S’intitola Cosa loro, l’ha
appena pubblicato Bompiani (pp. 318, euro 18.00), e raccoglie una scelta
di 64 articoli ricavata, come scrive il curatore Nicolò Messina,
dall’«ottantina» che Vincenzo Consolo scrisse sulla mafia, taluni ancora
inediti, tra il 1969 e il 2010, e cioè due anni prima di morire. In
appendice, utilissimi, Altre notizie sui testi e il Regesto,
ovvero la bibliografia completa anche di tutti i pezzi esclusi. In un
modo o nell’altro, ci sfilano davanti i protagonisti d’un capitolo
insieme doloroso ed eroico della storia siciliana, che però è metafora
della nazione tutta, da Luciano Leggio, noto come Liggio, a Pio La
Torre. In mezzo: Pantaleone, Falcone e Borsellino; Riina e Brusca; i
cugini Salvo e Lima; Cuffaro, Lombardo e Dell’Utri; Enzo Sellerio,
Letizia Battaglia e tanti altri ancora. Fa piacere notare che -se si
eccettua il dattiloscritto datato dal curatore, ma non con certezza
assoluta, nel 1969- i primi due articoli pubblicati entrambi nel 1970,
su Liggio e Il Padrino di Mario Puzo, sono apparsi proprio qui, sulle colonne di Avvenire. E’ chiaro che, come recita il sottotitolo (Mafie tra cronaca e riflessione),
si tratta di prosa giornalistica e interventi civili, di quella che, in
un dattiloscritto del 1985, Consolo stesso, tenendola per altro in gran
conto, chiama «scrittura di presenza» (di testimonianza e
denunzia), ovvero «una scrittura militante interamente liberata dallo
stile», in virtù della quale l’intellettuale si sostituisce allo
scrittore. Una scrittura -aggiunge poi Consolo- che «sembra ormai caduta
in disuso», proprio nel momento in cui -e mi pare perfetta diagnosi
storico-antropologica-, nei piani alti della letteratura, e
paradossalmente, «la verticalità dello stile inclina pericolosamente
verso l’orizzontalità», in cui tutto si uniforma e omologa, sino a
coincidere con il linguaggio «dell’informazione».
Ho detto che siamo di fronte perlopiù ad
articoli di cronaca: ma stiamo attenti. Perché il talento dello
scrittore sfugge spesso al controllo vigile del militante. Forte,
seppure repressa, resta la tentazione della metafora, e sempre sul punto
d’innesco -per fortuna- la vocazione narrativa. Così, per fare un
esempio, su Ignazio Salvo, “il ministro”, nell’aula del processo, dopo
la morte del cugino Nino, in un articolo del 1986: «Ma non aveva più
quella patina lustra di un tempo, era pallido e imbiancato come se una
raffica di polvere l’avesse investito». Per non dire di quella
disposizione all’invettiva che, non di rado, erompe nei suoi libri
d’invenzione. E’ il 1982, su Salemi: «paese terribile, di predoni e
d’assassini, nemici di Cristo e amici di Caifa, paese estremo, desolato,
posto su nude, riarse colline di gesso». Consolo in effetti, senza però
mai recedere dagli imperativi morali e politici, non perde occasione
per aprire parentesi, per divagare in funzione narrativa, per lasciarsi
andare al ritratto, in modo da servire, quando possibile -persino dalla
trincea di un’aula di giustizia-, le ragioni della letteratura. Cito
proprio dal primo articolo apparso su Avvenire, propiziato
dalla scomparsa di Liggio da una clinica romana, «senza lasciare traccia
di sé», dopo la clamorosa assoluzione per insufficienza di prove
«dall’imputazione di associazione per delinquere e da una serie di
omicidi (nove) e di un tentato omicidio per non aver commesso il fatto».
Ecco: «Abbiamo raccontato il fatto con estrema sintesi, perché vogliamo
parlare più particolarmente, per ragioni “letterarie”, d’un personaggio
che nella storia di Liggio entra ogni tanto per poi sparire e di cui la
stampa poco si è occupata».
La letteratura, insomma. E, se si vuole,
il romanzo, seppure allo stato latente: quando è vero che, a entrare
ora in scena, come arrivasse da un romanzo di Simenon, sarà un
funzionario di polizia poco noto che risponde al nome di Angelo Mangano,
«un gigante di due metri», il quale, cinque anni prima, d’origine
siciliana ma trasferito da Genova a Corleone, in soli sei mesi riesce a
catturare il capomafia. Lo intercetta, Consolo, in un libro di Dominique
Fernandez, Les événements de Palerme e in pochissime pagine ne
fa leggenda: quella d’un investigatore che procede implacabile, con
conseguenzialità quasi matematica, mentre ottiene lo straordinario
risultato di riconciliare con le istituzioni, diventandone come l’eroe,
un paese riluttante e risentito, terrorizzato e omertoso. Ma
intendiamoci: questi qui restano tentazioni e scantonamenti, mere
parentesi. E’ evidente sin da subito, infatti, che Consolo guarda a
Sciascia come maestro di razionalità, senza però seguirlo in quegli
esiti formali di scrittura spuria, nutrita di saggismo, nobilmente
elzeviristica, che avrebbero anticipato, in opere come -per citarne solo
alcune- Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), La scomparsa di Majorana (1975), L’affaire Moro
(1978), tanta narrativa non finzionale dei nostri anni. Nessuna
intenzione, da parte di Consolo, di dismettere il cilicio della
«scrittura di presenza», di concedere qualche chance
alle ragioni dello stile, sacrificando la nuda e cronachistica referenza
della verità. E tutto questo proprio per preservare le differenze, che
non sono solo e banalmente di genere letterario, ma estetiche e
ontologiche, quando è vero che, se entriamo nel dominio del romanzo,
l’estetica e l’ontologia coincidono: come dimostra in modo eclatante e
coerente tutta la vicenda del Consolo narratore, da La ferità dell’aprile (1963) a Lo spasimo di Palermo (1998), passando per quel capolavoro assoluto che è Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976).
Che cosa voglio dire con ciò? Che per
Consolo -il quale ha alle spalle la parola-giustizia di Vittorini, le
alchimie liriche di Piccolo, le oltranze ritmiche di D’Arrigo- la
letteratura più vera resta sempre consegnata a un’oltranza prosodica e a
una scommessa di stile. Se gli si chiedeva quale scrittore sentisse a
sé più vicino, la sua risposta, infatti, correva al nome d’un poeta:
Andrea Zanzotto.
Massimo Onofri su AVVENIRE
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