Sandro Penna, il poeta dello stupore
Paolo Ottaviani
Come suole accadere ad
ogni grande e vera poesia, il trascorrere del tempo non solo non
intacca la bellezza dei versi e non indebolisce la forza vivifica
della loro luce, ma può anzi favorire l’espandersi e il
moltiplicarsi dei bagliori e delle illuminazioni e, di conseguenza,
può rinnovare anche le possibilità di approccio e di
interpretazione. Di fronte alla grande poesia possono perennemente
aprirsi impensate prospettive ermeneutiche, inediti scenari di
conoscenza critica. Una simile, felice sorte sembra toccare anche i
versi di Sandro Penna. Le numerose iniziative, i convegni, le tavole
rotonde, le letture e gli studi rinnovati, i documentari e persino
un’eccellente opera filmica, che si sono recentemente prodotti in
occasione del centenario della nascita del poeta, tanto a livello
locale, nella natia Perugia, quanto in ambito nazionale,
costituiscono solo la testimonianza più recente di un interesse che
sembra andare ben al di là della pur significativa ricorrenza
celebrativa. Elio Pecora, amico e valoroso critico e biografo del
poeta, in modo assai opportuno, ha voluto recentemente ricordare la
“profezia” fattagli da Attilio Bertolucci secondo la quale Sandro
Penna sarebbe stato, dalle future generazioni, il poeta più letto e
più amato del nostro Novecento. Come la nascita di una supernova può
innescare infiniti processi di formazioni stellari infiammando parte
del cosmo, così la poesia del poeta perugino continua a lanciare la
sua forza / a perdersi nell’infinito. Una forza dirompente,
eversiva e, al tempo stesso, miracolosamente e delicatamente in
armonia con la più intima essenza di ogni elemento naturale e
storico che sia sfiorato o raggiunto da quella particolare luce
poetica. Vi è infatti un firmamento remoto al quale il poeta umbro
fa costante riferimento. Un firmamento personale, “un mio
firmamento” – scrive Penna in una sua lirica -, obbliga a
percepire simultaneamente la natura, le cose e gli uomini nella
duplice, misteriosa dimensione dell’effimero e dell’eterno. Ogni
minimo accadimento della poesia della vita e della poesia della
scrittura viene così attraversato da un fremito di celeste
partecipazione, coinvolgendo, con identica intensità emotiva, tanto
la sfera intima delle personali percezioni quanto il paesaggio
naturale:
Mi avevano lasciato
solo
nella campagna, sotto
la pioggia fina, solo.
Mi guardavano muti
meravigliati
i nudi pioppi:
soffrivano
della mia pena: pena
di non saper
chiaramente…
La meraviglia e la
sofferenza dei pioppi non sono un artificio retorico né un’illusoria
proiezione degli stati psichici del poeta: costituiscono invece la
prova dell’indifferenziata unità del cosmo. La vita intellettuale
dell’uomo infatti si lega profondamente e si confonde con i minimi
e i grandiosi eventi della natura:
…Da un amato
libro veder parole
sparire… – Oh
stelle in corsa
l’amore della vita!
Non è certo la
stanchezza né un fisiologico calo di attenzione a determinare la
distrazione dall’amato libro: mentre spariscono le parole lette
appaiono le stelle luminose e in movimento, le stelle reali delle
notti perugine degli anni trenta, in un continuum naturale che
testimonia come la palpitante partecipazione amorosa – l’amore
della vita! – possa legare nello stesso felice circuito tanto il
momento della solitaria riflessione intellettuale quanto quello delle
fresche sensazioni di una notte estiva. L’universo penniano è un
universo monolitico dove le infinite, dolorose scissioni che
determinano l’esistenza delle singole cose e delle singole
percezioni hanno contemporaneamente una duplice esistenza: quella
individuale, persa nell’innumere frammentazione del mondo, e quella
universale che lega ogni frammento naturale e storico – uomini,
alberi, fanciulli, monti, case, biciclette, muli, treni ecc. – alle
leggi conosciute e ignote del cosmo. I sensi, quali incontaminati
territori separati da ogni umano, civile consesso, “giovani
isolotti” – così vengono magistralmente chiamati dal poeta –
costituiscono una sorta di viatico per il viaggio che ogni
particolare sensazione deve intraprendere per congiungersi
all’universale della natura. Indomiti alfieri della poesia
penniana, baciati dal dono dell’eterna gioventù, ai sensi spetta
l’audace compito di scardinare ogni ordine costituito, o almeno di
ignorare ogni codice morale che non riconosca pienamente la libertà
del sentire e dell’amare. Devono agire in silenzio, con estremo
pudore e spesso con la complicità del sonno che neutralizza ogni
forza repressiva dell’io raziocinante. Quel sonno lucente, che
brilla solo della forza dei propri liberi sogni, accoglie l’anima
liberata e liberatrice del poeta:
Sole senz’ombra su
virili corpi
abbandonati. Tace ogni
virtù.
Lenta l’anima
affonda – con il mare –
entro un lucente
sonno. D’improvviso
balzano – giovani
isolotti – i sensi.
Ma il peccato non
esiste più.
Siamo di fronte alla luce
dell’innocenza che non ignora ma travalica il peccato e la colpa,
scuote dal profondo e ribalta tutti i valori sui quali si fonda la
nostra civiltà. E tutto prodigiosamente avviene alla luce del giorno
e nel buio del sonno. Il peccato non esiste più. Il momento è
solenne. Non a caso il richiamo agli elementi naturali è di
straordinaria potenza: il sole e il mare sono chiamati a testimoniare
l’avvenuta liberazione. Ogni ipocrita virtù deve ora tacere. La
poesia di Penna sembra vivere in un tempo cristallizzato. Il costante
richiamo a quel firmamento remoto sottende la trama di ogni lirica e
frantuma l’azione del tempo in un circuito inestricabile tra i
tempi “storici” nei quali avvengono le reali percezioni – nella
lirica sopra trascritta la visione dei virili corpi -, tempi psichici
– lenta l’anima affonda – e tempi cosmici o sapienziali e
oracolari – il peccato non esiste più. Spesso le tre dimensioni
temporali s’incrociano e si sovrappongono – il sole senz’ombra
del primo verso già anticipa metaforicamente la propositio maxima
del verso finale -, con il risultato che ogni lirica è mirabilmente
sospesa tra storia ed eternità. Una storia che si intride
profondamente dei caratteri miti, discreti, restii alle mondane
esteriorità propri della natia, troppo cara Perugia. Una volontaria
e consapevole disappartenenza ai valori del mondo, conquistata
faticosamente, anche al prezzo delle rinunce più dolorose. Ricorda
ancora Elio Pecora: “Penna, ancora nella prima giovinezza, rinuncia
all’amore di Ernesto, il ragazzo trasteverino di cui era fortemente
innamorato. Intuisce che l’amore per l’altro può sottrarlo a se
stesso, e non al proprio narciso, ma all’io moltiplicato della
poesia. Questa rinuncia ne comporterà ben altre e peserà molto sui
suoi anni più tardi, ma gli avrà dato quella sua scrittura così
tersa e colma, così esatta e onesta”. E’ la scelta eroica della
poesia che ancora ci commuove se ascoltiamo questi versi:
Sempre affacciato alla
finestra io sono,
io della vita tanto
innamorato.
Unir parole ad uomini
fu il dono
breve e discreto che
il cielo mi ha dato.
Da “Poliscritture.it”,
4 ottobre 2017
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