25 settembre 2012

PICASSO A MILANO





Marco Vallora - A Milano i Picasso che piacevano a Picasso


Genio, sempre. Scriveva, Picasso (assai vicino a Proust: uno dei pochi contemporanei che l’aveva capito. Altro che fermo a Vermeer, Watteau, massime Monet!): «Ho sempre meno tempo, e sempre più da dire. Al punto in cui il movimento del mio pensiero m’interessa più del mio pensiero stesso». Il cinematografo accelerato del capire-dipingere. Non già la deposizione e la cova diligente delle uova d’oro utili solo al mercato. «Ho l’impressione che il tempo fluisca sempre più vertiginosamente. Sono un fiume che scorre, travolgendo con sé gli alberi divelti dalla corrente, i cani decomposti, rifiuti d’ogni tipo ed i miasmi che quelli diffondono. Raccatto tutto e tiro dritto». È con questa idea fissa del vampiresco fluire eracliteo, che ci si può sciogliere nella magnifica, finalmente, mostra, che ci concede, a rallentato bout de souffle, di tracannarci questa dionisiaca cavalcata picassiana di oltre 200 opere (tra pifferi, sistri, mandolini, cubo-fisarmoniche e bucrani sonori). Stregata galoppata, che attraversa quasi un secolo, brevissimo, fulminante. Di fattiva, artigiana, somma genialità, neanche più pittorica: conoscitiva. 

È noto: sono, in parte, i «Picasso di Picasso», disseminati nei suoi vari atelier, spesso coevi, entro cui compulsivamente tratteneva tutto di sé. Anche i biglietti usati del metro NordSud (che poi si sarebbero metabolizzati in pittura-collée) od i feticci adulterini dei suoi vari amori simultanei, che talvolta si tradiscono, sprizzando dalle sue tele, come cavallette voraci. Pezzi talvolta più sentimentali, intimi, frammenti privati di sé, che non capolavori «maggiori» e per tanto tanto più rivelatori. Brani d’un arazzo fiammante, prelevati qui e là (sotto gli occhi vigili del Ministro Malraux) per formare la «dation» fiscale, alla morte di Yo, el Rey de la Pintura, e dar vita al sontuoso Museo parigino, ancor in rifacimento.





Certo, vien meno qui l’allure barocco-molieresca dell’Hotel Salé, l’aura aristocratica-ferrobattuto degli arredi di Diego Giacometti, scenografia alla Christian Bérard, il ritmo sincopato di saloni, stanzette, scale camini e trabocchetti. Ma forse è un’ottima potenzialità, poter vedere queste opere «nude». Vederle s/correre, quasi frettolosi fotogrammi braccati, verso il fermo-immagine della Morte, sempre in agguato. Ad ogni arresto, provvisorio, di tela (questo pantagruelico vitalista che fu in realtà perennemente tallonato dalla nera, Unica Signora. Abbandonato lui, el Rey, da Françoise Gilot, vero trauma, si dipinge come un’ombra, una larva sgomenta). Rileggerle snudate, come granate sempre pronte a riesplodere (tesi di Apollinaire). Grazie anche all’ammirevole pulizia dell’accrochage, curato da Lupi, Migliori, Servetto, con quella lunga, parca panca da pellegrinaggio, che accompagna, come un disponibile bordone, il respiro affannato dello sguardo. Strattonato dalla voracità del reincontro, con pezzi venerati, la Celestina, Olga seduta ed il mondo intorno, svanito in uno schermidare di pennellessa, impeciata d’attesa. La malevitchiana, essenziale Chitarra di Cèret, fatta di nulla. Il dissanguato Pittore e la modella del ’14. La micro- formidabile Corrida e via così, rischiando l’ovvietà (possiamo domandarlo al grafico Ghilardi o a chi per lui: ma perché la scelta d’un icona d’affiche, così furba eppur poco gaudiosa?). 

Certo, ognuno sceglie, Picasso stesso l’ha autorizzato: «Io dipingo esattamente come altri redigerebbe la propria autobiografia. Le mie tele, finite o non risolte, sono come pagine del mio diario. Il futuro sceglierà le pagine preferite». Ci pare che Anne Baldassari, conservatrice del Museo, abbia scelto assai bene, evitando l’ubbia dei «periodi» obbligatorio-didattici, rosa-blu-ingresque-ecc. (tanto invisi al toreador dell’imprevedibile) individuando un «fil rouge», dipanato in un saggio assai sottile. In fondo questo Narciso assoluto, ch’era troppo preso dal mondo (e vittima della pittura: una sposa-tiranna, che «gli faceva fare quello che voleva») troppo bulimico dell’Altro, per potersi specchiare unicamente sul rivo di se stesso, ha continuato a fare autoritratti, ma appunto di questo Sé diffuso, inteso come Mondo-specchio scuoiato. Che lo seduce, strattona, travolge e domina («Beve ogni volta il suo otre sino alla feccia e poi l’otre si ricarica», parola di Gertrude Stein). 




Picador e toro-torero di sé, che rischia ogni volta la vita, seduttore anche degli amici, stupratore e cannibale-Barbablu (come assicurano le sue troppe mogli, suicide o disarticolate a vita, come nei suoi ritratti) procreatore di figli-quadri o viceversa, e persino, ermafrodicamente (tanto era «pantos») odalisca di sé, come certificava l’interessato Cocteau. Che sapeva bene come negli specchi «si vede la morte è al lavoro»: un alveare gorgogliante di luttuosa vitalità. Anche Picasso, il velazqueziano, che per certi versi corteggiava pure gli specchi. Ma ne aveva un sacro terrore ancestrale, di reverenza e insieme paura (li vediamo spesso spuntare nelle sue fotografie, o negli autoscatti, in mostra). E allora eccolo in maschera, si trucca, si sottrae, istrioneggiando: collage di Arlecchini interiori. Proprio per allontanare lo spettro del doppio, dell’Inquietante freudiano. Già a sedici anni, profetico, una parrucca settecentesca. E poco prima di morire, sussulto apotropaico, già auto-teschio-ritratto. O, tornato giovanissimo, spiritello mercuriale, con paglietta e pennello vangoghiano.

Questo carnascialesco «scoronatore» del mondo (avrebbe detto Bachtin) ci accoglie ab initio sotto le fatture-Max Jacob d’un bronzeo giullare: periclitante acrobata, quasi uno Zarathustra appiedato ed irridente. Passa salamandra attraverso lo spettro blu-venoso del doppiosuicida Casemas, si purifica nel rosa-sabbia, adamitico, di Gosòl, poi lo shrappnel prospettico del cubismo e la fiammata ideologica (che riverbera nella sezione «italiana», memoria della mostra del ’53, affidata a Francesco Poli). Pare avesse avuto notizia della morte dell’amico Apollinaire, radendosi. Divorzio dagli specchi. Ma giovane, aveva confessato al fotografo Brassai: «Bisognerebbe fare un buco nello specchio, affinché l’obiettivo possa cogliere il nostro volto più intimo di sorpresa». La sua pittura, in fondo, è stato questo. Un foro sontuoso inflitto alla storia della pittura, che ci aiuta a vedere meglio. A ritessere, come in un gioco stellare, il profilo di questo Minotauro, insieme dominatore e dominato: Edipo cieco e tenero mostro, dallo sguardo, che non finisce di toreare con la nostra miopia filistea.

(Da: La Stampa del 24 settembre 2012)





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