11 settembre 2012

APPARENZE SOCIALI








Barbara Carnevali è ricercatrice in filosofia all'IEA di Parigi. Proponiamo di seguito le pagine iniziali del suo libro, Le apparenze sociali. Una filosofia del prestigio (Il Mulino), uscito all'inizio di settembre. Carnevali nel libro analizza criticamente la prima dimensione in cui la vita sociale si mostra. 




1. Ciò che sappiamo su chi ci circonda, e ciò che gli altri sanno di noi, si fonda essenzialmente su apparenze. Nessuno ha accesso diretto all’interiorità altrui, all’anima e ai pensieri delle altre persone; nessuno può darsi agli altri in modo immediato, senza affidarsi a una mediazione sensibile, a ciò che si manifesta ai sensi. Nel rapportarsi ai propri simili, al pari di tutti i viventi, gli esseri umani non possono evitare di prendere le cose come appaiono. E, paradossalmente, più danno importanza alla realtà nascosta, più devono concentrare la loro attenzione su ciò che è visibile e percepibile.
Il paradosso per cui la profondità coincide con la superficie, e la realtà con la sua manifestazione fenomenica, è insito nella natura stessa dell’esperienza sociale. Non riposa su una perversione del giusto ordine della comunicazione, come vorrebbe invece il pensiero romantico, che tende a leggere nella produzione di apparenze sensibili una forma di alienazione, la corruzione di uno scambio originariamente autentico, capace di mettere in contatto interiorità e interiorità in modo trasparente, senza bisogno di mediazioni artificiali[1]. È il modo in cui le persone appaiono a fornire il medium dei loro rapporti reciproci e a costituire la sostanza del mondo condiviso. L’io si volge all’altro io e instaura il legame sociale attraverso la propria apparenza: grazie a un sorriso sul volto possiamo attrarre gli altri, o allontanarli da noi, suscitando la loro invidia e antipatia; con una smorfia di dolore possiamo respingerli, ma anche risvegliarne la compassione e la pietà. In ogni caso, l’apparenza crea il legame intersoggettivo, lo istituisce e lo rappresenta, rivelando la società come una rete di relazioni sensibili.
Lungi dall’essere fenomeni morbosi, patologici, le apparenze sono quindi le condizioni fisiologiche della socialità – se non della vita stessa, concludeva Hannah Arendt nel suo ultimo libro, fondendo suggestioni della fenomenologia francese con le teorie di Erving Goffman e del biologo svizzero Adolf Portmann. L’essere vivente può trasformare la sua esposizione pubblica, che per le cose prive di vita è un modo di essere passivo[2], una disponibilità alla percezione subita e incontrollata, nella forma più attiva e intraprendente dell’autopresentazione o rappresentazione di sé: «Essere vivi significa essere posseduti da un impulso all’autoesibizione che corrisponde al dato di fatto del proprio apparire. Gli esseri viventi fanno la loro apparizione come attori su una scena allestita per loro»[3].
Il vocabolario della zoologia (Selbstdarstellung, Portmann), della sociologia (presentation of self, Goffman) e della filosofia sociale (self-display, Arendt) concordano e sembrano illuminarsi reciprocamente nel definire il mondo, cioè lo spazio pubblico abitato e condiviso dai viventi, come un teatro, e l’essere sulla sua scena come una forma di automanifestazione e rappresentazione estetica: un apparire in pubblico, un divenire-immagine e oggetto di percezione possibile per gli occhi di qualche spettatore. Il linguaggio ordinario, sempre ricco di intuizioni fenomenologiche, lo rileva in molte delle sue espressioni ricorrenti, come «dare spettacolo», «fare figura», «sfigurare», gli innumerevoli riferimenti alla faccia e al viso.
Chi vive nel mondo è un essere pubblico, e l’apparenza che incessantemente proietta intorno a sé, il suo aspetto, lo segue in ogni situazione mondana come un’ombra, lo circonda e protegge come quell’atmosfera che chiamiamo significativamente l’aria o l’aura delle persone. Questo schermo sensibile condiziona tutti i nostri rapporti sociali e li media, come un inseparabile biglietto da visita che, presentando anticipatamente agli altri le nostre generalità, plasma e influenza la nostra comunicazione con loro.
2. Nella rappresentazione sociale, l’apparenza ha anche, inevitabilmente, lo statuto di una maschera. Oggetto ambiguo per eccellenza, la maschera mostra nascondendo, perché, nel momento stesso in cui rivela un aspetto della realtà, comunicandolo, ne ricopre un altro con il proprio spessore e con la propria condizionatezza: attraverso di essa si mostra qualcosa che sembra essere, ma che forse non è. Come una maschera, l’apparenza sociale è sempre sospetta, vittima dell’accusa di celare, deformare, travestire o stravolgere una realtà più profonda e più genuina. Senza maschera, tuttavia, non potrebbero darsi né conoscenza né comunicazione alcuna, perché gli esseri umani non avrebbero niente da vedere[4].
3. Il ruolo delle apparenze è sempre mediale. Esse sono il tramite con cui si stabiliscono e si calibrano i rapporti reciproci tra persone, tra la psiche e il mondo, tra la realtà soggettiva, privata e segreta, e la realtà oggettiva, accessibile e pubblica. La maschera è un mediatore diplomatico tra entità distanti, che sono potenzialmente incompatibili. E fa anche da filtro, da ammortizzatore: attraverso la sua superficie porosa, resistente e al tempo stesso flessibile, gli stimoli provenienti dall’interiorità vengono trasmessi e manifestati nel mondo, mentre quelli provenienti dall’esterno vengono ricevuti, selezionati e adattati in vista dell’assimilazione soggettiva.
Quella dell’apparire, dunque, è sempre una duplice funzione: espositiva, ma anche protettiva, utile a schiudere lo spazio dell’interiorità e a farlo comunicare, ma anche a custodire il suo fragile contenuto. La pelle, lo strato più superficiale del nostro corpo, esposto allo sguardo e al tatto, è una barriera-involucro che contiene e difende gli organi interni. Gli abiti non solo rappresentano il veicolo privilegiato per lo sfoggio del corpo e per l’esaltazione della sua bellezza, ma lo riparano, lo proteggono dal freddo e dagli altri elementi, nascondono difetti, tutelano il pudore. Le maniere e i gesti cerimoniali, a volte esibizionistici o affettati nel loro aspetto rituale e distintivo, servono anche a preservare l’onore, la riservatezza e la dignità delle persone.
L’apparenza è insomma un tessuto in tensione tra due impulsi conflittuali e ugualmente potenti: l’esibirsi e il nascondersi, la vanità e la vergogna, la decorazione e il decoro. Ciò che ricopre è anche ciò che esibisce, e viceversa: come la conchiglia vistosamente colorata, come il coperchio dello scrigno intarsiato, o come l’arrossire o il balbettare della persona intimidita quando finiscono per richiamare l’attenzione proprio sul segreto che vorrebbero occultare. Analizzando la funzione psicologica degli abiti, forse la prima e la più importante delle apparenze da cui ricaviamo un’impressione dei nostri simili, in analogia con quella dei sintomi nevrotici, lo psicanalista John Carl Flügel, nel 1930, aveva dato questa definizione: «i vestiti assomigliano a un perpetuo rossore sul corpo dell’umanità»[5].
4. Nel linguaggio della psicanalisi, l’apparire potrebbe essere definito come una formazione di compromesso tra impulsi contrastanti. Nella sua natura intimamente dialettica, l’aspetto mostra in modo esemplare quel principio di ambivalenza, o di sovradeterminazione, che permette agli esseri umani di gratificare bisogni e desideri antagonistici con un unico gesto. Così nel vestito, sempre secondo Flügel, si appaga il dissidio tra pulsione esibizionistica e senso del pudore, che trovano entrambi una soddisfazione parziale senza escludersi vicendevolmente. La funzione protettiva degli abiti, più utilitaria e meno emotiva, sarebbe solo il terzo fattore in gioco, successivo e subordinato al conflitto essenziale tra i due impulsi primari in contraddizione.
Un’altra dialettica che si concilia nel compromesso dell’apparenza è quella tra attacco e difesa, tra aggressione e protezione nei confronti degli altri soggetti sociali. La maschera crea distanza e protegge dal contatto con l’alterità, e allo stesso tempo produce una facies appropriata all’incontro agonistico, una maschera bellica, com’è evidente nel ruolo delle uniformi, delle divise sportive, delle danze di guerra che accompagnano gli incontri conflittuali, dalle azioni ludiche a quelle militari. Va sottolineato a questo proposito come la funzione antagonistica sia altrettanto importante di quella rappresentativa, con la quale si intreccia e si completa. Il mondo sociale è, a un tempo, campo di gioco e campo di battaglia. E la comunicazione mediata dalle apparenze è sempre carica di rischio: l’apparire non può dunque essere concepito solo come il vettore di un innocuo mettersi in mostra o manifestarsi estetico, ma anche come il tramite con cui la persona affronta un conflitto e si offre a un’eventuale aggressione esterna. Sottolineando la violenza sempre incombente nella sfera pubblica (il concetto di esposizione andrà sempre inteso in questo doppio significato), Helmuth Plessner ha paragonato a giusto titolo l’apparenza a un’armatura che ci corazza contro le potenziali ferite della relazione sociale: «L’individuo deve darsi innanzitutto una forma nella quale egli diventi inattaccabile, quasi un’armatura con la quale entrare nel campo di battaglia della sfera pubblica. Divenuto in tal modo visibile, egli esige dagli altri una reazione corrispondente: una risposta degli altri [...]. Ma con questa compensazione irreale l’uomo si maschera, rinuncia a essere osservato e rispettato in quanto individualità, per agire rappresentativamente ed essere rispettato almeno in senso vicario e in una funzione particolare»[6].
Darsi una forma apparente significa assumere un ruolo, una funzione. Indossando la maschera, l’individuo diventa un personaggio, ovvero una persona pubblica, rinunciando a portare nel mondo la propria unica, fragile individualità. Ciò che si manifesta apertamente è solo la maschera, che personalizza perché è la persona, la nostra identità per gli altri[7]. E questa personalità apparente, fittizia, artificiale esercita nei confronti dell’interiorità psichica una funzione di rappresentanza, conferendo all’interazione il carattere di uno Spiel: gioco dei ruoli che è recita di maschere, teatro sociale[8].
5. Dal punto di vista comunicativo, nella prospettiva, cioè, di chi le emette come di chi le riceve per ottenere informazioni, tra le apparenze sociali si dà una distinzione essenziale. Alcune, emesse in modo volontario, comunicano al primo livello, come le parole e i gesti espressivi con cui trasmettiamo messaggi. Altre hanno uno statuto sintomatico, parlano cioè come segni involontari, al di là e spesso contro le intenzioni soggettive. Appartengono a questa seconda categoria le espressioni incontrollate, in particolare quelle emotive, come arrossire, tremare, sudare, nonché le posture fisiche e le maniere – in genere, tutto ciò che riguarda il corpo nei suoi aspetti naturali o vegetativi. È stato rilevato come il carattere rappresentativo della società si riveli pienamente nelle seconde, ossia nelle apparenze che trapelano nostro malgrado ma che, se siamo buoni attori, impariamo a lasciar trapelare abilmente. Secondo Goffman, l’«arte spiccatamente teatrale» dell’interazione consiste nel controllare l’effetto che si fa sugli altri, imponendo un determinato insieme di apparenze come definizione condivisa della situazione[9]. L’illusione è tanto più perfetta quanto più riesce a manipolare il dettaglio che lo spettatore crede spontaneo, a simulare cioè la naturalezza, secondo quella che si rivelerà la regola aurea del prestigio: ars est celare artem.
Excursus: «Vanity fair»
Il progetto di una filosofia dell’apparire sociale intrapreso in questo libro rischia di scontrarsi con una serie di ostacoli, o quantomeno di diffidenze, che impediscono di prendere troppo sul serio questa dimensione della vita umana. La prima resistenza riguarda lo statuto della specifica forma di realtà che è oggetto dell’indagine. Marchiata da quello che Nietzsche definirebbe un pregiudizio platonico-cristiano e Derrida un apriori logocentrico[10], l’apparenza tende a essere considerata una realtà inferiore, e relegata dal senso comune filosofico nella sfera secondaria della doxa. L’idea dominante per il cui tramite questa subordinazione metafisica dell’apparenza si è espressa in una prospettiva di lunga durata è quella di vanità: concetto dalla gravosa matrice teologica, che il pensiero moderno ha ereditato per farne la base della sua filosofia del mondo umano, secolarizzandolo in un doppio significato, soggettivo e oggettivo.
Da un punto di vista soggettivo, la vanità è la passione narcisistica e competitiva dell’io ossessionato dalla propria immagine pubblica, che ha bisogno di trovare conferme di sé riflettendosi nella coscienza-specchio degli altri e giudicandosi sempre in maniera relativa e posizionale rispetto al valore altrui. Ne è emblema quella che Hobbes chiamava vanity: sebbene nasca da un indebito sentimento di superiorità, e si occupi soltanto di «bazzecole» (trifles), questa passione frivola è una delle cause scatenanti dello stato di conflittualità cronica in cui vivono gli esseri umani, l’implacabile guerra di tutti contro tutti. Per quanto abbia per oggetto il nulla, e anzi, proprio perché ha per oggetto il nulla, la vanità è distruttiva e potenzialmente mortale, votata all’annichilimento: in questo suo intimo legame con la morte si mostra uno dei suoi tratti culturalmente più persistenti[11].
Nella prospettiva oggettiva, invece, le vanità sono tutti quei fenomeni di costume (le mode, la fama, la celebrità, la gloria, il successo, il prestigio, lo snobismo, i pettegolezzi) che si producono nello strato più superficiale della realtà, mettendo in gioco le apparenze e le immagini che le persone hanno le une delle altre. Caratterizzate da una temporalità effimera e destinate fatalmente a scomparire (anche dal punto di vista oggettivo il tema della morte si dimostra dunque decisivo), le vanità sono considerate indegne di essere perseguite come fini morali.
L’atteggiamento con cui la cultura occidentale ha considerato questo ambito di fenomeni evanescenti si potrebbe riassumere nell’espressione «Vanity Fair», la Fiera delle vanità, la cui fortuna riepiloga l’intera storia dell’apparenza mondana dall’Ecclesiaste fino ai rotocalchi contemporanei.
Il nome del giornale glamour fondato nel 1913 a New York, rinato nel 1983 e ancora edito in varie edizioni nazionali, riprende quello di un settimanale satirico inglese pubblicato tra il 1868 e il 1914, che castigava i costumi e le mode dell’età vittoriana. Il titolo delle due riviste è ispirato dal romanzo di William M. Thackeray (Vanity Fair, 1848), che narra la parabola dell’arrivista Becky Sharp e di un gruppo di squallidi personaggi tutti affetti da passioni vanitose. Thackeray aveva a sua volta preso ispirazione da un classico della letteratura puritana, The pilgrim’s progress from this world to that which is to come di John Bunyan (1678 e 1684), il romanzo allegorico che è forse l’opera più letta nel mondo anglosassone dopo la Bibbia. Vanity Fair è il titolo di un episodio del primo libro; prende il nome da una delle stazioni in cui Christian, l’Everyman in cerca di redenzione, si ferma insieme al suo compagno di strada Faithful, che vi perderà la vita per effetto di crudeli torture, venendo prima frustato, poi colpito ripetutamente con un coltello e infine bruciato. Governata da Belzebù, Vanity Fair è la città peccaminosa della distrazione, della perdizione, delle illusioni, delle cose senza valore e, in quanto luogo di mercato, spazio di esposizione di merci, di réclame chiassosa e di seduzione. Il suo nome richiama il libro dell’Ecclesiaste e il celebre adagio contro la transitorietà delle esperienze terrene che lo stesso narratore di Thackeray, con il caratteristico tono predicatorio, evoca a più riprese commentando le vicende dei suoi personaggi. Nel romanzo di Thackeray il tema dello spettacolo della vanità umana incornicia tutta la storia, allacciando il prologo, intitolato significativamente Davanti al sipario, alla riflessione morale conclusiva: «Ah, Vanitas Vanitatum! Chi di noi è felice, in questo mondo? Chi riesce a soddisfare le sue aspirazioni? E chi si sente pago, quand’anche vi riesca? Suvvia, venite, bambini, riponiamo il teatrino e le marionette. La commedia è finita»[12].
In questa lunga storia, la secolarizzazione del concetto di mondanità dall’originario significato teologico (la condizione terrena dopo la caduta del peccato originale: la «vita postlapsaria») a quello sociale (la condizione della socievolezza ludica e disimpegnata: la «vita di società») si è accompagnata a un progressivo ammorbidimento del giudizio morale; la condanna religiosa si è evoluta dapprima nella satira e infine nel gossip. Ma l’atteggiamento di fondo resta ambivalente, carico, a un tempo, di riprovazione e morbosità voyeuristica: quello della vanità umana è sempre considerato come lo spettacolo per eccellenza.
Il pregiudizio contro la vanità, a dire il vero, non è condiviso da tutti i filosofi. Alexandre Kojève ha addirittura accordato al più fatuo dei moventi soggettivi una centralità antropogenica: la passione vanitosa incarnerebbe infatti un movente idealistico, la capacità esclusivamente umana di trascendere il regno del bisogno e della necessità economica in nome del valore immateriale della propria immagine apprezzata dagli altri. E solo questo desiderio di riconoscimento che, opponendosi all’istinto di conservazione, getta l’uomo nella mortale «lotta di puro prestigio», produce un essere umano a tutti gli effetti, segnando il distacco dall’animale[13]. Altri, come Montaigne, Nietzsche, Simmel, Arendt, hanno tentato una filosofia «positiva» delle vanità, rivalutando quell’insieme di fenomeni ed esperienze che, proprio perché effimeri, sembrano valorizzare quanto la vita umana possiede di più irriducibile e affascinante: la sua finitezza, la sua levità malinconica ma anche euforizzante, il suo legame  con il tempo.
Nella tradizione filosofica occidentale, a ogni modo, la visione prevalente è stata senz’altro quella fondata sulla metafisica «dei due mondi» che, rappresentata esemplarmente dal pensiero platonico, oppone il regno dell’essere autentico a quello dell’apparenza ingannevole[14]. Alla sfera superficiale e fenomenica, che comprende tutto ciò che si corrompe – e che di conseguenza corrompe anche l’interiorità di colui che vi si dedica, l’uomo futile e «vano» – si oppone il nocciolo sostanziale e durevole del reale. A questa sostanza sono stati dati nomi diversi: Dio, l’Essere, il regno delle Idee, le moderne leggi economico-politiche, significativamente definite dal marxismo «struttura» della realtà. Siano esse teologiche, metafisiche o economiche, le strutture sono sempre caratterizzate dalla loro consistenza, stabilità, immutabilità, e la filosofia riconosce in esse il suo legittimo oggetto, definendolo primario da ogni punto di vista: logico, ontologico, morale. Tutto ciò che non è riconducibile a questa ossatura è vana apparenza, scherzo, gioco, semplice illusio; e alle discipline superiori del pensiero è proibito di addentrarsi più di tanto nel suoi territori poco «seri»[15]. Poiché l’estetica è la sola branca filosofica che, nella tradizione, sia stata deputata a occuparsi sistematicamente di questa sfera minore e degradata della realtà (le altre la evitano, o ne parlano per condannarla), non stupisce allora che una riflessione sull’apparire sociale debba svilupparsi all’interno del suo ambito e servirsi dei suoi strumenti. Chi voglia accostarsi allo spettacolo della Fiera delle vanità per studiarne e comprenderne le leggi non può che seguire la via che definiremo «estetica sociale»[16].

[1] Intenderò il concetto di romanticismo in senso ristretto, per indicare le visioni del mondo sociale e dell’io che fanno appello al mito dell’autenticità, a valori quali l’immediatezza, la fedeltà all’origine, la presenza a sé, come già in B. Carnevali, Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau, Bologna, Il Mulino, 2004.
[2] Questa passività non si dà nemmeno per tutte le cose: le merci, ad esempio, sono dotate di un potere attivo di autopresentazione comparabile a quello delle persone. Le etichette, il packaging, la disposizione in scaffali e vetrine sono modi con cui i prodotti si presentano al mondo esterno, comunicando le proprie qualità e rendendosi più o meno attraenti. Non a caso la merce è l’oggetto privilegiato dell’esposizione, concetto al cuore dell’estetica sociale. Si veda più avanti il capitolo settimo.
[3] H. Arendt, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 101. Cfr. E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1997; Id., Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione, Torino, Einaudi, 2006; Id., Relazioni in pubblico, Milano, Cortina, 2008; A. Portmann, Le forme degli animali, Milano, Feltrinelli, 1960, e Id., Das Tier als soziales Wesen, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1969. Cfr. anche J. Dewitte, La manifestation de soi, Paris, Éd. la Découverte, 2010.
[4] G. Santayana, The World’s a Stage e Masks, in Id., Soliloquies in England and Later Soliloquies, New York, Scribner’s, 1922, pp. 126-132; A. Pizzorno, Sulla maschera, Bologna, Il Mulino, 2008.
[5] J.C. Flügel, Psicologia dell’abbigliamento, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 33 e cap. I.
[6] H. Plessner, I limiti della comunità, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 74 (Verso l’inattaccabilità: cerimoniale e prestigio).
[7] M. Mauss, Una categoria dello spirito umano: la nozione di «persona», in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 2000, pp. 353-381.
[8] Le riflessioni sulla violenza implicita nella rappresentazione sociale devono servire a integrare quelle sul suo carattere ludico-rappresentativo. In nessun modo l’accento sulla dimensione estetica del sociale e sulla logica specifica dell’apparire può cancellare il carattere conflittuale dell’interazione.
[9] Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, cit., pp. 14 ss.
[10] Cfr. G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano, Bompiani, 2003; J. Derrida, L’archeologia del frivolo: saggio su Condillac, Bari, Dedalo, 1992.
[11] Sulla secolarizzazione della vanità cristiana nel concetto moderno di amor proprio, passione che è la chiave di volta del sistema antropologico dei moralisti moderni, L. Strauss, La filosofia politica di Hobbes, in Id., Che cos’è la filosofia politica?, Urbino, Argalia, 1977; A.M. Battista, Politica e morale nella Francia dell’età moderna, Genova, Name, 1998; B. Carnevali, Potere e riconoscimento. Il modello hobbesiano, in «Iride», 46, 2006, pp. 515-540.
[12] W.M. Thackeray, La fiera delle vanità, Milano, Garzanti, 2003, vol. II, p. 889.
[13] A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996. In generale, tutti gli autori sensibili al tema del riconoscimento si trovano a dover attribuire alla vanità dell’apparenza un valore positivo. Ciò che è in gioco nella relazione di riconoscimento è il valore della persona, ma per definirsi questo valore deve necessariamente essere veicolato dall’immagine sociale, da ciò che è pubblicamente percepito.
[14] Cfr. Arendt, La vita della mente, cit., cap. I; M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani, 2007; H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2006, cap. XI.
[15] L’opposizione tra serietà e frivolezza, come quella tra gioco e lavoro, rientra in questo sistema di gerarchie metafisiche che ha identificato la sfera dell’apparenza con la vanità. Cfr. J. Huizinga, Homo ludens, Torino, Einaudi, 2002.
[16] Uno dei rari tentativi di definire una logica della dimensione estetica riflettendo in chiave epistemologica sul metodo con cui studiare la trasmissione e i cambiamenti della moda, del gusto e degli stili di vita in E.H. Gombrich, La logica della fiera delle vanità, Roma, Borla, 1982.


 

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