houellebecq,
Bonnefoy; descrive scene di violenza erotica, ricorda episodi
autobiografici. Il terzo e il quarto capitolo hanno un incipit quasi
identico: «Scrivo con tipologia testuale saggistica quasi tutto il
seguente capitolo»; «Scrivo con tipologia testuale saggistica tutto il
seguente complesso capitolo». L’autore rispetta questa premessa solo in
parte, perché le ossessioni dei poeti che commenta sono anche le sue;
inoltre spesso la prima persona poetica fa irruzione nel discorso
saggistico in prosa. Nel capitolo VIII; ad esempio, in un frammento
viene commentata la telefonata con la quale all’autore viene annunciata
la pubblicazione del libro che sta scrivendo.
Materiali di un’identità cerca
di rappresentare la realtà come «compresenza di pezzi tra loro slegati,
ossia che non hanno senso, che coesistono senza che si cerchino le
spiegazioni delle loro relazioni reciproche», e lo fa mimando
l’eterogeneità con la sperimentazione formale. È un libro difficile,
complesso, ma non privo di una logica interna. Uno dei capitoli di cui
si compone comprende un’intervista che gli ho fatto nel 2009: ne
ripubblichiamo qui una nuova versione, insieme al suo prolungamento,
ovvero un breve dialogo del 2012. Speriamo che queste pagine siano
d’aiuto per gli studi futuri su Benedetti, affinché si comprenda che la
sua poesia in apparenza regressiva, volutamente sfuggente alla logica
del discorso ordinario, è in realtà il risultato di una riflessione sul
senso della vita e sulle possibilità epistemologiche della scrittura.
(Maggio 2009)
Ho letto in un blog un commento nel quale era dato rilievo a due poesie di Pitture nere su carta: Supernove1 e 2. In entrambe si ripete un verso, almeno un paio di volte: “Eco di luce che non da sé è vera.”
Sì, certo. È Dante , nel Paradiso, con il cambiamento del «non». Nel Paradiso
si legge «che da sé è vera»: il mio cambiamento , l’inserimento del
«non», si spiega perché, attraverso gli strumenti che la tecnologia ha,
oggi possiamo vedere gli astri, l’universo, con una luce – l’eco – che è
quella che le macchine ci permettono di avere. Osserviamo l’universo
con dei filtri, per cui la luce che per Dante era in sé, divina
etc., per noi è filtrata da macchinari costruiti dall’uomo. L’eco è
quella «scientifica», lasciata dalle esplosioni delle supernove, che si
può osservare con dei filtri; e non è la stessa di cui parlava Dante.
Poi ci possono essere particolari per cui una stella è vista in maniera
distorta, attraverso questi schermi.
Sembra che ti stiano molto a
cuore questioni epistemologiche. Un problema è l’incertezza
dell’esistenza delle cose, che per esistere realmente hanno bisogno di
essere ricordate, quasi incise, attraverso una continua rimodulazione
verbale: è quanto accade spesso in Umana gloria.
Sì, è così. È tutto molto provvisorio in
maniera forte, è così pregnante la parola «provvisorio» per me. È così
tutto. Forse anche perché mi sembra di aver vissuto epoche diverse. Sono
nato in un Friuli molto arcaico, arretratissimo; ho sentito molto la
trasformazione della società, del paesaggio – che era tutto per me,
allora. Molte volte sono andato via da diversi luoghi, ma lì è davvero
cambiato tutto. Qualche anno dopo il terremoto si sono modificati il
torrente, le case, la gente. Già gli uomini della generazione precedente
la mia avevano i loro ricordi; ma io ne ho molti di più, perché ho
filtrato i ricordi di mio padre, più tutta la mia vita, attraverso la
cultura «libresca». L’idea del tempo storico viene quando hai un po’ di
cultura; mia madre non ne aveva, né mio padre. Nella mia prospettiva
tante cose non sono solo guardate (perché anche mio padre guardava le
stelle), ma rimodulate da scienziati, da poeti. Poiché tutta
l’esperienza umana è per definizione provvisoria, quel che si può fare è
cercare di testimoniarne piccole parti.
Vorrei parlare di quello che in un tuo verso hai definito «il tempo senza tempo». In Umana gloria si nota ancora la presenza della storia. Nelle Pitture nere,
invece, la dimensione temporale sembra del tutto assente, statica,
nonostante l’articolazione in capitoli dia una forma di architettura e
di ordine consequenziale ai testi. Il tempo sembra sottratto alla
poesia, e alle sue parole. Una mia ipotesi è che ciò avvenga perché
l’obiettivo è quello di esprimere una condizione umana eterna. Il dolore
e la morte, che tu cogli per barlumi, ci sono sempre, per tutti.
Alcune esperienze sono nel tempo, ma
sono vissute come se fossero senza tempo: ad esempio l’innamoramento o
il dolore per una grave perdita. Il fatto che siano nel tempo ne
relativizza l’importanza, nonostante siano cose molto forti. Per cui io
cerco di testimoniare, di dare un senso a quello che facciamo e che
siamo; così che il senso che c’è, per esempio in questo momento fra noi
due, non si vanifichi. Ma non sono sicuro di poterlo fare, né che lo
si possa fare, cioè che abbia un senso di portata notevole. Io mi sento
in bilico – credo di essere sempre in bilico, anche scrivendo. Esprimo
sempre fratture, scrivo per fratture. Mi sembra che non ci sia la
possibilità di dire: «È vero così, è giusto così». Io penso che ogni mia
poesia non chiuda niente.
Prima abbiamo parlato di Franco Fortini e
delle sue opere. Ecco, con Composita solvantur è
diverso: esprime ancora una visione del mondo, che proviene da una
cornice ideologica molto presente in tutta la sua poesia. È più… com’è
che dicevi prima? Hai usato un termine che mi sembrava perfetto.
Mi sembra di aver detto «disseccamento» o «disperazione».
Sì, ma è una disperazione orientata. Avendo una sua prospettiva ben precisa, è orientata. La mia no.
In quest’ottica qualche accenno di presenza della luce può esserci in Supernove. A me vengono in mente anche due poesie su cui mi ero soffermata in Umana Gloria: Ferma vita e Matrimonio al rifugio Fodara-Vedla.
Mi aveva colpito in generale l’elemento salvifico, di speranza, per
esempio quando dici: «[…] E più da vicino/qualcuno guarderà il bene,/
anno dopo anno, da quello che c’era a questa casa nuova».[1]
Oppure: «Nessuna storia toglierà le erbe alla roccia,/ un altro cielo
non sarà il nostro ma la memoria/ perché altri vivano e chiedano dopo di
noi/ le nostre stesse cose:/ com’era per loro che erano tutto,/
innalzati sopra la terra?/ Nessuna cultura toglierà le mani alle mani,/
la pelle ai vestiti./ Difendiamo anche nella disputa le nostre vite […][2]».
Nel caso del matrimonio in questo rifugio (quello descritto in Matrimonio al rifugio Fodara Vedla), sembrava una cosa bella in sé,
e lo è. E va bene, riconosco un valore alle cose, ma è attribuito da
noi. Voglio dire che allargando lo sguardo ci si rende conto del fatto
che è tutto molto più relativo. Io sento che comunque il senso è da
circoscrivere. Ad esempio, per un uomo che sta morendo ma che si è
fatto da solo una casa, ha dei figli (si parla di questo nella poesia Ferma vita), ovviamente la sua vita ha un senso, ma solo se lo circoscrivi.
E quindi la poesia cosa fa? Commenta?
La poesia testimonia e commenta, ed è in
bilico fra il non riuscire, perché il suo piano non riguarda
l’esperienza ordinaria di vita che grosso modo è quasi tutto, e il farlo
comunque. Per cui l’orizzonte poetico è più vasto e ha un tempo che è
più vasto, ma che sembra non appartenerci se non come costante
aspirazione ad una salvezza.
Io credo molto in una funzione
della poesia come commento a ciò che accade, a ciò che è essenziale per
chi vive. Per alcuni poeti la lirica è principalmente un veicolo di
amplificazione della propria dimensione interiore; per altri è, appunto,
una lettura del mondo. Anche questi ultimi, tuttavia, spesso scrivono
in un modo estremamente complesso, allegorico, oscuro. Cosa ne pensi?
Io non credo che sia incomunicabile
quello che sento. E credo che non sia una questione linguistica. La
poesia è diventata più oscura, perché sono stati eseguiti dei lavori sul
linguaggio pensando che la poesia stessa fosse linguaggio, o che ne
fosse l’oggetto. Per me, invece, l’oggetto è l’uomo. Certo che si scrive
attraverso la lingua; ma attraverso un linguaggio devi dire qualcosa
che riguardi il senso della vita, dello stare nell’universo, del morire e
del vivere. Questo lo fai attraverso la scrittura; ma la scrittura è un
mezzo, il suo oggetto la oltrepassa. Come guardarsi negli occhi: noi ci
guardiamo e possiamo intenderci, attraverso gli occhi. Io ti do una
parola, tu mi dai uno sguardo; e attraverso questo si crea una comunità,
un’umanità. Ma è tutto povero in sé, finchè non viene
interpretato, fermato, commentato. Allora il valore, se vuoi, rimane
sempre nella poesia, alla fine – nella scrittura, nella storia della
parola… Ma è tutto così povero, lo vedi.
La pittura cupa e materica delle Pinturas negras di
Goya (evocate nel titolo) sembra avere un corrispettivo efficace nei
tuoi versi in Pitture nere su carta. In quel libro, così come in Umana gloria, compaiono
moltissimi riferimenti alle arti figurative. Quanto è importante la
dimensione visiva, per la tua poesia? E con quali artisti senti più
affinità?
La poesia è visiva, per natura. Infatti,
l’arte che le si avvicina di più è la pittura, e la musica poi
certamente.
A volte mi sento vicino alla Land Art, agli interventi
sull’ambiente: gli artisti che usano il paesaggio, anche umano, e lo
trasformano in qualche modo. E poi alla Video Art: Bruce Nauman, per
esempio. L’importante è che l’arte abbia a che fare con l’uomo, con la
materia, ossia con l’umanità; che sia plastica, come deve essere la
poesia. Questo non è contraddittorio con quello che ho detto prima.
Perché il limite, l’incertezza, la situazione di confine c’è perché c’è
la materia. Se non ci fosse, non ci sarebbero tante percezioni
differenti ad esempio, come nella poesia sulle supernove. Io mi pongo il
problema a partire dalla presenza della cosa, dalla sua matericità: è
questo che rende il mio modo di sentire la vita incerto, provvisorio al
limite. Provvisorio è, per definizione, ciò che è, ciò che è terrestre.
Molto spesso alcuni artisti
partono dalle cose, per rappresentare qualcosa di non immediatamente
visibile – a partire da Leopardi, ad esempio. Tanta poesia tende ad un
altrove, e si pone come tentativo di rappresentarlo. Si potrebbe
intendere così anche la tua poesia: come volontà di dar voce alle cose ,
a quello che c’è, per fermare su carta quel che non è immediatamente
percepibile da chi quelle cose le vive e basta, da chi magari su quella
strada cammina tutti i giorni come mezzo.
L’arte, l’esito dell’arte è questo.
L’altrove non è mai raggiunto. Non so se si allude a un altrove perché
si vuole che ci sia, oppure se l’alludere sia l’atto salvifico delle
cose. Ma se non ci si pone il problema dell’altrove, dell’invisibile,
dell’indicibile, non si riesce neanche a vedere le cose veramente.
L’altrove e il visibile sono due cose diverse: ma quello che non è
immediatamente visibile è ciò che rende visibile ciò che è. Questo tipo
di poesia è difficile, rischioso.
Questo secondo me è il senso delle Pitture nere:
solo attraverso una forma di sentire estremo è possibile la conoscenza
di qualcosa. Dopo un limite così estremo, cosa si può fare? In altre
parole: cosa cerchi di fare ora, con la scrittura?
Ormai quel libro l’ho concluso tre anni
fa. Intanto ho scritto varie cose. Il rischio è di rendere il discorso
un po’ troppo disincarnato, e non lo vorrei… Una cosa a cui penso è di
riprendere Umana gloria. Però, se lì c’era una linearità, una storia nelle poesie, ora vorrei «sconnetterle» molto di più.
Mi sembra che la prima poesia di Pitture nere contenga
già tutto quello che hai detto: sia il movente materico (i sassi, la
terra, e così via), sia la «muta del sangue nero», che sembra presagire
la cupezza e la presenza di riferimenti al sangue e alla morte, sia il
fantasma del padre:
Torna morta la carne che si indora, la muta del sangue nero.
La zolla dei sassi, diradati dopo il rumore, è tutta la terra.
La zolla dei sassi, diradati dopo il rumore, è tutta la terra.
Hanno chiamato arance le anatre, fuori dai cappotti, sul lungosenna.
Tentano ancora, dopo il tramonto, nella bufera dei loro occhi.
Ma nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino.Tentano ancora, dopo il tramonto, nella bufera dei loro occhi.
Promisero agli scolari il cielo che si vedeva.
Niente di questo è vicino. Va dura la mano
sulle tue spalle bianche, i piccoli denti, nel tuo sorriso.
Dagli uomini agli uomini va, imposto a credervi.
Questo anno Santa Lucia era mio padre, col suo fantasma.
Perché l’hai scelta come poesia iniziale?
L’ho scelta perché ho iniziato a scrivere dopo Umana gloria ,
che è fatto di storie ed è totalmente diverso. Poi, finito il libro, mi
sono accorto che era compatto, omogeneo. Ma quella poesia permette un
raccordo con Umana gloria. È come se non facesse parte del libro in sé.
Ma lo preannuncia.
Sì, infatti ci sono anche altre poesie di quel tipo. Ho scelto quella perché ha il verso un po’ più spezzato di Umana gloria,
ma si avvicina. Come contenuto ricorda Paul Celan, mio padre, la tomba
(zolla, sassi). Quando parlo delle arance, è proprio Celan.
È una cosa
folle, impossibile: ho pensato a Paul Celan sulla Senna, nell’atto di
gettarsi. «Hanno chiamato arance le anatre»: le anatre sono sulla Senna,
ma le arance non credo. Poi «fuori dai cappotti»: fuori dagli
indumenti. Si lega a «la bufera dei loro occhi». Una specie di follia,
no? La bufera degli occhi che non vedono bene le cose: uno che si
suicida nella Senna per me ha una bufera negli occhi. «Tentano ancora,
dopo il tramonto»: cioè ci provano ancora, di notte. Poi è importante
«nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino». Infine,
«promisero»: il soggetto qual è? È impersonale. Uso spesso questi
soggetti stranianti. «Promisero agli scolari il cielo che si vedeva»: ma
chi? Gli insegnanti, il pensiero comune.
Quindi una tradizione culturale, in qualche modo?
Sì. Però poi «niente di tutto questo è vicino».
Ma in Umana gloria dicevi: «qualcuno guarderà il bene». Mi sembra che il discorso si raccordi, solo che qui il cielo si fa più lontano?
Forse sì. Poi c’è «Quest’anno Santa
Lucia era mio padre». Per noi Santa Lucia è il giorno in cui ai bambini
fanno i regali. E mio padre era, non è più – ma qui è ancora, con il
suo fantasma.
Cioè nel mio presente di adulto, il padre che in segreto
donava i giocattoli diviene una presenza di fantasma.
(Agosto 2012)
Sono passati quattro anni da Pitture nere su carta,
e ho l’impressione che la tua poesia sia effettivamente cambiata molto.
Provo a formulare qualche impressione. Nei nuovi testi tornano i versi
lunghi, le ‘storie’ e i paesaggi di Umana gloria; tuttavia sono
permeati da toni più cupi, e da un senso di morte sempre più forte e
acuto. Da un lato questo si concretizza in figure, fantasmi, morti che
escono «al guinzaglio». Dall’altro è sentito come orizzonte
consustanziale a qualsiasi forma di vita. La dimensione luttuosa era un
aspetto certo già presente nei libri precedenti (soprattutto in Pitture nere),
ma ora è diventato dominante. La necessità di una parola poetica
viscerale, che tenti di rappresentare ciò che è più importante per
l’esperienza umana, coincide con il parlare della morte?
La morte non è la cosa più importante
per l’esperienza umana, penso che si possa personalmente non incontrarla
mai o eluderla, facendo finta, e fortificando tutte le nostre azioni
attraverso cui vivere ottimamente. Anche se la morte lavora
nascostamente (e si dice che produca: la cultura, le religioni, ecc.)
possiamo non avere di questo la minima consapevolezza. Se rimango nella
mia piccola esperienza, il morire è un fatto traumatico che mi
ossessiona ed opprime, cancella banalmente e drasticamente tutto,
proprio come se il genere umano non fosse mai esistito, ed ovviamente
paralizza. L’osservazione del decesso delle persone più care ha reso più
acuto questo sentimento.
Nelle poesie che ho letto la
coscienza della finitudine è complementare ad una necessità altrettanto
impetuosa di nominare le cose, di aderirvi e di mostrarle nella loro
magmaticità e scomposizione. Mi vengono in mente alcuni versi della nona
elegia di Rilke, alla quale dedichi un saggio nel tuo ultimo libro
pubblicato da Transeuropa: «Ma perché essere qui è molto, e perché
sembra / che tutte le cose di qui abbian bisogno di noi, queste/
effimere/ che stranamente ci sollecitano. Di noi, i più effimeri» Queste
parole mi sembra siano confermate da alcuni tuoi versi, con cui si
conclude uno dei testi di Biosfere, nell’ultima sezione di Materiali di un’identità:
«Lo so,/ che tutto è qui, adesso, con tutto quello che c’è, di me e di
noi». È ancora la direzione verso cui stai andando con le tue poesie
più recenti, che confluiranno in un nuovo libro?
No. Tra l’altro il pensiero direi
esaltante, contenuto nell’affermazione «essere qui è molto», non lo
coltivo più. Nomino le cose perché sono le cose che muoiono, le cose
sentite come nostre in quella patina sensibile dell’umano che le rende
familiari e concrete (da qui forse il privilegio dato alla vista o al
tatto). Poi, il fatto di avere scritto «tutto è qui, adesso» lo sento
in questo periodo come una banale costatazione: certamente tutto è qui e
tutto sarà sempre qui; è stata un’ inadeguata, arrogante affermazione.
Nelle nuove poesie è ancora
visibile un’urgenza forte di definire le cose attraverso lo sguardo,
attraverso un tipo di visione che è un tutt’uno con la parola, alla
quale è legata la possibilità stessa della poesia. La poesia è vedere:
«Le parole sono nelle storie che mi hai fatto vedere./ Quanto non è
visto, e quanto non si dice oggi!», si legge in uno dei testi pubblicati
su Le parole e le cose.
Tuttavia in un verso di un anno fa è scritto che «Morire e non c’è
nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole». L’invadenza della
morte crea un limite alla parola?
Sto scrivendo, un po’. Mi sembra un
compianto in morte anche delle parole: mi sembrano sterili e futili,
tanto più se aspirano a farci credere, parafrasando Andrea Zanzotto, di
meritarci un bell’essere.
Recentemente – e non per la prima volta –
sei tornato a parlare di crisi e perdita di identità della poesia. Dopo
quattro anni dal nostro ultimo colloquio, non ti sembra che la poesia e
il dibattito sulla poesia stiano vivendo una stagione migliore, anche
grazie alla diffusione e alla critica online? Tu stesso hai pubblicato
soltanto su internet, fino ad ora, alcuni tuoi testi inediti, e ti servi
molto del web. Un futuro in cui le poesie non circoleranno più su
supporti cartacei ti sembra necessariamente peggiore?
Vivo la situazione attuale. La pagina
cartacea, il libro da leggere, richiede uno scarto, una discontinuità
dal tempo ordinario che la società odierna sembra annullare. Ognuno
spera di operare bene. Ma la storia forse ci sovrasta.
Pezzo tratto da http://www.leparoleelecose.it/?p=29743
9 novembre 2017,
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