La domesticazione del fuoco è stata una svolta fondamentale nella vita dell'umanità. Alcune ricerche ne raccontano la preistoria.
Marco Belpoliti
La storia della
civiltà incomincia grazie al dono di Prometeo
La legna tagliata e
accatastata a fine estate ora arde nella stufa. L'inverno non è
ancora arrivato, tuttavia abbiamo già acceso il fuoco. Ogni volta
che getto un pezzo di legno nella stufa penso a cosa deve essere
stata la vita dell'umanità prima. Prima che il fuoco diventasse una
fonte di calore, d'illuminazione e strumento di nutrimento. Secondo
Catherine Perlès, autrice di "Preistoria del fuoco"
(Einaudi), già all'epoca della glaciazione di Mindel, 450mila anni
fa, alcuni uomini mantenevano il fuoco nelle loro abitazioni.
Come se l'erano
procurato? Oggi è facile, basta comprare i fiammiferi in una
qualsiasi tabaccheria (anche se non tutte vendono più i cosiddetti
"svedesi"). Ma come hanno fatto i nostri progenitori a
ottenerlo? Veniva ricavato da fonti naturali o era prodotto
artificialmente? Tre sarebbero state le fasi dell'ancestrale rapporto
dell'uomo col fuoco: in un primo tempo gli uomini non sarebbero stati
capaci di padroneggiare quello provocato da fulmini, e ne avevano
gran paura; poi hanno imparato a raccoglierlo e ad alimentarlo, senza
però riuscire a produrlo; nella terza fase, infine, 400mila anni fa,
sono stati in grado di far scaturire il fuoco ogni volta che serviva
loro.
Senza il fuoco non
saremmo sopravvissuti, e non avremmo avuto la ceramica, la prima arte
secondo Lévi-Strauss, e neppure la fusione dei metalli. In breve:
niente civiltà. Siamo figli del fuoco, come ci ha spiegato in modo
poetico e filosofico, Gaston Bachelard nella sua Poetica del fuoco.
L'uomo si differenzia
dagli animali solo il giorno in cui diventa padrone del fuoco; lo fa,
come ci rammenta il mito di Prometeo, a spese degli dèi, poiché il
fuoco è di natura divina (James G. Frazer, Miti sull'origine del
fuoco, Xenia). Se anche noi siamo divini, lo dobbiamo perciò al
fuoco. Tuttavia la cosa più interessante che ci spiegano i
paleontologi è che la scoperta e l'utilizzo del fuoco presuppone non
un progresso tecnico, bensì psichico. L'Australopiteco possedeva già
i mezzi necessari per usare il fuoco (fuochi spontanei, conservazione
e produzione), però non sembra avesse, scrive Perlès, la struttura
mentale per sfruttarli.
Questo scarto si crea
nella percezione del rapporto tra percussione o confricazione e
produzione del fuoco. Lo scatto è avvenuto lì, nella testa dei
nostri progenitori; poi la questione diventa puramente tecnica.
Spesso ci dimentichiamo che le scoperte umane sono prima di tutto
l'effetto di un progresso psichico e solo dopo di un fatto tecnico,
il computer come il fuoco.
Su come l'hanno prodotto
i nostri antenati ci viene in soccorso un libro curioso: Fire. L'arte
delle fiamme (Piemme) di Daniel Hume. Hume è un esperto di
sopravvivenza in zone selvagge, uno di quei curiosi personaggi che
cercano di ripercorrere il cammino dell'umanità reinventando i
metodi perduti per cui siamo quello che siamo. Appassionato del fuoco
da ragazzo, come racconta, è stato in giro per il mondo, dall'Africa
all'Asia e all'Oceania, per scoprire come le tribù sopravvissute
nelle foreste di quei tre continenti si procurano ancora oggi il
fuoco.
Mentre sto scrivendo giro le spalle alla stufa dove brucia un
ciocco di legna che i miei vicini hanno tagliato e io ho stoccato
sotto il portico nel mese di settembre. Ho da poco finito di leggere
il libro di Hume, seguito naturale del libro di Lars Mytting, Norwegian Wood (Utet).
Mentre il libro di Mytting era un libro centripeto, fondato sulle
pratiche di taglio e accatastamento della legna, questo di Hume è
invece centrifugo: ci porta in giro per il mondo all'inseguimento dei
sei metodi fondamentali attraverso cui l'umanità è stata in grado
di produrre fiamme quando e dove voleva. Anche se non si è stati
scout, tutti conoscono il metodo del piolo a mano, e quello del
trapano ad archetto, sua variante: frizionare un legno su un altro
legno, possibilmente asciutto, e avere un'esca di paglia o foglie per
raccogliere il fuoco.
C'è uno strano connubio
di ontogenesi e di filogenesi nel percorrere con Hunt, narratore
vivace ed entusiasta, i metodi dei cosiddetti "primitivi",
metodi che ci riportano all'infanzia dell'umanità, ma anche alla
nostra (o mia), quando accendere il fuoco era un bisogno
insopprimibile: non si diventava adulti senza aver fatto questa
prova, fosse anche con la lente e il sole (settimo metodo, non antico
però). Siamo tutti degli incendiari, potenziali discepoli di
Erostrato: è il complesso del fuoco di Bachelard.
Gli altri metodi sono:
quello dell'aratro, sempre usando legno; della sega, simile; della
cinghia, sua variante; e quello del pistone pneumatico, il più
curioso. La base di tutto è strofinare, frizionare e agitare un
legno con un altro legno, salvo il caso di accendere il fuoco con le
scintille provocate dal percuotere una pietra con un'altra (ottavo
metodo). Hume è un tipo pratico e va al sodo. Non si pone il
problema di cosa sia per noi il fuoco. Forse non ha neppure letto il
libro della Perlès, o l'altro bel volume di Johan Goudsblom, Fuoco e
civiltà (Donzelli editore); e neppure si pone la questione che ha
coinvolto Richard Wrangham, docente di Antropologia biologica a
Harvard, in L'intelligenza del fuoco (Bollati Boringhieri). Questi ha
dimostrato come la cottura del cibo abbia modificato l'umanità nel
corso di migliaia di anni, problema che neppure Darwin aveva
esaminato. Wrangham ha concluso che noi, Homo Sapiens, siamo
sopravvissuti perché abbiamo cominciato a cuocere il cibo.
Eppure un fascino un po'
selvaggio (e ingenuo) il libro dell'esperto di sopravvivenza Hume ce
l'ha. Adesso che l'ho letto, in caso d'improvviso collasso della
civiltà, so come accendere un fuoco. Naturalmente spero di non
dovermi mai trovare nelle condizioni del protagonista de La strada di
Cormac McCarthy. Mai dire mai.
La repubblica – 15
novembre 2017
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