Antonio Prete è uno dei maggiori studiosi italiani di Giacomo Leopardi. Il giornale l’unità oggi pubblica un suo interessante articolo che riproponiamo:
Leopardi e l’arte della traduzione
Leopardi
e la traduzione. È questo l’argomento del convegno internazionale di studi
leopardiani che si sta tenendo a Recanati fino al 28 settembre,
rispettando una cadenza quadriennale. «Del modo di ben tradurre ne parla
più a lungo chi traduce men bene», sosteneva Leopardi. Di fatto il grande
poeta, raffinato traduttore dei Greci, non ha mai dedicato alla traduzione un
saggio definito, anche se ha disseminato nel suo Zibaldone osservazioni
preziosissime sull’arte del tradurre. E ha accompagnato spesso le sue
traduzioni – da Mosco, Virgilio, Isocrate, Epitteto e altri – con notazioni
folgoranti sull’arte del tradurre. È certo sorprendente che nelle diffuse
indagini contemporanee intorno alla traduzione il punto di vista leopardiano
sia pressoché ignorato. Scarsa attenzione è data anche alle sue stesse
traduzioni. Eppure i Canti e le Operette non si possono intendere in profondità
senza tener conto del lungo esercizio leopardiano di traduzione dei classici.
Attività vissuta dal poeta come momento essenziale e vitale della sua scrittura
e del suo pensiero.
Tradurre,
per Leopardi, è stare all’ombra dell’altra lingua. Ma abitando la propria
lingua, nell’esteso orizzonte della sua tradizione, ma anche in tutte le
possibili modulazioni espressive e inventive. Tradurre è situarsi tra due
lingue, anzi tra le lingue, in un costante e vigilissimo esercizio di
comparazione. Lo Zibaldone è anche l’esperienza di un grande amore, l’amore per
la lingua : la filo-logia come sentimento supremo della lingua, della sua
energia. Il fascino dell’adolescente per le due lingue trasmesse dalla
tradizione umanistica, il greco e il latino, genera presto una consuetudine:
compulsare dizionari, regesti, lessici, annotare etimi e lemmi, comparare
forme. E si sporgerà, il giovane recanatese, persino sul sanscrito e sull’
ebraico biblico. Senza dire delle lingue geograficamente definite dalla
modernità, il francese in particolare, ma anche il tedesco, lo spagnolo,
l’inglese. Ed è proprio lo sguardo sulla «necessaria e infinita varietà delle
lingue» che porta Leopardi a considerare il progetto di una lingua universale
come una chimera, anche se a più riprese nell’Europa dei colti si dibatteva
intorno a questa ipotesi. Una lingua universale, secondo Leopardi, sarebbe «la
più schiava, povera, timida, monotona, uniforme arida e brutta lingua…». A
questa astrazione il poeta ha sempre opposto la guizzante vitalità di una
singola lingua che tiene saldo l’ancoraggio al vivente, alla sua efflorescenza
di forme, alla sua corporea e sensitiva immaginazione. Il poeta privilegia le
lingue che conservano un respiro di libertà, le lingue che sanno stare «dietro
la mutevolezza delle cose», che si distanziano dall’aridità, dal «carattere
geometrico», e per questo preservano quel rapporto col naturale e con la
semplicità proprio dell’antico, delle lingue antiche. È in questo orizzonte che
la traduzione appare a Leopardi come un atto necessario. Necessario a fare
apparire la ricchezza delle singole lingue, a dare una visibile configurazione
al tesoro delle due lingue messe di volta in volta in dialogo e a confronto.
E
tuttavia si tratta ogni volta di un esercizio di approssimazione, perché nel
suo più riuscito configurarsi la traduzione è soltanto la costruzione di una
somiglianza. La traduzione è, per Leopardi, nell’ordine dell’imitazione. Una
lingua «perfettamente pieghevole, varia, ricca e libera» può davvero imitare,
non copiare. Non si tratta -è questo l’esempio leopardiano- di rifare una
figura di cera copiando un’altra figura di cera, ma si tratta di ritrarre «dal
naturale nel marmo», accogliere cioè in una forma e in una materia un’altra
forma, un’altra materia. Il traduttore, dunque, come «artefice»: il suo operare
non è servile, non è asservito, ma sperimenta la libertà della propria lingua,
di tutte le sue forme. Leopardi traduttore, quando sta all’ombra dell’altra
lingua, sa che proprio in questo indugiare quieto e attento -di ascolto, di
interrogazione – quel che prende vita è la lingua propria di colui che traduce:
con i suoi timbri, le sue attitudini, la sua storia. È questa lingua propria
che muove verso l’ospitalità dell’altro testo, procedendo a una trasmutazione
che è rinascita, a una riscrittura che è insieme preservazione dell’originale e
costruzione di nuove forme.
Secondo
Leopardi percepiamo e gustiamo le forme, i modi, le eleganze di un’altra lingua
sempre in relazione alla nostra lingua, alla «lingua familiare». A questo
proposito, in una pagina dello Zibaldone del 20-22 aprile 1821, il poeta evoca
un’immagine inattesa: la camera oscura. L’effetto di una lingua straniera
«sull’animo nostro è come l’effetto delle prospettive ripetute e vedute nella
camera oscura, le quali tanto possono essere distinte e corrispondere veramente
agli oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura è adattata a renderle
con esattezza». La relazione e il confronto che si istituisce tra due lingue
-una straniera, l’altra propria- è una relazione che accade non in un terzo
campo ma nel campo della lingua in cui si traduce, nella familiarità e intimità
che il traduttore ha con la propria lingua.
Connotazione
magica
C’è
come un’appropriazione interiore silenziosa e persino magica da parte dalla
lingua seconda (la connotazione magica accompagnerà sempre la storia della
camera oscura, dai suoi primi esperimenti fino all’ evoluzione verso l’arte
della fotografia e del cinema). L’ «animo nostro» è la vera camera oscura in
cui arrivano le immagini della prima lingua. In questa sottolingua e prelingua
corporea e indefinita che è «l’animo nostro», in questo inconscio della lingua,
agisce la lingua dell’ originale. L’ adattamento della camera oscura è
condizione necessaria per il lavoro di traduzione. Altre figure del tradurre
propone la diffusa riflessione leopardiana. L’ascolto, ad esempio, l’ascolto
assiduo dell’altra lingua, dei suoi toni, dei suoi ritmi come soglia del
tradurre. Oppure la necessità di esser poeti se si vogliono tradurre dei poeti.
Ma per
Leopardi l’esperienza del tradurre diviene anche materia di affabulazione e di
costruzione fantastica. Una sorta di filologia fantastica dispiega i suoi
strumenti, le sue leggere e divertite forme. Ed ecco scritture presentate come
traduzioni da testi originali inesistenti. Contaminazioni di fonti bibliche e
di fonti classiche. Finzioni di manoscritti ritrovati e di manoscritti
apocrifi. E traduzioni proprie offerte al lettore come fossero opera di anonimo
autore medievale : come accade per il Martirio dei santi Padri, opuscolo
pubblicato a Milano preso l’editore Stella nel 1826. Per la traduzione pretesa
«anonima» di quell’aurea leggenda di martiri Leopardi fece ricorso a una lingua
trecentesca talmente credibile, per fattura e bellezza e modi e forme, che il
primo esperto di testi del Trecento, l’abate Cesari, vi abboccò senza alcun
sospetto. Tradurre, per Leopardi, è abitare la lingua, la propria lingua, e in
questo spazio accogliere e far rinascere il testo dell’altra lingua. Una
rinascita nel tempo e nello spazio della nuova parola, la parola del
traduttore. Anche nella riflessione sul tradurre Leopardi si situa nel vivo
della nostra contemporaneità.
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relativamente alle diverse versioni della traduzione della Paralipomeni della Batracomiomachia per chi volesse approfondire