Marco
Vallora - A Milano i Picasso che piacevano a Picasso
Genio,
sempre. Scriveva, Picasso (assai vicino a Proust: uno dei pochi contemporanei
che l’aveva capito. Altro che fermo a Vermeer, Watteau, massime Monet!): «Ho
sempre meno tempo, e sempre più da dire. Al punto in cui il movimento del mio
pensiero m’interessa più del mio pensiero stesso». Il cinematografo accelerato
del capire-dipingere. Non già la deposizione e la cova diligente delle uova
d’oro utili solo al mercato. «Ho l’impressione che il tempo fluisca sempre più
vertiginosamente. Sono un fiume che scorre, travolgendo con sé gli alberi
divelti dalla corrente, i cani decomposti, rifiuti d’ogni tipo ed i miasmi che
quelli diffondono. Raccatto tutto e tiro dritto». È con questa idea fissa del
vampiresco fluire eracliteo, che ci si può sciogliere nella magnifica,
finalmente, mostra, che ci concede, a rallentato bout de souffle, di
tracannarci questa dionisiaca cavalcata picassiana di oltre 200 opere (tra
pifferi, sistri, mandolini, cubo-fisarmoniche e bucrani sonori). Stregata
galoppata, che attraversa quasi un secolo, brevissimo, fulminante. Di fattiva,
artigiana, somma genialità, neanche più pittorica: conoscitiva.
È noto:
sono, in parte, i «Picasso di Picasso», disseminati nei suoi vari atelier,
spesso coevi, entro cui compulsivamente tratteneva tutto di sé. Anche i
biglietti usati del metro NordSud (che poi si sarebbero metabolizzati in
pittura-collée) od i feticci adulterini dei suoi vari amori simultanei, che
talvolta si tradiscono, sprizzando dalle sue tele, come cavallette voraci.
Pezzi talvolta più sentimentali, intimi, frammenti privati di sé, che non
capolavori «maggiori» e per tanto tanto più rivelatori. Brani d’un arazzo
fiammante, prelevati qui e là (sotto gli occhi vigili del Ministro Malraux) per
formare la «dation» fiscale, alla morte di Yo, el Rey de la Pintura, e dar vita
al sontuoso Museo parigino, ancor in rifacimento.
Certo, vien
meno qui l’allure barocco-molieresca dell’Hotel Salé, l’aura aristocratica-ferrobattuto degli arredi di Diego
Giacometti, scenografia alla Christian Bérard, il ritmo sincopato di saloni,
stanzette, scale camini e trabocchetti. Ma forse è un’ottima potenzialità,
poter vedere queste opere «nude». Vederle s/correre, quasi frettolosi
fotogrammi braccati, verso il fermo-immagine della Morte, sempre in agguato. Ad
ogni arresto, provvisorio, di tela (questo pantagruelico vitalista che fu in
realtà perennemente tallonato dalla nera, Unica Signora. Abbandonato lui, el
Rey, da Françoise Gilot, vero trauma, si dipinge come un’ombra, una larva
sgomenta). Rileggerle snudate, come granate sempre pronte a riesplodere (tesi
di Apollinaire). Grazie anche all’ammirevole pulizia dell’accrochage, curato da
Lupi, Migliori, Servetto, con quella lunga, parca panca da pellegrinaggio, che
accompagna, come un disponibile bordone, il respiro affannato dello sguardo.
Strattonato dalla voracità del reincontro, con pezzi venerati, la Celestina,
Olga seduta ed il mondo intorno, svanito in uno schermidare di pennellessa,
impeciata d’attesa. La malevitchiana, essenziale Chitarra di Cèret, fatta di
nulla. Il dissanguato Pittore e la modella del ’14. La micro- formidabile
Corrida e via così, rischiando l’ovvietà (possiamo domandarlo al grafico
Ghilardi o a chi per lui: ma perché la scelta d’un icona d’affiche, così furba
eppur poco gaudiosa?).
Certo,
ognuno sceglie, Picasso stesso l’ha autorizzato: «Io dipingo esattamente come
altri redigerebbe la propria autobiografia. Le mie tele, finite o non risolte,
sono come pagine del mio diario. Il futuro sceglierà le pagine preferite». Ci
pare che Anne Baldassari, conservatrice del Museo, abbia scelto assai bene,
evitando l’ubbia dei «periodi» obbligatorio-didattici, rosa-blu-ingresque-ecc.
(tanto invisi al toreador dell’imprevedibile) individuando un «fil rouge»,
dipanato in un saggio assai sottile. In fondo questo Narciso assoluto, ch’era
troppo preso dal mondo (e vittima della pittura: una sposa-tiranna, che «gli
faceva fare quello che voleva») troppo bulimico dell’Altro, per potersi specchiare
unicamente sul rivo di se stesso, ha continuato a fare autoritratti, ma appunto
di questo Sé diffuso, inteso come Mondo-specchio scuoiato. Che lo seduce,
strattona, travolge e domina («Beve ogni volta il suo otre sino alla feccia e
poi l’otre si ricarica», parola di Gertrude Stein).
Picador e
toro-torero di sé, che rischia ogni volta la vita, seduttore anche degli amici,
stupratore e cannibale-Barbablu (come assicurano le sue troppe mogli, suicide o
disarticolate a vita, come nei suoi ritratti) procreatore di figli-quadri o
viceversa, e persino, ermafrodicamente (tanto era «pantos») odalisca di sé,
come certificava l’interessato Cocteau. Che sapeva bene come negli specchi «si
vede la morte è al lavoro»: un alveare gorgogliante di luttuosa vitalità. Anche
Picasso, il velazqueziano, che per certi versi corteggiava pure gli specchi. Ma
ne aveva un sacro terrore ancestrale, di reverenza e insieme paura (li vediamo
spesso spuntare nelle sue fotografie, o negli autoscatti, in mostra). E allora
eccolo in maschera, si trucca, si sottrae, istrioneggiando: collage di
Arlecchini interiori. Proprio per allontanare lo spettro del doppio,
dell’Inquietante freudiano. Già a sedici anni, profetico, una parrucca
settecentesca. E poco prima di morire, sussulto apotropaico, già
auto-teschio-ritratto. O, tornato giovanissimo, spiritello mercuriale, con
paglietta e pennello vangoghiano.
Questo
carnascialesco «scoronatore» del mondo (avrebbe detto Bachtin) ci accoglie ab
initio sotto le fatture-Max Jacob d’un bronzeo giullare: periclitante acrobata,
quasi uno Zarathustra appiedato ed irridente. Passa salamandra attraverso lo
spettro blu-venoso del doppiosuicida Casemas, si purifica nel rosa-sabbia,
adamitico, di Gosòl, poi lo shrappnel prospettico del cubismo e la fiammata
ideologica (che riverbera nella sezione «italiana», memoria della mostra del
’53, affidata a Francesco Poli). Pare avesse avuto notizia della morte
dell’amico Apollinaire, radendosi. Divorzio dagli specchi. Ma giovane, aveva
confessato al fotografo Brassai: «Bisognerebbe fare un buco nello specchio,
affinché l’obiettivo possa cogliere il nostro volto più intimo di sorpresa». La
sua pittura, in fondo, è stato questo. Un foro sontuoso inflitto alla storia
della pittura, che ci aiuta a vedere meglio. A ritessere, come in un gioco
stellare, il profilo di questo Minotauro, insieme dominatore e dominato: Edipo
cieco e tenero mostro, dallo sguardo, che non finisce di toreare con la nostra
miopia filistea.
(Da: La
Stampa del 24 settembre 2012)
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