Barbara Carnevali è
ricercatrice in filosofia all'IEA di Parigi. Proponiamo di seguito le pagine iniziali del
suo libro, Le
apparenze sociali. Una filosofia del prestigio (Il Mulino), uscito all'inizio di settembre. Carnevali nel libro analizza criticamente la prima dimensione in cui la vita sociale
si mostra.
1. Ciò che sappiamo su chi ci circonda, e ciò che gli
altri sanno di noi, si fonda essenzialmente su apparenze. Nessuno ha accesso
diretto all’interiorità altrui, all’anima e ai pensieri delle altre persone;
nessuno può darsi agli altri in modo immediato, senza affidarsi a una
mediazione sensibile, a ciò che si manifesta ai sensi. Nel rapportarsi ai
propri simili, al pari di tutti i viventi, gli esseri umani non possono evitare
di prendere le cose come appaiono. E, paradossalmente, più danno importanza
alla realtà nascosta, più devono concentrare la loro attenzione su ciò che è
visibile e percepibile.
Il paradosso per cui la profondità coincide con la
superficie, e la realtà con la sua manifestazione fenomenica, è insito nella
natura stessa dell’esperienza sociale. Non riposa su una perversione del giusto
ordine della comunicazione, come vorrebbe invece il pensiero romantico, che
tende a leggere nella produzione di apparenze sensibili una forma di
alienazione, la corruzione di uno scambio originariamente autentico, capace di
mettere in contatto interiorità e interiorità in modo trasparente, senza
bisogno di mediazioni artificiali[1]. È il modo in cui le persone appaiono a
fornire il medium dei loro rapporti reciproci e a costituire la sostanza del
mondo condiviso. L’io si volge all’altro io e instaura il legame sociale
attraverso la propria apparenza: grazie a un sorriso sul volto possiamo
attrarre gli altri, o allontanarli da noi, suscitando la loro invidia e
antipatia; con una smorfia di dolore possiamo respingerli, ma anche
risvegliarne la compassione e la pietà. In ogni caso, l’apparenza crea il
legame intersoggettivo, lo istituisce e lo rappresenta, rivelando la società
come una rete di relazioni sensibili.
Lungi dall’essere fenomeni morbosi, patologici, le
apparenze sono quindi le condizioni fisiologiche della socialità – se non della
vita stessa, concludeva Hannah Arendt nel suo ultimo libro, fondendo
suggestioni della fenomenologia francese con le teorie di Erving Goffman e del
biologo svizzero Adolf Portmann. L’essere vivente può trasformare la sua
esposizione pubblica, che per le cose prive di vita è un modo di essere passivo[2], una disponibilità alla percezione subita e
incontrollata, nella forma più attiva e intraprendente dell’autopresentazione
o rappresentazione di sé: «Essere vivi significa essere posseduti da un
impulso all’autoesibizione che corrisponde al dato di fatto del proprio
apparire. Gli esseri viventi fanno la loro apparizione come attori su una scena
allestita per loro»[3].
Il vocabolario della zoologia (Selbstdarstellung,
Portmann), della sociologia (presentation of self, Goffman) e della
filosofia sociale (self-display, Arendt) concordano e sembrano
illuminarsi reciprocamente nel definire il mondo, cioè lo spazio pubblico
abitato e condiviso dai viventi, come un teatro, e l’essere sulla sua scena
come una forma di automanifestazione e rappresentazione estetica: un apparire
in pubblico, un divenire-immagine e oggetto di percezione possibile per gli
occhi di qualche spettatore. Il linguaggio ordinario, sempre ricco di
intuizioni fenomenologiche, lo rileva in molte delle sue espressioni
ricorrenti, come «dare spettacolo», «fare figura», «sfigurare», gli
innumerevoli riferimenti alla faccia e al viso.
Chi vive nel mondo è un essere pubblico, e l’apparenza
che incessantemente proietta intorno a sé, il suo aspetto, lo segue in
ogni situazione mondana come un’ombra, lo circonda e protegge come
quell’atmosfera che chiamiamo significativamente l’aria o l’aura
delle persone. Questo schermo sensibile condiziona tutti i nostri rapporti
sociali e li media, come un inseparabile biglietto da visita che, presentando
anticipatamente agli altri le nostre generalità, plasma e influenza la nostra
comunicazione con loro.
2. Nella rappresentazione sociale, l’apparenza ha
anche, inevitabilmente, lo statuto di una maschera. Oggetto ambiguo per
eccellenza, la maschera mostra nascondendo, perché, nel momento stesso in cui
rivela un aspetto della realtà, comunicandolo, ne ricopre un altro con il
proprio spessore e con la propria condizionatezza: attraverso di essa si mostra
qualcosa che sembra essere, ma che forse non è. Come una maschera, l’apparenza
sociale è sempre sospetta, vittima dell’accusa di celare, deformare, travestire
o stravolgere una realtà più profonda e più genuina. Senza maschera, tuttavia,
non potrebbero darsi né conoscenza né comunicazione alcuna, perché gli esseri
umani non avrebbero niente da vedere[4].
3. Il ruolo delle apparenze è sempre mediale.
Esse sono il tramite con cui si stabiliscono e si calibrano i rapporti
reciproci tra persone, tra la psiche e il mondo, tra la realtà soggettiva,
privata e segreta, e la realtà oggettiva, accessibile e pubblica. La maschera è
un mediatore diplomatico tra entità distanti, che sono potenzialmente
incompatibili. E fa anche da filtro, da ammortizzatore: attraverso la sua
superficie porosa, resistente e al tempo stesso flessibile, gli stimoli provenienti
dall’interiorità vengono trasmessi e manifestati nel mondo, mentre quelli
provenienti dall’esterno vengono ricevuti, selezionati e adattati in vista
dell’assimilazione soggettiva.
Quella dell’apparire, dunque, è sempre una duplice
funzione: espositiva, ma anche protettiva, utile a schiudere lo spazio
dell’interiorità e a farlo comunicare, ma anche a custodire il suo fragile
contenuto. La pelle, lo strato più superficiale del nostro corpo, esposto allo
sguardo e al tatto, è una barriera-involucro che contiene e difende gli organi
interni. Gli abiti non solo rappresentano il veicolo privilegiato per lo
sfoggio del corpo e per l’esaltazione della sua bellezza, ma lo riparano, lo
proteggono dal freddo e dagli altri elementi, nascondono difetti, tutelano il pudore.
Le maniere e i gesti cerimoniali, a volte esibizionistici o affettati nel loro
aspetto rituale e distintivo, servono anche a preservare l’onore, la
riservatezza e la dignità delle persone.
L’apparenza è insomma un tessuto in tensione tra due
impulsi conflittuali e ugualmente potenti: l’esibirsi e il nascondersi, la
vanità e la vergogna, la decorazione e il decoro. Ciò che ricopre
è anche ciò che esibisce, e viceversa: come la conchiglia vistosamente
colorata, come il coperchio dello scrigno intarsiato, o come l’arrossire o il
balbettare della persona intimidita quando finiscono per richiamare
l’attenzione proprio sul segreto che vorrebbero occultare. Analizzando la
funzione psicologica degli abiti, forse la prima e la più importante delle
apparenze da cui ricaviamo un’impressione dei nostri simili, in analogia con
quella dei sintomi nevrotici, lo psicanalista John Carl Flügel, nel 1930, aveva
dato questa definizione: «i vestiti assomigliano a un perpetuo rossore sul
corpo dell’umanità»[5].
4. Nel linguaggio della psicanalisi, l’apparire
potrebbe essere definito come una formazione di compromesso tra impulsi
contrastanti. Nella sua natura intimamente dialettica, l’aspetto mostra in modo
esemplare quel principio di ambivalenza, o di sovradeterminazione, che permette
agli esseri umani di gratificare bisogni e desideri antagonistici con un unico
gesto. Così nel vestito, sempre secondo Flügel, si appaga il dissidio tra
pulsione esibizionistica e senso del pudore, che trovano entrambi una
soddisfazione parziale senza escludersi vicendevolmente. La funzione protettiva
degli abiti, più utilitaria e meno emotiva, sarebbe solo il terzo fattore in
gioco, successivo e subordinato al conflitto essenziale tra i due impulsi
primari in contraddizione.
Un’altra dialettica che si concilia nel compromesso
dell’apparenza è quella tra attacco e difesa, tra aggressione e protezione nei
confronti degli altri soggetti sociali. La maschera crea distanza e protegge
dal contatto con l’alterità, e allo stesso tempo produce una facies appropriata
all’incontro agonistico, una maschera bellica, com’è evidente nel ruolo delle
uniformi, delle divise sportive, delle danze di guerra che accompagnano gli
incontri conflittuali, dalle azioni ludiche a quelle militari. Va sottolineato
a questo proposito come la funzione antagonistica sia altrettanto importante di
quella rappresentativa, con la quale si intreccia e si completa. Il mondo
sociale è, a un tempo, campo di gioco e campo di battaglia. E la comunicazione
mediata dalle apparenze è sempre carica di rischio: l’apparire non può dunque
essere concepito solo come il vettore di un innocuo mettersi in mostra o
manifestarsi estetico, ma anche come il tramite con cui la persona affronta un
conflitto e si offre a un’eventuale aggressione esterna. Sottolineando la
violenza sempre incombente nella sfera pubblica (il concetto di esposizione
andrà sempre inteso in questo doppio significato), Helmuth Plessner ha
paragonato a giusto titolo l’apparenza a un’armatura che ci corazza contro le
potenziali ferite della relazione sociale: «L’individuo deve darsi innanzitutto
una forma nella quale egli diventi inattaccabile, quasi un’armatura con la
quale entrare nel campo di battaglia della sfera pubblica. Divenuto in tal modo
visibile, egli esige dagli altri una reazione corrispondente: una risposta
degli altri [...]. Ma con questa compensazione irreale l’uomo si maschera,
rinuncia a essere osservato e rispettato in quanto individualità, per agire
rappresentativamente ed essere rispettato almeno in senso vicario e in una
funzione particolare»[6].
Darsi una forma apparente significa assumere un ruolo,
una funzione. Indossando la maschera, l’individuo diventa un personaggio,
ovvero una persona pubblica, rinunciando a portare nel mondo la propria unica,
fragile individualità. Ciò che si manifesta apertamente è solo la maschera, che
personalizza perché è la persona, la nostra identità per gli altri[7]. E questa personalità apparente, fittizia,
artificiale esercita nei confronti dell’interiorità psichica una funzione di rappresentanza,
conferendo all’interazione il carattere di uno Spiel: gioco dei ruoli
che è recita di maschere, teatro sociale[8].
5. Dal punto di vista comunicativo, nella prospettiva,
cioè, di chi le emette come di chi le riceve per ottenere informazioni, tra le
apparenze sociali si dà una distinzione essenziale. Alcune, emesse in modo
volontario, comunicano al primo livello, come le parole e i gesti espressivi
con cui trasmettiamo messaggi. Altre hanno uno statuto sintomatico, parlano
cioè come segni involontari, al di là e spesso contro le intenzioni soggettive.
Appartengono a questa seconda categoria le espressioni incontrollate, in
particolare quelle emotive, come arrossire, tremare, sudare, nonché le posture
fisiche e le maniere – in genere, tutto ciò che riguarda il corpo nei suoi
aspetti naturali o vegetativi. È stato rilevato come il carattere
rappresentativo della società si riveli pienamente nelle seconde, ossia nelle
apparenze che trapelano nostro malgrado ma che, se siamo buoni attori,
impariamo a lasciar trapelare abilmente. Secondo Goffman, l’«arte spiccatamente
teatrale» dell’interazione consiste nel controllare l’effetto che si fa sugli
altri, imponendo un determinato insieme di apparenze come definizione condivisa
della situazione[9]. L’illusione è tanto più perfetta quanto più
riesce a manipolare il dettaglio che lo spettatore crede spontaneo, a simulare
cioè la naturalezza, secondo quella che si rivelerà la regola aurea del
prestigio: ars est celare artem.
Excursus: «Vanity fair»
Il progetto di una filosofia dell’apparire sociale
intrapreso in questo libro rischia di scontrarsi con una serie di ostacoli, o
quantomeno di diffidenze, che impediscono di prendere troppo sul serio questa
dimensione della vita umana. La prima resistenza riguarda lo statuto della
specifica forma di realtà che è oggetto dell’indagine. Marchiata da quello che
Nietzsche definirebbe un pregiudizio platonico-cristiano e Derrida un apriori
logocentrico[10], l’apparenza tende a essere considerata una
realtà inferiore, e relegata dal senso comune filosofico nella sfera secondaria
della doxa. L’idea dominante per il cui tramite questa subordinazione
metafisica dell’apparenza si è espressa in una prospettiva di lunga durata è
quella di vanità: concetto dalla gravosa matrice teologica, che il
pensiero moderno ha ereditato per farne la base della sua filosofia del mondo
umano, secolarizzandolo in un doppio significato, soggettivo e oggettivo.
Da un punto di vista soggettivo, la vanità è la
passione narcisistica e competitiva dell’io ossessionato dalla propria immagine
pubblica, che ha bisogno di trovare conferme di sé riflettendosi nella
coscienza-specchio degli altri e giudicandosi sempre in maniera relativa e
posizionale rispetto al valore altrui. Ne è emblema quella che Hobbes chiamava vanity:
sebbene nasca da un indebito sentimento di superiorità, e si occupi soltanto di
«bazzecole» (trifles), questa passione frivola è una delle cause
scatenanti dello stato di conflittualità cronica in cui vivono gli esseri
umani, l’implacabile guerra di tutti contro tutti. Per quanto abbia per oggetto
il nulla, e anzi, proprio perché ha per oggetto il nulla, la vanità è
distruttiva e potenzialmente mortale, votata all’annichilimento: in questo suo
intimo legame con la morte si mostra uno dei suoi tratti culturalmente più
persistenti[11].
Nella prospettiva oggettiva, invece, le vanità sono
tutti quei fenomeni di costume (le mode, la fama, la celebrità, la gloria, il
successo, il prestigio, lo snobismo, i pettegolezzi) che si producono nello
strato più superficiale della realtà, mettendo in gioco le apparenze e le
immagini che le persone hanno le une delle altre. Caratterizzate da una
temporalità effimera e destinate fatalmente a scomparire (anche dal punto di
vista oggettivo il tema della morte si dimostra dunque decisivo), le vanità
sono considerate indegne di essere perseguite come fini morali.
L’atteggiamento con cui la cultura occidentale ha
considerato questo ambito di fenomeni evanescenti si potrebbe riassumere
nell’espressione «Vanity Fair», la Fiera delle vanità, la cui fortuna riepiloga
l’intera storia dell’apparenza mondana dall’Ecclesiaste fino ai
rotocalchi contemporanei.
Il nome del giornale glamour fondato nel 1913 a
New York, rinato nel 1983 e ancora edito in varie edizioni nazionali, riprende
quello di un settimanale satirico inglese pubblicato tra il 1868 e il 1914, che
castigava i costumi e le mode dell’età vittoriana. Il titolo delle due riviste
è ispirato dal romanzo di William M. Thackeray (Vanity Fair, 1848), che
narra la parabola dell’arrivista Becky Sharp e di un gruppo di squallidi
personaggi tutti affetti da passioni vanitose. Thackeray aveva a sua volta
preso ispirazione da un classico della letteratura puritana, The pilgrim’s
progress from this world to that which is to come di John Bunyan (1678 e
1684), il romanzo allegorico che è forse l’opera più letta nel mondo
anglosassone dopo la Bibbia. Vanity Fair è il titolo di un episodio del
primo libro; prende il nome da una delle stazioni in cui Christian, l’Everyman
in cerca di redenzione, si ferma insieme al suo compagno di strada Faithful,
che vi perderà la vita per effetto di crudeli torture, venendo prima frustato,
poi colpito ripetutamente con un coltello e infine bruciato. Governata da
Belzebù, Vanity Fair è la città peccaminosa della distrazione, della
perdizione, delle illusioni, delle cose senza valore e, in quanto luogo di
mercato, spazio di esposizione di merci, di réclame chiassosa e di seduzione.
Il suo nome richiama il libro dell’Ecclesiaste e il celebre adagio contro la
transitorietà delle esperienze terrene che lo stesso narratore di Thackeray,
con il caratteristico tono predicatorio, evoca a più riprese commentando le
vicende dei suoi personaggi. Nel romanzo di Thackeray il tema dello spettacolo
della vanità umana incornicia tutta la storia, allacciando il prologo,
intitolato significativamente Davanti al sipario, alla riflessione
morale conclusiva: «Ah, Vanitas Vanitatum! Chi di noi è felice, in
questo mondo? Chi riesce a soddisfare le sue aspirazioni? E chi si sente pago,
quand’anche vi riesca? Suvvia, venite, bambini, riponiamo il teatrino e le
marionette. La commedia è finita»[12].
In questa lunga storia, la secolarizzazione del
concetto di mondanità dall’originario significato teologico (la condizione
terrena dopo la caduta del peccato originale: la «vita postlapsaria») a quello
sociale (la condizione della socievolezza ludica e disimpegnata: la «vita di
società») si è accompagnata a un progressivo ammorbidimento del giudizio
morale; la condanna religiosa si è evoluta dapprima nella satira e infine nel
gossip. Ma l’atteggiamento di fondo resta ambivalente, carico, a un tempo, di
riprovazione e morbosità voyeuristica: quello della vanità umana è sempre considerato
come lo spettacolo per eccellenza.
Il pregiudizio contro la vanità, a dire il vero, non è
condiviso da tutti i filosofi. Alexandre Kojève ha addirittura accordato al più
fatuo dei moventi soggettivi una centralità antropogenica: la passione vanitosa
incarnerebbe infatti un movente idealistico, la capacità esclusivamente umana
di trascendere il regno del bisogno e della necessità economica in nome del
valore immateriale della propria immagine apprezzata dagli altri. E solo questo
desiderio di riconoscimento che, opponendosi all’istinto di conservazione,
getta l’uomo nella mortale «lotta di puro prestigio», produce un essere umano a
tutti gli effetti, segnando il distacco dall’animale[13]. Altri, come Montaigne, Nietzsche, Simmel,
Arendt, hanno tentato una filosofia «positiva» delle vanità, rivalutando
quell’insieme di fenomeni ed esperienze che, proprio perché effimeri, sembrano
valorizzare quanto la vita umana possiede di più irriducibile e affascinante:
la sua finitezza, la sua levità malinconica ma anche euforizzante, il suo
legame con il tempo.
Nella tradizione filosofica occidentale, a ogni modo,
la visione prevalente è stata senz’altro quella fondata sulla metafisica «dei due
mondi» che, rappresentata esemplarmente dal pensiero platonico, oppone il regno
dell’essere autentico a quello dell’apparenza ingannevole[14]. Alla sfera superficiale e fenomenica, che
comprende tutto ciò che si corrompe – e che di conseguenza corrompe anche
l’interiorità di colui che vi si dedica, l’uomo futile e «vano» – si oppone il
nocciolo sostanziale e durevole del reale. A questa sostanza sono stati dati
nomi diversi: Dio, l’Essere, il regno delle Idee, le moderne leggi
economico-politiche, significativamente definite dal marxismo «struttura» della
realtà. Siano esse teologiche, metafisiche o economiche, le strutture sono
sempre caratterizzate dalla loro consistenza, stabilità, immutabilità, e la
filosofia riconosce in esse il suo legittimo oggetto, definendolo primario da
ogni punto di vista: logico, ontologico, morale. Tutto ciò che non è
riconducibile a questa ossatura è vana apparenza, scherzo, gioco, semplice illusio;
e alle discipline superiori del pensiero è proibito di addentrarsi più di tanto
nel suoi territori poco «seri»[15]. Poiché l’estetica è la sola branca
filosofica che, nella tradizione, sia stata deputata a occuparsi
sistematicamente di questa sfera minore e degradata della realtà (le altre la
evitano, o ne parlano per condannarla), non stupisce allora che una riflessione
sull’apparire sociale debba svilupparsi all’interno del suo ambito e servirsi
dei suoi strumenti. Chi voglia accostarsi allo spettacolo della Fiera delle
vanità per studiarne e comprenderne le leggi non può che seguire la via che
definiremo «estetica sociale»[16].
[1] Intenderò il concetto di romanticismo
in senso ristretto, per indicare le visioni del mondo sociale e dell’io che
fanno appello al mito dell’autenticità, a valori quali l’immediatezza, la
fedeltà all’origine, la presenza a sé, come già in B. Carnevali, Romanticismo
e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau, Bologna, Il Mulino,
2004.
[2] Questa passività non si dà nemmeno per tutte
le cose: le merci, ad esempio, sono dotate di un potere attivo di
autopresentazione comparabile a quello delle persone. Le etichette, il packaging,
la disposizione in scaffali e vetrine sono modi con cui i prodotti si
presentano al mondo esterno, comunicando le proprie qualità e rendendosi più o
meno attraenti. Non a caso la merce è l’oggetto privilegiato dell’esposizione,
concetto al cuore dell’estetica sociale. Si veda più avanti il capitolo
settimo.
[3] H. Arendt, La vita della mente,
Bologna, Il Mulino, 2009, p. 101. Cfr. E. Goffman, La vita quotidiana come
rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1997; Id., Il comportamento in
pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione, Torino, Einaudi,
2006; Id., Relazioni in pubblico, Milano, Cortina, 2008; A. Portmann, Le
forme degli animali, Milano, Feltrinelli, 1960, e Id., Das Tier als
soziales Wesen, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1969. Cfr. anche J. Dewitte, La
manifestation de soi, Paris, Éd. la Découverte, 2010.
[4] G. Santayana, The World’s a Stage e Masks, in Id., Soliloquies
in England and Later Soliloquies, New York, Scribner’s, 1922, pp. 126-132;
A. Pizzorno, Sulla maschera, Bologna, Il Mulino, 2008.
[5] J.C. Flügel, Psicologia dell’abbigliamento,
Milano, Franco Angeli, 2003, p. 33 e cap. I.
[6] H. Plessner, I limiti della comunità,
Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 74 (Verso l’inattaccabilità: cerimoniale e
prestigio).
[7] M. Mauss, Una categoria dello spirito
umano: la nozione di «persona», in Id., Teoria generale della magia e
altri saggi, Torino, Einaudi, 2000, pp. 353-381.
[8] Le riflessioni sulla violenza implicita nella
rappresentazione sociale devono servire a integrare quelle sul suo carattere
ludico-rappresentativo. In nessun modo l’accento sulla dimensione estetica del
sociale e sulla logica specifica dell’apparire può cancellare il carattere
conflittuale dell’interazione.
[9] Goffman, La vita quotidiana come
rappresentazione, cit., pp. 14 ss.
[10] Cfr. G. Vattimo, Il soggetto e la
maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano, Bompiani,
2003; J. Derrida, L’archeologia del frivolo: saggio su Condillac, Bari,
Dedalo, 1992.
[11] Sulla secolarizzazione della vanità
cristiana nel concetto moderno di amor proprio, passione che è la chiave di
volta del sistema antropologico dei moralisti moderni, L. Strauss, La
filosofia politica di Hobbes, in Id., Che cos’è la filosofia politica?,
Urbino, Argalia, 1977; A.M. Battista, Politica e morale nella Francia
dell’età moderna, Genova, Name, 1998; B. Carnevali, Potere e
riconoscimento. Il modello hobbesiano, in «Iride», 46, 2006, pp. 515-540.
[12] W.M. Thackeray, La fiera delle vanità,
Milano, Garzanti, 2003, vol. II, p. 889.
[13] A. Kojève, Introduzione alla lettura di
Hegel, Milano, Adelphi, 1996. In generale, tutti gli autori sensibili al
tema del riconoscimento si trovano a dover attribuire alla vanità
dell’apparenza un valore positivo. Ciò che è in gioco nella relazione di
riconoscimento è il valore della persona, ma per definirsi questo valore deve
necessariamente essere veicolato dall’immagine sociale, da ciò che è
pubblicamente percepito.
[14] Cfr. Arendt, La vita della mente, cit.,
cap. I; M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani,
2007; H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, Frankfurt a.M.,
Suhrkamp, 2006, cap. XI.
[15] L’opposizione tra serietà e frivolezza, come
quella tra gioco e lavoro, rientra in questo sistema di gerarchie metafisiche
che ha identificato la sfera dell’apparenza con la vanità. Cfr. J. Huizinga, Homo
ludens, Torino, Einaudi, 2002.
[16] Uno dei rari tentativi di definire una
logica della dimensione estetica riflettendo in chiave epistemologica sul
metodo con cui studiare la trasmissione e i cambiamenti della moda, del gusto e
degli stili di vita in E.H. Gombrich, La logica della fiera delle vanità,
Roma, Borla, 1982.
Nessun commento:
Posta un commento