Il capolavoro di Hermann Hesse è stato uno dei classici del 900. Si
tratta di un libro che ha formato diverse generazioni e che invitiamo a
rileggere con questo bel pezzo di Antonio Gnoli pubblicato da La Repubblica.
Antonio
Gnoli, Hesse e il segreto di Buddha
Sono
trascorsi novant'anni dalla pubblicazione di Siddhartha. Il piccolo romanzo —
che Hermann Hesse iniziò a scrivere nell’inverno del 1919 — nasceva anche come
reazione alla guerra e alle sue devastazioni. Da tempo nella sua mente si era
affacciata l’idea che l’Europa fosse una civiltà al tramonto. Qualche anno
prima lo scrittore aveva compiuto un viaggio in India che ebbe il sapore
dell’iniziazione e dell’allontanamento dall’Europa: «Io la fuggivo e quasi la
odiavo, l’Europa, con il suo gusto pacchiano, con il suo frastuono da fiera di
paese, con la sua inquietudine senza respiro, con la sua rozza e stolida smania
di godere», scrisse in un saggio che ora vede la luce — insieme a una piccola
raccolta di lettere, a brani di diario e ad altri contributi — in appendice a
una nuova edizione di in uscita il 5 settembre da Adelphi (nella bella traduzione
di Massimo Mila).
Completare
il libro non fu semplice. Una severissima crisi ne aveva inaridito la vena
narrativa. La moglie malata di mente e chiusa in un manicomio, la povertà
sempre più insidiosa, la separazione dai figli contribuirono ad accrescere la
precarietà dello scrittore. Ci vollero più di due anni perché Hesse portasse a
compimento la sua “leggenda indiana”. E quando, nel 1922, il romanzo uscì,
l’accoglienza non fu esaltante. Comunicò a Romain Rolland la delusione per gli
amici più stretti che tacevano e aggiunse che dalla critica sui giornali non
aveva udito «altro finora se non espressioni di rispettoso imbarazzo ». Si può
capire la reazione sfavorevole a un libro insolito che, con gli occhi di un
europeo, raccontava l’India attraverso l’India.
Da tempo
abbiamo appreso che esistono libri nati per segnare la stagione di una vita.
Che irrorano con le proprie semplici trame l’immaginazione di un’età non ancora
adulta né formata. Le loro pagine si vivono con tanta più intensità quanto più
è forte il disagio di chi si aggrappa ad esse come a un oggetto di culto e di
salvezza. Siddhartha avrebbe egregiamente svolto il compito di traghettare
anime incerte in mondi avvolti nel sogno orientale. Col tempo, infatti, quel
racconto — dai toni a volte favolistici e lievemente ammonitori — avrebbe
guadagnato alla propria causa letteraria decine di milioni di lettori. Dov’era
il suo fascino?
Hesse
scrisse una storia senza pretese speculative. Chiunque avesse letto della vita
di Siddhartha avrebbe colto la determinazione con cui il giovane figlio di un
bramino cercava la propria strada senza compromessi. L’inquieto Siddhartha
desiderava un’iniziazione alla vita e alla verità. In principio voleva
diventare un samana, un asceta le cui pratiche mistiche lo avrebbero aiutato a
spersonalizzare il proprio essere, a creare quel vuoto interiore, condizione
necessaria per assumere ogni nuova forma che il mondo gli offriva: quella di un
airone o di uno sciacallo, della pietra o del legno, della fame o della sete.
«Molto apprese Siddhartha dai samana, molte vie imparò a percorrere per uscire
dal proprio Io», scrive Hesse. Ma al giovane, dotato di grande intelligenza e
sensibilità, non bastava l’insegnamento delle arti dei samana.
A quel tempo
un’altra figura si aggirava e faceva proseliti: era quella del Buddha. E quando
Siddhartha lo incontrò lo riconobbe subito: «Lo vide, un ometto semplice, in
cotta gialla, che camminava tranquillo con la sua ciotola in mano per le
elemosine». Siddhartha — diversamente dall’amico Govinda — non volle tuttavia
convertirsi alle idee del nuovo maestro. E per quanto ne ammirasse la calma e
la forza, e ne apprezzasse la dottrina compassionevole, qualcosa gli impediva
di abbracciarne la fede. Non che le parole del Buddha suonassero false. Anzi.
Ma egli misteriosamente sapeva di dover continuare il viaggio, «non per cercare
un’altra e migliore dottrina, perché non ve ne è alcuna, ma per abbandonare
tutte le dottrine e tutti i maestri e raggiungere da solo la mia meta o
morire», disse Siddhartha.
La verità,
spiega Hesse, non è il frutto di una dottrina che un maestro trasmette
all’allievo, non è un sapere codificato e appreso. Ma una predisposizione
dell’animo, uno sguardo libero e smarrito rivolto al proprio interno. È ciò che
Siddhartha, anche in questo diversamente da Govinda, intuisce. Egli sa che il
viaggio è più importante della meta e che perdersi, o deviare dalla retta
strada, è altrettanto necessario del ritrovarsi. L’incontro con Kamala, la
prostituta di cui si innamora, e il successo che gli arride negli affari
trascinano, apparentemente, Siddhartha in un gorgo di brutali sensazioni. In
realtà, anche il più ignobile dei comportamenti fa parte di un disegno
misterioso: «Aveva dovuto scendere nel mondo, perdersi nel piacere e nel
potere, nelle donne e nell’oro, aveva dovuto diventare un mercante, un
giocatore di dadi, un beone e un avaro, finché il sacerdote e il samana in lui
fossero morti».
Hesse ci
mostra le tappe di un risveglio e la via per raggiungere la saggezza. Che non è
comunicabile, né trasmissibile. Ad essa si approda nell’alternanza del dolore e
del piacere, della caduta e della rinascita, del samsara e del nirvana,
dell’illusione e della verità: «Di ogni verità anche il contrario è vero»,
sentenzia Siddhartha. E la verità non è il frutto di una dottrina, per quanto
nobile possa essere, come quella insegnata dal Buddha. La verità — che gli
indica con il proprio esempio il barcaiolo Vasudeva — era l’accordo della
propria voce con la voce del fiume. Con l’acqua che lo compone. E questa non è
un principio, non è un concetto ma una pura superficie sulla quale si riflette
la mente di Siddhartha. La verità che egli cerca non è il logos occidentale: è
la fluida pienezza della mente che il fiume ha riempito.
Fu il
messaggio che oscuramente milioni di lettori carpirono al libro. Dopo il Nobel,
vinto nel 1946, e i riconoscimenti di Thomas Mann, Stefan Zweig, Hugo Ball
(bilanciati dalle sferzanti critiche di Gottfried Benn), Hesse divenne suo
malgrado un guru, una fonte di illuminazione spirituale, il testimone di una
saggezza vissuta con sincerità. Fu così che Siddhartha finì nello zaino di quei
ragazzi che negli anni Sessanta intrapresero il loro viaggio di conoscenza a
Oriente. Una moda che dilagò dall’America all’Europa: complici la musica, le
droghe, e una vaga adesione al misticismo. Carovane di giovani partirono alla
scoperta dell’India con la benedizione dei poeti della Beat Generation e di
qualche gradevole canzone. Le parole che Siddhartha aveva loro insegnato — come
cura contro le nevrosi, l’alienazione, l’aggressività — non c’erano negli altri
libri.
Quel sincero
entusiasmo raramente fu sfiorato dal dubbio che una civiltà per quanto la si
possa amare è pur sempre distante, difficile da penetrare e refrattaria ai
facili entusiasmi. Sorprendentemente l’eretico Siddhartha divenne la più
addolcita realizzazione del “superuomo” nicciano: con lui rivivevano la morte e
la rinascita di tutti i valori. Credo che qui risieda il più suggestivo segreto
del successo: insegnare la trasgressione e la sottomissione. Far convivere la
devianza e la norma. Accettare la vita cambiandone il senso. A ben guardare,
Siddhartha fu il primo di una infinita serie di libri “pedagogici” destinati a
prendersi cura delle nostre anime. Anche se l’India, signora mia, oggi non è
più quella di una volta.
(Da: La
Repubblica del 2 settembre 2012)
Non credo che, per ciò che qui leggo, il libro di Hesse sia stato ancora capito, non credo che invitasse a conoscere culture e popoli diversi. Credo semplicemente che il libro inviti a pensare e guardare se stessi con occhi e mente nuovi. Ed è gustosissimo.
RispondiEliminaNon credo che la lettura di Gnoli contraddica la sua. In ogni caso concordo con lei nel sottolineare che Siddharta invita a "pensare e guardare se stessi con occhi e mente nuova" ed il libro è gustosissimo!
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