Vincenzo Lavenia
Sulla pelle degli
ultimi, la costruzione di un disciplinamento
Tra gli anni ’60 e gli
anni ’70 del secolo scorso, grazie alle indagini di storici come il
futuro eurodeputato polacco Bronisław Geremek, riemerse un dibattito
poco noto che aveva diviso i fronti nel lontano secolo della Riforma.
Protagonisti della disputa alcuni teologi, umanisti e giuristi
celebri e meno celebri (un nome per tutti: quello di Thomas More). Il
tema discusso era la gestione della povertà e della carità in anni
di crescita urbana e di incipiente inflazione, quando cioè la
miseria aveva cominciato ad apparire sempre più come una minaccia
all’ordine, e la mobilità come il veicolo di infezioni al tempo
stesso medicali e sociali.
A Lione, ne 1539, si era
parlato per esempio di «navi lasciate andare senza pilota lungo il
Rodano e la Soana», con un orribile carico di «gente affamata, e
più smagrita e secca dei cadaveri preparati per la lezione di
Anatomia»: un’autentica minaccia per la città e i traffici. Erano
navi dei folli, come quelle raffigurate nei testi di Sebastian Brant;
imbarcazioni che oggi ci evocano quelle di un Mediterraneo ridotto a
lago di cadaveri e a scia della disperazione.
Non ci sono dubbi,
pertanto, sull’urgenza di un libro come quello che Lorenzo Coccoli
ha dedicato a una questione in apparenza remota ne Il governo
dei poveri all’inizio dell’età moderna. Riforma delle
istituzioni assistenziali e dibattiti sulla povertà nell’Europa
del Cinquecento (Jouvence, pp. 248, euro 22). Perché nel XVI
secolo, come ai nostri giorni, la pietà stava cedendo il passo alla
forca, la libertà di muoversi alla reclusione, la marginalità
all’obbligo di lavorare: ovvero alla messa a frutto della miseria.
Sapevamo che un passo di
Erasmo aveva suonato l’allarme: il mendicante – aveva scritto
l’umanista all’inizio del Cinquecento – non poteva più sperare
nella tolleranza delle autorità cittadine. Sapevamo che Lutero aveva
introdotto un testo che denunciava i presunti inganni dei vagabondi
per gabbare i fedeli e per ottenere l’elemosina vivendo pigramente;
sapevamo, grazie a Piero Camporesi, che la letteratura proto-moderna
sulla pitoccheria fu carica di risvolti picareschi e di significati
disciplinari. Coccoli tuttavia ci riporta in quel contesto e riparte
da un’opera del coltissimo Juan Luis Vives (scappato egli stesso da
Valencia per sfuggire alle persecuzioni inquisitoriali) che nel 1526,
quando ancora i cadaveri dei contadini e degli anabattisti
concimavano le campagne tedesche, propose alle municipalità delle
prosperose Fiandre di introdurre una polizia della povertà.
All’elemosina
individuale, come precetto di carità e mezzo di salvezza, si doveva
sostituire una cassa pubblica e centralizzata delle offerte;
all’aiuto sporadico l’assistenza regolare; alla sovvenzione
indiscriminata quella oculata e capace di distinguere veri e falsi
poveri (i borghesi in difficoltà che impoveriti perdevano l’onore
contro le furbe maschere della marginalità da sorvegliare e da
castigare).
Le istituzioni pie della
Chiesa avrebbero perso funzione in favore di reclusori governati da
magistrati secolari; il povero l’aura di alter Christus a vantaggio
della criminalizzazione e della coazione al lavoro e alla disciplina
religiosa e sociale. Prima delle famigerate Poor Laws inglesi e delle
istituzioni totali del XVII secolo, mentre infuriava lo scontro fra
protestanti e cattolici, alcune città governate da Carlo V o poste
sotto la Corona francese introdussero regolamenti e ordinanze per
stabilire un nuovo governo della carità, nuovi ospizi per i poveri e
una distribuzione controllata e punitiva delle sovvenzioni per i più
bisognosi.
Non si trattò di un
passaggio riuscito: tali disposizioni rimasero lettera morta in molte
città europee; né le soluzioni proposte da Vives e da alcuni
religiosi furono accettate unanimemente. Autorevoli membri degli
Ordini mendicanti (come il frate domenicano Domingo de Soto, teologo
di Salamanca) censurarono quelle idee e quelle norme facendo apologia
di un’immagine più tradizionale e più paternalistica della carità
e della povertà; le bollarono alla stregua di eresie che colpivano
il precetto cristiano dell’elemosina, criminalizzavano i poveri e
sottraevano alla Chiesa un campo che le era proprio.
Tuttavia i novatori
seppero difendersi dando vita a una controversia che Coccoli
ricostruisce minutamente ed elegantemente (il libro si segnala anche
per la sua scrittura limpida) non per amore dell’erudizione, ma per
parlarci dei dispositivi disciplinari di ieri e di oggi; per
ricordarci che l’obbligo di lavorare già alcuni secoli fa venne
proposto come una soluzione contro i presunti fannulloni; che quelle
discussioni prefiguravano un governo pastorale moderno e al tempo
stesso coercitivo; che progettavano nuovi poveri in un momento in
cui, nelle Indie di là, nasceva l’encomienda e nell’Europa
cristiana tramontava una teologia della ricchezza e della povertà
che studi come quelli di Peter Brown e di Giacomo Todeschini ci hanno
aiutato a comprendere. E infatti il libro – che non inquadra più
quella discussione in modo ottimistico come nucleo originario delle
idee sul welfare – si chiude nel nome di quel Michel Foucault che,
a molti anni di distanza dalla sua morte, continua a interrogarci
tutte le volte che parliamo di polizia, di marginalità e di
disciplina.
Il Manifesto – 7
novembre 2017
Nessun commento:
Posta un commento