Massimo Raffaeli, IL PANE
DELLA POESIA
Roberto
Roversi se n'è andato venerdì a 89 anni nella sua Bologna. Autore di romanzi,
testi di canzoni e sceneggiature, fondatore di riviste come «Officina» e
«Rendiconti», libraio antiquario, è stato un vero diorama intellettuale. E
soprattutto un poeta.
Amava
ripetere che la parola «compagno» vuol dire, semplicemente, colui che divide il
pane. Roberto Roversi non ha fatto altro che dividere il pane della parola e
della poesia nel corso di una vita lunga e operosa, la cui sola metafisica
consisteva nell'ascolto e in una vigile apertura ai suoi interlocutori,
innumerevoli e per lo più giovanissimi, sempre accolti con una civiltà che non
poteva derogare dal riserbo e dal rigore etico-politico (quasi un misterioso
nettare che traduceva la clausura in apertura), sul quale si fondavano la sua
intransigenza come la sua totale indipendenza di uomo senza apparente
biografia. Una biografia che, prima d'essere deliberatamente inabissata, era
stata invece deragliante e precocissima: di famiglia borghese, formatosi tra il
Liceo Galvani e i corsi di Storia del Risorgimento all'università con la
generazione cosiddetta fascistissima, ventenne, nel '43, aveva disertato i
bandi sciagurati di Salò per salire in montagna fra i partigiani di Ferruccio
Parri: il 25 aprile ad Avigliana, in Piemonte (cui allude in uno dei suoi
poemetti più belli, Il Tedesco Imperatore ), equivale per lui al compimento
esistenziale che gli impone, d'ora in poi, tanto l'austerità del riserbo quanto
la responsabilità di una parola che valga solo in quanto condivisa, cioè di
ognuno e di tutti. Roversi è stato in effetti un diorama artistico e
intellettuale dalla cui complessità è difficile oggi, anzi è temerario,
stralciare per isolarne un tratto che non rischi di mettere in ombra gli altri
compresenti. Si potrebbe dire sia stato uno scrittore tout court ,
nell'accezione classica e militante, o meglio un «autore» secondo l'etimologia
che connette questo termine a un universo di complessità e, insieme, di
generosità che chiunque l'abbia conosciuto o sia andato solo una volta a
trovarlo ha subito sentito come unica e, presto, leggendaria. Molte cose è
stato Roversi: libraio antiquario alla «Palmaverde» nella sua Bologna (per un
buon mezzo secolo di attività con sua moglie Elena, tra via Rizzoli, via Caduti
di Cefalonia, via Castiglione, infine nel sito emblematico di via dei Poeti
dove dicono ci fosse la mescita di vino frequentata da Dante e Cavalcanti);
autore di romanzi in cui irrompe e si oggettiva il presente come storia (da
Caccia all'uomo , 1959, a Registrazione di eventi , '64, e I diecimila cavalli
, '76); firmatario di testi per il teatro ( Unterdenlinden , '65, Il crack ,
69, Enzo Re , '98), autore di canzoni (e qui basti pensare alla collaborazione
celeberrima con Lucio Dalla e alla trilogia anni settanta di Il giorno aveva
cinque teste, Anidride solforosa, Automobili, o a uno splendido cameo, Chiedi
chi erano i Beatles , che ha avuto molti esecutori fra cui, da lui prediletti,
gli Stadio di Gaetano Curreri); scrittore di partiture per il cinema (e fra
tutte, quella scritta su Bologna nel '75 per un cineasta fuoriclasse quale
Carlo Di Carlo); promotore di riviste centrali nel dibattito culturale e
politico, da «Officina», tra il '55 e il '59, fondata con alcuni amici di
sempre (Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti, Gianni Scalia, Angelo Romanò,
Franco Fortini), a «Rendiconti», gestita in proprio fin dal '61, per arrivare
ai fogli bolognesi dei decenni recenti, scanditi nel segno di una militanza
poetica di base tanto capillare quanto clandestina rispetto ai palinsesti
dell'industria culturale; firmatario di interventi critici e di libere
proposizioni affidate a quotidiani e riviste («l'Unità», «Lotta continua»,
«Quaderni piacentini», lo stesso «manifesto»); infine, a cadenza, raffinato
editore con il logo della «Palmaverde» di testi eruditi, storici e filologici,
nonché di alcune opere poetiche di grande rilievo, da La poesia delle rose
('63) di Franco Fortini a I Provenzali , voltati in italiano nel '59 da un altro
suo amico troppo presto perduto, Giuseppe Guglielmi. (Né va qui dimenticata,
l'impronta roversiana su Pendragon, l'editrice bolognese di suo nipote e
allievo Antonio Bagnoli che meritoriamente in questi anni non solo ha
riproposto l'anastatica di «Officina» ma anche i suoi testi più introvabili per
giusto contrappasso a una bibliografia critica sempre troppo avara, se si
eccettuano gli storici contributi di Gian Carlo Ferretti e, da ultimo, la bella
monografia di Fabio Moliterni, Roberto Roversi. Un'idea di letteratura ,
Edizioni dal Sud 2003). Tuttavia Roversi, in primo luogo, è stato un poeta, uno
dei maggiori e più originali del nostro tempo. La poesia è il centro pulsante
del suo diorama artistico e intellettuale perché tutto procede da quel nucleo
riposto e bruciante mentre tutto e sempre fatalmente vi ritorna, in un ciclo
che il lettore percepisce alla stregua di una di una necessaria osmosi: è un
centro, un nucleo, ma si dovrebbe dire un fuoco del disamore e
dell'indignazione per lo stato di cose presenti che viene diramandosi nelle
spire di un poema e dunque nella vicenda ininterrotta della conoscenza di sé
tramite i conflitti squadernati nel mondo, o viceversa, dalle plaquettes
giovanili uscite dall'antiquaria bolognese Landi, ai libri della maturità (
Dopo Campoformio , '62, e, passate a un ciclostile che divenne mitico per i
giovani del Movimento, Le descrizioni in atto , poi in Tre poesie e alcune
prose. Testi 1959-2004 , a cura di Marco Giovenale, edite nel 2008 da Luca
Sossella, un altro dei suoi allievi) fino alle pluridecennali tranches che
confluiscono nel grande costrutto intitolato L'Italia sepolta sotto la neve
(AER Edizioni 2010). È una forma testuale, la sua, che esige piena integrità da
parte del lettore in quanto ne richiama, volta a volta, sensi, cervello e cuore
pure se ciò non equivale mai a una richiesta di complicità ma a una piena
partecipazione psicofisica. Per questo maestri e consanguinei di Roversi si
profilano in retrospettiva non solo gli interlocutori di lungo periodo (da Elio
Vittorini e Giorgio Bassani a Tonino Guerra, Italo Calvino e Leonardo Sciascia)
ma i classici che ha più amato e meditato, da Tommaso Campanella e Giordano
Bruno a Clemente Rebora e Piero Jahier o, nella Weltliteratur , Bertolt Brecht
e Paul Eluard, il cui titolo maggiore, Poésie ininterrompue , sembra scritto
infatti da Roversi o apposta per Roversi. D'altronde a chi ha avuto la fortuna
e il privilegio di incontrarlo fra gli scaffali della «Palmaverde», Roversi ha
sempre dato volta a volta qualcosa di essenziale, fosse solo una parola, un
moto di brusca inquietudine o di franco, non meno salutare, dissenso: per
restare ai poeti, fra gli altri ne era ben consapevole Giuliano Mesa, come lo
sanno Nicola Muschitiello e Giancarlo Sissa, Franco Buffoni, Mino Petazzini e
il più giovane Davide Nota, come lo sa Gianni D'Elia, il poeta che gli ha
dedicato nei decenni una attenzione e una riconoscenza senza eguali. Uno degli
amici di sempre, Pier Paolo Pasolini, aveva scritto nei Versi sottili come
righe di pioggia il proprio testamento sempre rammentato, alla maniera di una
insegna comune, dall'altro che col tempo sarebbe divenuto per lui un fratello,
Gianni Scalia: «Parla, qui, un misero e impotente Socrate/ che sa pensare e non
filosofare». In un simile ritratto chiunque riconosce il suo volto e ritrova il
senso dell'ascolto che Roberto Roversi ha saputo donargli. Nient'altro che il
pane spartito, e fraterno, della poesia.
DA IL MANIFESTO DEL 16 SETTEMBRE 2012
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