Lo storico Giovanni
Brizzi propone un‘interpretazione originale della sanguinosa rivolta di Spartaco. Numerosi indizi suggeriscono
che l’autentica posta in gioco fossero i diritti delle popolazioni italiche che reclamavano la cittadinanza.
Paolo Mieli
L’altra verità su
Spartaco
È giunto il momento di aprire il dossier dell’«altra Italia», quella del mondo appenninico e meridionale che fino all’inizio del I secolo a.C. prese più volte le armi contro Roma. E lo fece in conflitti che, pur assai diversi tra loro, ebbero, però, in questa costante ostilità uno speciale filo conduttore. Un filo conduttore già intravisto in passato, ma che è oggetto adesso di un interessantissimo e approfondito studio di Giovanni Brizzi, Ribelli contro Roma. Gli schiavi, Spartaco, l’altra Italia , edito dal Mulino. Prima Annibale, poi Silla che cercò di reclutare gli Italici alla sua causa, infine Spartaco, tutti provarono a far leva sull’«altra Italia». E in più occasioni quest’«altra Italia» fu sul punto di travolgere la città più importante dell’epoca.
La storia ricostruita da Brizzi ha inizio con la Seconda guerra punica (218-202 a.C.) che, secondo lo studioso, avviò una serie di processi «gravidi di conseguenze funeste». E, se si può dire che le spese sostenute dall’erario della Repubblica erano state molto, molto grandi, si può altresì documentare che «le distruzioni e i danni, anche permanenti subiti dalla penisola durante i quindici anni di presenza cartaginese» erano stati «spaventosi».
Le città prese da
Annibale (e successivamente riconquistate dai Romani) furono ben 400.
Molte di queste 400 città furono distrutte e date alle fiamme, le
altre «ripetutamente espugnate e messe a sacco dalle parti in
lotta». Con danni specifici per l’Italia del Sud: «I campi del
Meridione furono per anni sistematicamente devastati e brutalmente
sfruttati dagli opposti eserciti, intere popolazioni conobbero la
deportazione in massa». Ciò che produsse la fuga dei contadini
dalle loro terre (la Lucania e l’Apulia rimasero quasi deserte) e,
assieme ad essa, la crisi irreversibile della piccola proprietà,
progressivamente assorbita nel latifondo.
Il latifondo, d’altra
parte, poté svilupparsi esclusivamente in virtù dell’utilizzo di
schiavi, un grande utilizzo di schiavi. Di tale sfruttamento della
manodopera servile si occuparono due autori greci, Strabone e Diodoro
Siculo, contemporanei di Augusto, che avevano entrambi ampiamente
attinto da Posidonio di Apamea, lo storico vissuto centocinquant’anni
prima di loro. Il ricorso agli schiavi era già stato praticato in
Sicilia in tempi precedenti. Ma, a seguito della sconfitta di
Cartagine nella Seconda guerra punica (202 a.C.), i Siciliani
godettero per sessant’anni di una immensa prosperità e tutti
quelli che avevano estensioni di terra acquistavano, per poterle
coltivare, enormi quantità di nuovi servitori.
In quali condizioni
vivevano questi schiavi? Alcuni «erano tenuti in catene, altri erano
gravati di lavori pesanti e in modo infame venivano tutti marchiati a
fuoco», riferisce Diodoro; la Sicilia intera — dove la schiavitù
introdotta prima dai Punici e poi dai Greci era praticata da almeno
tre secoli — fu all’epoca «gremita da una massa di schiavi» in
una misura che ancora adesso appare davvero «incredibile». I
padroni di questi schiavi si distinguevano per «arroganza, avidità
e crudeltà».
Ma le prime sommosse, in
realtà, non si ebbero in Sicilia, bensì a Sezia e a Preneste nel
198 a.C. e poi ancora in Etruria due anni dopo. Si trattava di
schiavi provenienti dalle «città fedifraghe», quelle cioè che nel
corso della guerra avevano parteggiato per Annibale.
In queste aree
geografiche si erano diffuse — in particolare nelle grandi fattorie
dell’Apulia ma non solo — società segrete dedite ai culti
misterici di Dioniso e di Proserpina. Culti di cui Catone il Censore,
intuendone la carica ideologica, chiese fin dagli inizi una decisa
repressione. Secondo Appiano, il tribuno Tiberio Gracco si allarmò
per quello che stava accadendo in Sicilia a causa della
concentrazione di grandi masse servili e fu il primo a predicare —
anche sulla base di acute considerazioni in merito alle possibili
conseguenze di questa proliferazione della schiavitù — il ritorno
alla piccola proprietà coltivata da liberi contadini.
La rivolta siciliana
scoppiò nell’autunno del 135 a.C. e fu domata solo nel 132 a.C.
dal console Publio Rupilio. Ideologo di questa grande sommossa fu il
carismatico siriaco Euno, che assunse il nome di Antioco. Euno,
racconta Brizzi, si propose — come poi avrebbe fatto Spartaco —
quale «vate di una realtà migliore», puntando a trasformare gli
schiavi in combattenti. Come poi Spartaco, che vietò di introdurre
oro e argento negli accampamenti, Euno «impose una spartizione
rigorosamente equa della preda e, sembra, non permise se non in due
circostanze soltanto che i prigionieri romani fossero costretti a
battersi come i gladiatori». Inoltre bandì il saccheggio e
incoraggiò «il rispetto di una proprietà che ebbe a soffrire
piuttosto — a quanto riferisce Diodoro — dal rancore di quel
libero proletariato che si era unito alla rivolta».
Trent’anni dopo,
nel 105 a.C., esplose una seconda insurrezione che fu sconfitta solo
quattro anni dopo, nel 101 a.C., dal console Manio Aquilio. E
Spartaco? Brizzi è convinto che la sua sia tutta un’altra storia e
che sia riduttivo considerarlo esclusivamente il capo di una rivolta
servile. È chiaro, scrive, «che tra i suoi seguaci vi furono anche
schiavi; ma le energie più consistenti e autentiche che alimentarono
quella rivolta furono forse altre». Le «vere» rivolte degli
schiavi, quelle siciliane, avevano costituito, secondo lo storico,
«una sorta di drammatico preludio rispetto alla nuova, interminabile
sequenza di lotte intestine che per venti lunghissimi anni bruciarono
come in una fornace la gioventù italica e insieme quella romana,
opposte su tutti i campi di battaglia della penisola».
Seguirono altri anni di
guerra civile e l’«avventura di Spartaco» si inserisce con
caratteristiche peculiari in questo interminabile conflitto.
Conflitto che si produsse — ed è qualcosa da tenere bene a mente —
lungo una linea fissata con efficacia da Santo Mazzarino: all’epoca
«solo la parte a destra degli Appennini si può chiamare
propriamente Italia; quanto all’altro versante, quello che digrada
verso lo Ionio, ora anche questo è chiamato Italia, ma sono Greci
coloro che abitano lungo la costa ionica; e il resto l’occupano i
Celti». Due Italie diverse, insomma. Tant’è che gli scontri
avrebbero avuto termine solo con la piena unificazione della penisola
ad opera di Augusto.
Tornando a Spartaco, Brizzi dubita, tra l’altro, che fossero davvero tutti schiavi i seimila uomini crocefissi lungo la via Appia allorché la rivolta fu domata. Ricorda che «al termine del primo conflitto combattuto in Sicilia, a conclusione di quella che potremmo definire forse la più autentica tra le guerre servili, gli schiavi non vennero uccisi, bensì restituiti ai loro padroni, nel rispetto di una proprietà nei confronti della quale i Romani mostrarono allora massima considerazione». Con Spartaco le cose andarono in modo diverso. Molto diverso. E questa differenza, secondo Brizzi, «potrebbe essere stata motivata non dal differente momento storico, ma dalla diversa natura del nemico, così almeno come veniva percepita».
Nel 71 a.C. è probabile
che la caratteristica attribuita ai seimila seguaci di Spartaco
crocefissi fosse quella («imperdonabile per i Romani») di «ribelli
a oltranza». E forse «si volle dare un definitivo, atroce esempio a
chiunque intendesse ripercorrere la strada di quanti, neppur dopo
Silla, si erano lasciati piegare dalle recenti tragiche disfatte».
Racconta Appiano che, in procinto di misurarsi ancora una volta con Roma, Mitridate ritenne di poter contare sugli Italici poiché sapeva che «recentemente quasi tutta l’Italia per odio si era ribellata ai Romani e a lungo aveva fatto loro guerra, e contro di loro si era unita al gladiatore Spartaco».
Se questo è vero, si
domanda Brizzi, «da che cosa gli ex alleati poterono essere indotti,
pur dopo la concessione della cittadinanza, a una nuova, sanguinosa
rivolta, a capo della quale finirono addirittura per accettare un
gladiatore trace?». Certo, concede l’autore, «lo strazio della
guerra civile e le proscrizioni, gli espropri sillani e la miseria
nata dal conflitto: fattori, questi, che, certo, contarono tutti».
Ma la risposta più
autentica alla domanda posta poc’anzi «può forse essere cercata
in una significativa anomalia». Quale? Il tentativo compiuto dai
censori eletti per l’anno 89 di contare tutti i cittadini, compresi
quelli più recenti, era andato incontro al fallimento più completo;
e un censimento regolare si era tenuto successivamente solo
nell’86-85 a.C.
In questa seconda
circostanza però — malgrado il dato ancora una volta
inequivocabile dello stesso Appiano secondo il quale «i nuovi
cittadini superavano largamente per numero i vecchi» — rispetto ai
395 mila circa censiti alla fine del secolo precedente, ne erano
stati computati 463 mila, «con un incremento assolutamente irrisorio
di 68 mila soltanto». Pochi, troppo pochi furono quelli che avevano
effettivamente ottenuto la cittadinanza. Cosa che non poteva non
destare il malcontento degli Italici.
Spartaco ebbe l’astuzia di farsi interprete di questo malcontento. Forse in un primo momento si calò nei panni di un «comandante vittorioso venuto dall’Oriente», di cui qualcuno proprio in quel momento storico aveva vaticinato l’avvento. Ma quella del «comandante» che prima o poi sarebbe entrato a Roma accolto come un trionfatore fu un’illusione di breve durata. Escluso dal mondo delle città, sostiene Brizzi, Spartaco «tornò, sia pure con speranze sempre più fievoli, a cercare nuovi alimenti alla lotta in quella seconda Italia che per secoli aveva combattuto contro Roma; e che prima durante la guerra sociale, poi durante la guerra civile sillana, era stata sconfitta senza però essere stata ancora completamente domata».
Ed è forse «per
esorcizzare questa immagine, e soprattutto per dimenticare che una
parte cospicua dell’Italia di allora aveva seguito un gladiatore
trace contro la res publica , che — con l’eccezione di Sallustio
(e, parzialmente, di Appiano…) — quasi tutta la storiografia
romana sembra aver deformato la figura di Spartaco in una maschera,
che sovrapponeva alla sua identità reale l’immagine dello schiavo
fuggiasco». E, allo scopo di infangarlo, del «gladiatore partecipe
della peggior condizione umana» (Floro), della «belva
insensatamente scatenata contro lo Stato egemone».
Così un esercito fatto di genti che provenivano dalle aree montuose del Meridione d’Italia fu identificato con la figura di quel capo di una «rivolta servile», un personaggio che non avrebbe potuto nutrire altra aspirazione che quella, «nobile ma limitata», alla libertà individuale o, al più, sognare, sottolinea Brizzi «un ritorno a una patria che egli, invece, rinunciò fino dall’inizio a perseguire». Ma in realtà Spartaco non fu niente di tutto questo. Fu piuttosto il ribelle con la cui morte si chiuse di fatto una ferita aperta da secoli.
Nell’arco di diciotto
anni appena l’Italia aveva conosciuto ben tre feroci guerre
intestine («poiché di questo, in realtà, si era trattato», scrive
Brizzi, «anche nell’ultimo caso»); guerre che, «se alquanto
diversi erano stati gli spunti iniziali», avevano però
invariabilmente attinto le principali energie «da un ben preciso
serbatoio di instabilità». A chiudere la partita fu la decisione
romana — guarda caso proprio dopo aver sconfitto Spartaco e aver
esposto lungo la via Appia i corpi degli ultimi seimila ribelli
crocefissi — di concedere finalmente agli Italici quello che anche
Silla aveva tentato di garantir loro: la piena fruizione della
cittadinanza.
«Non può essere una
coincidenza», fa notare Brizzi, «che, contro i 463 mila dell’atto
precedente, il nuovo censimento del 70-69, il primo dopo la morte di
Spartaco, registri nelle liste ben 910 mila cittadini, ai quali vanno
aggiunti probabilmente i 70 mila uomini sotto le armi oltremare».
Quasi un milione di persone.
Ecco chi fu davvero
Spartaco secondo Brizzi: «l’ultimo condottiero di un’Italia
disperata e furibonda, da secoli in lotta con Roma che, pur nella
morte, l’aveva, in fondo, portata alla vittoria».
Dopo di lui altri
cercarono di pescare almeno in parte dal fondo dello stesso barile:
Catilina è uno di questi. O Lepido, il «console sovversivo» che si
appoggiò ad alcuni capi «mariani» dispersi, altri «banditi», gli
ultimi «Etruschi ribelli». Forze alle quali «aveva forse pensato
già Spartaco nella sua infruttuosa puntata verso nord, venendone
però rifiutato». Ma ormai la spinta si era esaurita, tant’è che
l’autore considera Spartaco e non Lepido «l’ultimo vero
conduttore della seconda Italia».
Quanto a Roma,
«ripensando a questi eventi nella sua più tradizionale
storiografia, preferì dimenticare e rimuovere; come del resto già
aveva fatto nei confronti degli infelici Sanniti, quando
l’annalistica di età sillana aveva cancellato “ufficialmente”
la sconfitta subita dalla stessa Roma nella prima guerra contro di
loro, giungendo a stravolgere la cronologia degli eventi». Pratiche
non inusuali in una storiografia avvezza a riscrivere il passato in
funzione del presente.
Il Corriere della sera –
7 novembre 2017
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