“La vita e la morte allato vanno”
La poesia di Jolanda Insana
come infinita Sciarra amara
di Maria Allo
L’anno 1977 segna
l’esordio tardivo nella poesia della quarantenne Jolanda Insana, quando un
gruppo di testi di Sciarra amara è presentato in un quaderno collettivo
della casa editrice Guanda, diretta da Giovanni Raboni, poeta e militante nella
critica in primis letteraria, ma anche teatrale e cinematografica che,
sbalordito alle schioppettate linguistiche della “Pupara”, così scrive:
«[…] dietro o al di là della beffa, dietro o al di là dell’acuto, atroce
sarcasmo, è in ogni caso, e senza scherzi, questione di vita o di morte: ed è
questo, certo, a far circolare nella poesia della Insana, nel suo
personalissimo impasto di sostenutezza aulica e gesticolante allegria
dialettale, nel suo epigrammismo che, per naturale paradosso tende a farsi voce
ininterrotta, declamazione, poema, una vena di minacciosa, rabbrividente
cupezza.» Jolanda Insana è voce poetica italiana fuori dal coro. Sciarra
è termine siciliano che viene dall’arabo šarra e insieme letterario che
significa rissa, «conflictus tra la vita e la morte».
“io infuoco la
posta / in questo gioco che mi/ strazia / e punto forte sulla carta”
Impasto verbale di
lingua italiana, dunque, e dialetto siciliano, a tratti duro, per scardinare il
conformismo dell'Italia degli anni Settanta e la mancanza di senso. Insana dice
che la parola è voce della carne e la poesia è medicina carnale, così dai
dettagli di un particolare stonato, “picciùsu”, cerca di far sprigionare
un senso che vada al di là della superficie, una grande occasione di vedere il
male e di non arrenderci a esso. Per questo Raboni, ha potuto parlare della
«concretezza visionaria» di una voce che, prendendo le distanze dalla massa,
riesce a cogliere le storture dell’esistenza e denunciarle. Da questo punto di
vista il plurilinguismo di Jolanda Insana e i testi delle sue raccolte
poetiche, caratterizzati da un vero e proprio “bombardamento” lessicale
con termini letterari, insieme a voci dialettali e neologismi, hanno una cifra
inconfondibile che si riconosce non solo nella concretezza ma anche nella
continuità con la tradizione, che la spinge in direzione della nostra povera,
martoriata, meravigliosa lingua italiana. La ricerca poetica di Jolanda Insana
è “lazzariata” dall’esperienza nella sua infanzia della
seconda guerra mondiale, dai bombardamenti delle forze alleate e dalla miseria.
Del resto
caratteristica dell’autrice è la capacità di far risorgere; in questa forza
risiede la specificità della letteratura, per noi, esperienze lontane e
concluse, così nel componimento Il bombardamento: «non c’è cautela
che basti contro la paura/ a tre anni quando si apre la prima voragine/ e sotto
i bombardamenti si perde terra e acqua/ temo però che quello non fu l’ultimo
avviso/ mandato dal padrone// nessuno conoscerà che male fu/ avere offeso
l’udito.» Poesia sperimentale, dunque, impegnata nei contenuti e non, di
quelle che nelle strutture espressive e nella “lingua ‘strana’, eppure
così familiare ai siciliani, sa incidere sulla realtà concreta, attraverso un
instancabile labor limae nel quale lo studio dei classici latini e greci
ha svolto un ruolo di primaria importanza. Ecco la novità: il suo linguaggio
poetico deve molto al pensiero greco, ellenistico e al romanesimo, al costante
e vario vaglio filologico su testi di Euripide, Alceo, Anacreonte, Ipponatte,
Callimaco, Plauto, Lucrezio, Marziale fino ad Andrea Cappellano. Così la sua
ricerca, lungi dal costituire il momento culminante di un’unica vittoriosa
tradizione, rappresenta l’aperto crocevia da cui non possono non transitare i
filoni più avanzati della ricerca poetica del nostro secolo. Cosa ci dice tutto
questo? Che è cambiato radicalmente il nostro modo di dare significato alla
vita rispetto al passato, non c’è un senso già dato e comune per tutti, il
significato della vita va invece costruito, da ciascuno in modo diverso. Per
lei era importante la parola a tratti aggressiva sulla soglia dell’ambiguità
scorticata da un continuo allarme e frana del senso. “Sono fortunato/ se
riesco a muovere la mandibola in avanti”, si confessa la Voce mentre prova
se stessa in ogni ampiezza e falsetto, incrociando la crescente fragilità con
la malattia da cui è avvolta ogni altra apparenza fuori da sé, natura o nazione
o mondo. A cominciare dai “vecchi padri/ incarogniti e ubriachi di viagra”,
o dalle “fragole giganti/ alberi metà pino e metà abete nati dopo
Cernobyl”. È chiaro che simili sperimentazioni come musiche strimpellate o
termini danteschi, cuticagna o incantamento, o ancora colpanza, fallenza,
oblianza, perdenzia, assieme alla creazione di verbi parasintetici a prefisso
in-, in-, ancora una volta di ispirazione dantesca (impoesiarsi,
inserpentarsi), disorientano il lettore perché rendono problematico qualsiasi
tentativo di traduzione, ma il linguaggio di Jolanda Insana contaminato da un
dialetto a tratti duro dirompe e richiama l’espressionismo dantesco tra
antinomie, giochi di parole, balbettii e borbottii, onomatopee, deformazioni
verbali che dolorosamente e provocatoriamente ruggiscono come fendenti fonici
dentro le viscere della lingua che sconvolge e non si piega. Eppure i ricordi
sono compresi solo attraverso simili “resurrezioni”, emozioni materiche che ne La
tagliola dell’amore sostituiscono la spietatezza dello sguardo a una certa
elegiaca apertura che indugia nella tensione quasi biologica del sentimento.
“Oggi posso fare qualcosa io che sono vinta/ e non voglio rivincite e
sacrifici”.
Visionaria della
ribellione e dello sdegno, voce selvaggia in grado di interpretare la lotta
umana e di ammonire chi opprime e soffoca ogni moto di carità e solidarietà,
Jolanda fu eretica e mistica, voce coerente nella dicotomia tra corpo e spirito
“non lo amo ma non è una ragione per distruggerlo/ questo mio corpo incoerente
mai sazio né beato/ e dunque lo allevo e lo tutelo come madre/ e lo rattoppo e
strappo alle grinfie della figlia”.
Un “impasto
personalissimo di sostenutezza aulica e gesticolante allegria dialettale”
in cui la Sicilia affiora costantemente come il biancomangiare e nessuno
come Jolanda Insana ha saputo dare voce alla saggezza amara della Sicilia
attraverso l’evocazione della madre ne La tagliola del disamore (2005).
Nata nel 1937,
originaria di Monforte, laureata in Lettere classiche a Messina con una tesi
sull’opera in frammenti di Erinna (una poetessa greca amica di Saffo),
trasferitasi nel 1968 a Roma, l’Insana è stata, oltre che studiosa, anche
insegnante che odiava adulazione e servilismo con una profondità fortemente
sapienziale, priva di mediazioni, che non sarebbe dispiaciuta a Rimbaud o a
Campana. Certo, gli apprezzamenti non le sono mancati, infatti nel 2002 per La
Stortura le è stato anche assegnato il premio Viareggio. Cospicua dunque la
produzione di Jolanda Insana, dagli esordi di Sciarra amara (1977) e Fendenti
fonici (1982) si arriva a La stortura (2002), libro fondamentale per
l’espressione poetica femminile, oggi un universo rispetto al quale la critica
fatica, per molti aspetti, a posizionarsi. È un dato obiettivo, per esempio,
che il numero delle poetesse sia di gran lunga inferiore a quello degli uomini,
fatto che si spiega facilmente con la condizione di esclusione nei confronti
della cultura a cui le donne siano state condannate per secoli. Infatti mai
come in quest’opera si è posto l’accento sull’immensa difficoltà incontrata
dalla parola nel pronunciare: «non c’è altra parola che la semplice parola/ ma
s’infinse di non sentire/ e mi lasciò con le braccia aperte/ credendosi il
padrone che s’abbuffa di libertà/ e sputa servi incatenati/ sono qui e non sono
ammutolita e sciacquo il tempo/ per acquistare tempo/ commisurando le proposte
sgradevoli/ all’incanto sottile delle sete» (p. 361); e ancora: «non ho accesso
alla parola/ e quando con fatica dico fame/ faccio vento e non posso
masticare// è un’ossessione la bocca/ poi che si mangia i denti e fa sputazza»
(p. 418). La terra, e cioè l’umanità, ha bisogno di individuare valori solidi
che diano un fondamento, anche di tipo religioso, alla vita, agli uomini e al
loro bisogno di significato. Ma dal cielo non viene nessuna parola che soddisfi
tale bisogno. L’uomo resta nella solitudine tragica della sua condizione,
caratterizzata, nel contempo, dal bisogno di significati certi e
dall’impossibilità di una risposta a questa esigenza. Questo bisogno di dire la
realtà e questo senso di esilio si avvicinano in una ricerca che non ammette
consolazioni, come ricorda la stessa Jolanda Insana:
«Forse è vero che
quanto più si vive la mancanza di qualcosa tanto più si diventa onnivori,
quanto più si sa tanto più si sa di non sapere, quanto più si sta in esilio si
brama di un rimpatrio, e dunque quanto più si avverte l'inadeguatezza dei
linguaggi tanto più ossessiva si fa la ricerca di tutti i possibili linguaggi per
dare voce al pensiero, all'emozione, alla verità della vita, alla sua parte
oscura, alla sua parte luminosa.»
Messina negli ultimi
anni l’aveva conosciuta. Ma “dominnidìu” su Jolanda non si è
scritto ancora troppo per la verità.
Maria Allo
Fonti
1.
Jolanda Insana, Tutte le poesie 1977-2006, Garzanti, Milano 2007.
2.
Carmen Micalizzi, “L’italiano regionale della Sicilia” Tesi di Laurea - A.A.
2002-2003
3.
Maria Antonietta Grignani, Il martòrio e altro, in Dario Tomasello, Nessuno
torna alla sua dimora, Messina, Sicania, 2009, pp. 33-53.
4.
Ambra Zorat, La poesia femminile italiana dagli anni Settanta a oggi.
Percorsi di analisi testuale,
Tesi di dottorato, Université Paris IV Sorbonne –
Università degli Studi di Trieste, 2009.
5.
Jolanda Insana, Turbativa d'incanto, Garzanti Libri. Collana: Collezione
di poesia, Milano 2012
6.
Itinerari siciliani a cura della Biblioteca Regionale Universitaria di
Messina
7.
La letteratura e noi di Romano Luperini ed. Palumbo , Dal Novecento a
oggi “La voce delledonne"
TESTO RIPRESO DA http://comecreaturaeternamentediveniente.blogspot.it/2017/11/jolanda-insana-voce-poetica-italiana.html
Nessun commento:
Posta un commento