Marco Dinoi
Tra il “sembra vero”, con cui gli avventori del Grand Café accoglievano nel 1895 le prime proiezioni cinematografiche dei fratelli Lumière, e il “sembra un film”, con cui lo spettatore televisivo dell’attentato contro le Twin Towers ha reagito a quelle immagini, c’è forse un salto cognitivo che manifesta un aspetto della nostra epoca con cui già da tempo ci troviamo a fare i conti.
Tuttavia l’istantaneità con cui l’immagine che proveniva da New York si è insediata nell’immaginario, senza un intervallo di latenza, divenendo da subito un archetipo, propone una configurazione almeno parzialmente inedita. A questo si deve aggiungere che il “tempo reale” della trasmissione si sarebbe presto esteso ai giorni a venire, in una coazione a ripetere che ha prodotto una sospensione spazio-temporale decisiva per le modalità con cui ricordiamo ed elaboriamo il trauma.
Un altro tratto dell’immagine dell’evento: non solo l’abbiamo vista tutti, ma, come mai prima, avevamo la percezione sensibile che tutti la stessero vedendo nello stesso istante (almeno nell’emisfero occidentale), che non si potesse far altro che guardarla, e questo ci impone di ripensare una delle proprietà più rilevanti dello sguardo, la sua soggettività – l’immagine riempiva lo schermo senza lasciare scarti, zone d’ombra o di opacità, in cui lo sguardo potesse installarsi ed agire in modo almeno parzialmente autonomo. Per tutti questi fattori (che hanno operato insieme alla costellazione discorsiva estremamente semplificata in cui quella sequenza è stata innestata: “nulla sarà come prima”, “attacco all’America”, “attacco all’Occidente”…), l’immagine dell’evento 11 settembre può essere intesa come un passaggio al limite di alcune delle dinamiche interne al sistema dei media.
Le domande, allora, da cui l’indagine parte: che ne è della realtà, di ciò che esperiamo come realtà, quando la nostra percezione di essa si fa anche (o soprattutto) attraverso l’immagine mediatica? Quali sono le forme significanti con cui i media “vestono” l’evento, di volta in volta per amplificarne la portata cognitiva, per attutirla o comunque per gestirla? In che modo le immagini che i media producono dell’evento, che in quanto tale si inserisce nella realtà come una frattura, influenzano la sua memoria, e quindi la sua elaborazione (anche, ma non solo, nel senso in cui l’antropologo e lo psicanalista parlano di elaborazione del lutto)? Qual è il posto dell’Altro all’interno delle immagini mediatiche che siamo abituati a vedere (sempre che, a questo proposito, sia possibile individuare una tipologia morfologica e funzionale “stabile” di tali immagini)? Ogni capitolo del libro cerca di articolare una domanda, o meglio un nucleo problematico dove si addensano più domande, e di delineare delle ipotesi di risposta.
Quattro plessi problematici la cui analisi non può che essere provvisoria e locale, perché da una parte essa trova i suoi oggetti teorici in un panorama cognitivo in mutazione, dall’altra cerca di costruire un piano di intelligibilità che intersechi i quattro nuclei a partire dall’opera di alcuni cineasti che si sono confrontati con l’habitat comunicativo in cui viviamo o, nel caso degli autori che contribuiscono a 11’09’’01 (2002), direttamente con un evento che abbiamo vissuto anche come “mediatico”.
Negli “interludi” tra i capitoli mi occupo invece di configurazioni più interne alla teoria e alla critica del cinema, come possibili risposte alla messa in forma dei contenuti che vige tendenzialmente nei circuiti comunicativi “istituzionali”: l’utilizzo di una drammaturgia del colore che può arrivare a mettere in crisi la “pretesa referenziale” dell’immagine, la sua duplicazione del mondo; la zona di indeterminazione tra i macrogeneri della finzione e del documentario, nell’abbozzo che di tale problema è chiaramente rinvenibile in alcune opere, forse le meno ricordate, di Pier Paolo Pasolini; la relazione tra occhio e oggetto, e dunque tra soggetto e mondo, che è implicata nel meccano filmico.
È all’interno del campo concettuale così circoscritto che ho cercato di individuare le strategie che una parte del cinema contemporaneo oppone alle formule impiegate dalla sfera mediatica per organizzare le immagini neutralizzanti o normalizzanti dell’alterità (comunque la si voglia declinare) e, specularmente, quelle di una comunità di fatto introvabile (è uno degli insegnamenti di Hannah Arendt) – formule da cui ovviamente il cinema non è immune, e che anzi contribuisce a produrre ogni qual volta poggia le sue operazioni sul cliché.
Del resto l’attacco al World Trade Center è stato prefigurato proprio all’interno della produzione hollywoodiana che si suole definire “catastrofista” e quindi era già presente nella sfera immaginaria. Da tale angolazione prospettica questo studio non desidera aggiungersi alle pubblicazioni a cui l’evento 11 settembre ha dato luogo; esso infatti non aspira a darne una lettura sociologica, storica, economica… si cerca anzi di ribaltare o problematizzare uno degli assunti principali di alcune di queste analisi: il momento di crisi non è scientificamente utilizzabile per la ricostruzione di dinamiche di lungo periodo o per il rilevamento di caratteristiche sistemiche.
Cercherò di comprendere se l’evento ha realmente messo in crisi il sistema di produzione delle immagini, com’è sembrato logico che fosse, o se, al contrario, la sua “gestione” da parte dei media non sia stata una conseguenza di modalità operative che hanno prodotto una risposta da autodafé. In questo senso mi pongo quesiti più elementari (ma non per questo meno ambiziosi) rispetto a quelle ricerche: cosa abbiamo visto dell’evento? Come lo abbiamo compreso? Cosa rimane di esso? E soprattutto: quali opzioni alcuni cineasti hanno cercato di proporre per accogliere lo sguardo dell’Altro, per articolare una produzione di senso che contrasta la pervasività del cliché divenuto ormai doxa, per porre un argine alla logica dicotomica noi/loro, che sicuramente la lettura dominante dell’evento non ha prodotto, ma forse riattivato dandole nuova linfa? Più che risposte univoche, ho cercato strumenti per circoscrivere lo spazio problematico che tali domande implicano nelle filmografie di autori che mi sembrano interessati a modulare la loro pratica in relazione allo scenario cognitivo in cui si trovano a operare – scenario in cui i media, come produttori di immagini in senso ampio, hanno un ruolo determinante.
La variazione continua dello spazio logico che separa l’immagine e la cosa rinvenibile nell’opera di David Lynch, a fronte della tendenziale sostituibilità tra questi due poli che i media ci presentano, le stratificazioni all’opera nelle immagini che ci mostra Chris Marker in un intreccio ineludibile di etica ed estetica, a fronte dell’immagine monolitica che la televisione esibisce, ciò che è rilevabile nei film di Werner Herzog quanto alle possibilità di connessione dell’immagine occultate dalle nostre sclerotizzate abitudini ottiche che ci fanno percepire il mondo sempre uguale a se stesso… sono solo alcune delle strategie che costituiscono l’orizzonte concettuale che tento di disegnare nelle pagine che seguono. L’andamento rapsodico di alcuni riferimenti filmici si spiega, allora, anche con il tentativo di reperire delle rarità a fronte di un oggetto, l’immagine mediatica, che non è mai raro, ma sempre disponibile, sempre “consumabile” indipendentemente da chi sia il “cliente”, l’importante è che questi paghi in termini di attenzione e di disattenzione.
Serge Daney si è più volte soffermato sulle relazioni tra cinema e televisione, anche facendo esercizio della sua feconda ironia: «credo che per il XX secolo la bellezza del cinema sia stata quella di essere una gigantesca macchina asociale che, paradossalmente, ha insegnato a milioni di persone a vivere con gli altri, dunque in società, ma senza mai dimenticare che al mondo non c’è solo la società. Invece, quando non resta altro che l’orizzonte sociale, quando il mondo è scomparso, ci si trova imprigionati nella mediocrità del villaggio globale, e anche se questo villaggio è ultracomunicante resta sempre un villaggio. E un villaggio non ha bisogno di critica, ha bisogno di imbonitori, di ultras, di guardie campestri, insomma di televisione» [1].
È possibile che non si possa più trattare il cinema come un dispositivo, nel senso che Michel Foucault ha conferito a questo termine, per la rilevanza stessa che ha smesso di avere all’interno dell’orizzonte sociale, per la dimensione minoritaria che esso ha rispetto ad altre pratiche, ad altri media. Ma il cinema non è mai stato solo un medium, come lucidamente afferma Daney.
Il cinema che ci ri-guarda è stato e può essere uno strumento di esplorazione, una protesi sinestesica, una lente anamorfica… un interlocutore, tutte queste cose, altre e forse una tassonomia è ancora da fare. Lo schermo non è (solo) lo specchio. Di volta in volta il film e il suo spettatore assumono una relazione diversa – non può che essere così quando non ci troviamo di fronte alla concatenazione di cliché che la “mediasfera” ci offre; ma è chiaro che di questo si tratta, di una relazione.
Allora, ancóra, un certo cinema, quello di Roberto Rossellini, di Abbas Kiarostami, di Michelangelo Antonioni, di Michael Haneke, di Orson Welles…, ci ri-guarda perché ci mette in relazione con l’Altro e con il mondo, in un mondo, qual è il nostro, in cui la logica posizionale fa di ognuno il punto di snodo assolutamente intercambiabile di una rete di connessioni, di una mappa che diventa territorio; alcuni cineasti ci ricordano, come i geografi, che questo orizzonte non risponde alla nostra esigenza di mondo, di movimento, di tempo.
Solo l’altro ieri, nel 1958, Luis Buñuel poteva affermare, parafrasando Octavio Paz: «basterebbe che la palpebra bianca dello schermo riflettesse la luce che le è propria, per far saltare l’universo. Ma per il momento possiamo dormire tranquilli poiché la luce cinematografica è convenientemente dosata e incatenata. In nessuna delle arti tradizionali c’è una sproporzione così grande fra possibilità e realizzazione come nel cinema» [2] ; e ieri, nel 1986, Andrej Tarkovskij manifestava una smisurata fiducia perché il cinema era appena agli inizi e la strada delle sue sperimentazioni sarebbe stata tanto lunga quanto fertile. [3] Ancóra, esplorando i limiti del visibile nel cuore del visibile, alcuni cineasti tendono a sottrarsi (e a sottrarci) alla medietà spettacolare dei tempi, per mettere in scena, ancóra, lo sguardo e il mondo, per concepire gli strumenti di una riappropriazione dell’uno e dell’altro.
Note
[1] Serge Daney, L’Exercice a été profitable, Monsieur, Éditions P.O.L., Paris 1993, tr. it. di E. Nosei e S. Pareti, Il cinema, e oltre. Diari 1988-1991, Il Castoro, Milano 1997, p. 225.
[2] Luis Buñuel, Obra literaria, a cura di Augustín Sánchez Vidal, tr. it. di D. Pini Moro, Scritti letterari e cinematografici, Marsilio, Venezia 1984, pp. 169-170
Fonte: http://associazionelevel5.com/
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