03 settembre 2012

Ricordo di Carlo Alberto dalla Chiesa.







Il 3 settembre 1982 in via Carini a Palermo venne assassinato il Prefetto dalla Chiesa, insieme alla moglie e all’agente Domenico Russo.
Per ricordare la strage  il periodico AntimafiaDuemila ha intervistato il sociologo Nando dalla Chiesa, figlio del Generale.





Prof. dalla Chiesa, quest’anno ricorre il trentennale della morte di suo padre, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Una storia, la sua, da ricordare non soltanto per fare memoria, ma perché è sicuramente un paradigma di gestione del potere nel nostro Paese. Nel libro “Delitto imperfetto” lei scrisse che quell’assassinio “aprì uno squarcio sconvolgente sulla vera natura” di quello stesso potere. A distanza di trent’anni, secondo lei, cosa è cambiato?
Non si può dire che sia cambiato molto dal punto di vista della concezione del potere, mentre tanto è cambiato, secondo me, sul fronte della lotta alla mafia. Da allora si sono fatte delle conquiste, si sono raggiunte delle realizzazioni importanti, basti pensare che quando mio padre è andato a Palermo era proibito persino pronunciare la parola mafia. E fu una rivoluzione che lui lo facesse davanti alle istituzioni, alla commemorazione del colonnello Russo (tra gli uomini di fiducia di dalla Chiesa, ucciso dalla mafia nel 1977 ndr.) e che andasse nelle scuole a parlarne. Tanto che per certi ambienti questo rappresentò una rottura, perfino un trauma. Parliamo infatti di un periodo in cui i mafiosi venivano quasi sempre assolti per insufficienza di prove, i latitanti non venivano presi ed erano i giudici a dover vivere come latitanti, rinchiusi, per esempio, all’Asinara a scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio del maxiprocesso. Un movimento antimafia, all’epoca, non esisteva, nacque dopo e non c’erano delle leggi che consentivano di colpire con efficacia i boss: la stessa legge Rognoni-La Torre venne approvata in seguito al suo assassinio. I cambiamenti, quindi, ci furono ma costarono fatica e morti, senza retorica. E ad essere smascherata è stata anche la pretesa di legittimità del potere mafioso: quello che dà lavoro, che fa giustizia più velocemente, che garantisce l’ordine mentre nelle altre regioni d’Italia c’è il terrorismo. Una pretesa, quindi, di autolegittimazione, di legittimazione e al tempo stesso di invisibilità: in certi momenti la mafia non esiste, non si sa che cosa sia, forse una mentalità.
E il rapporto della mafia con la politica?
Se è vero che abbiamo tirato giù questa maschera, vero è anche che due cose sono rimaste. La prima è il primato del principio di convenienza rispetto alle leggi che si è affermato anche al nord e questo finisce per compensare i passi avanti che sono stati fatti. Se il nord si fosse dimostrato impermeabile alle organizzazioni mafiose il lavoro fatto con il sud ora ci consegnerebbe uno scenario molto diverso. La seconda cosa è appunto la tentazione, la tendenza di settori ampi della politica a considerare la mafia una risorsa, qualcosa che dà i voti, che aiuta nei momenti decisivi, anche economicamente. Lo abbiamo visto di recente a Torino, dove si è chiesto il suo appoggio perfino per vincere le primarie di un partito. Quando parlo di politica mi riferisco, lo sottolineo, alla politica nazionale perché da parte degli amministratori del nord noto invece un momento nuovo, una disponibilità, finalmente, a impegnarsi. Ma la politica nazionale no. A quel livello si guarda alla mafia come a una risorsa o la si vive con grande, sovrana, indifferenza. Al di là delle emergenze, dei casi clamorosi, non c’è stata una volta che la si sia indicata come una vera priorità nell’agenda politica. Sostanzialmente alla politica non gliene frega niente. L’ho toccato con mano anche alla manifestazione di Libera, a Genova, lo scorso 17 marzo. Insieme a quelle centinaia di familiari di vittime di mafia che scendevano verso il porto, circa 500, non c’era un segretario di partito, non c’era un leader politico di primo o di secondo livello, come a dire: “A noi di quel pezzo di storia insanguinata del Paese non ce ne importa nulla”. Ecco, in questo senso da trent’anni a questa parte non è cambiato molto. Ad accompagnare quei grandi passi in avanti ci sono ancora delle resistenze, delle vischiosità pazzesche e allora viene da chiedersi: ma dove vivete? Ma chi siete? Ma che Paese volete? In che Stato credete? E sono domande che non rivolgo soltanto ai corrotti e ai mafiosi, ma anche ai non corrotti e ai non mafiosi .
La storia di suo padre, quella di altri martiri della Giustizia, così come le indagini in corso sulla cosiddetta trattativa di cui sono piene le cronache di questi giorni ci dimostrano che non possiamo considerare la mafia un nemico che sta dall’altra parte della barricata, l’antistato. È piuttosto un potere con cui lo Stato ha sempre mantenuto una relazione organica e stabile. Da Portella della Ginestra in poi.
C’è sempre questa quota di mistero dentro il nostro potere, di segreto. Io penso che ogni Stato, è chiaro, debba amministrare dei segreti, fa parte della natura del potere, ma erigerli a norma di condotta diventa negazione della democrazia, del potere democratico. Uno stato al cui interno il mistero e il segreto ricorrono con questa frequenza, non si sanno le cose, non si scoprono, dimostra chiaramente di non saper indagare su se stesso. Certe volte, quando vinciamo, quando si realizzano certi obiettivi mi vien da dire: “Finalmente lo Stato si è infiltrato nella mafia”. Ovviamente è una battuta, ma vuole dare il senso della difficoltà. E in questi casi in certi ambienti si arrabbiano. Perché non sanno più come guardarsi da questi strani funzionari, strani magistrati, strani poliziotti che credono davvero che lo Stato esista e vada messo al primo posto.
Secondo lei cosa fece più paura di suo padre, tanto che se ne decise l’eliminazione a soli cento giorni dal suo arrivo in Sicilia?
La consapevolezza del potere che andando lì e lottando contro la mafia mio padre avrebbe smantellato un sistema. La criminalità organizzata certamente lo temeva perché aveva avuto modo di misurarne la capacità e la inavvicinabilità sin dai tempi in cui aveva ricoperto l’incarico di capitano a Corleone e di colonnello a Palermo, dal ’66 al ’73. Ma penso che abbia contato anche qualche sua dichiarazione di rilievo, fatta prima di andare in Sicilia: che non avrebbe avuto rispetto per i grandi elettori di Andreotti lo disse allo stesso Andreotti; a Spadolini mandò la lettera in cui scrisse che “la famiglia più inquinata del luogo mi sta mandando dei messaggi”; quindi annunciò che sarebbe stato un prefetto per nulla legato o condizionato dalle amicizie o dalle relazioni di tipo politico che aveva acquisito negli anni della lotta al terrorismo. Per lui, quelle, non sarebbero state un vincolo. E chi lo ha visto lottare contro il terrorismo a quel punto sicuramente pensò: “Se fa la stessa cosa contro la mafia ci smantella un sistema di potere”. E tanto più non poteva essere smantellato quanto più quel sistema conteneva già dei segreti. Alcuni dei quali Andreotti conosceva perché, per esempio, sapeva chi aveva ucciso Mattarella. Quello di mio padre è stato quindi un delitto mafioso e politico al tempo stesso, non ci sono dubbi. Né soltanto l’uno, né soltanto l’altro.
Lei cosa pensò quando suo padre raccontò in famiglia del colloquio privato con Andreotti che fece sbiancare il volto del politico?
Pensai che era normale che Andreotti si fosse allarmato, vista la potenza della sua corrente in Sicilia, visto che quello era il suo serbatoio di voti. E pensai che era chiara quella opposizione sorda del potere politico di fronte alla quale lo stesso ministro dell’Interno che stimava mio padre, Rognoni, evidentemente non riuscì a fare nulla. Perché dentro il partito l’opposizione era gonfiata, tra l’altro alimentata dalla convinzione che mio padre sarebbe andato lì a colpire la Dc. Questo girava nei corridoi e nelle stanze di Palazzo. Non credevo però, lo ho sempre detto, che lo avrebbero ucciso e per una ragione: siccome c’era stato di fatto un dibattito pubblico sul suo assassinio, che era durato quattro mesi, pensavo: “Se lo uccidono ci mettono la firma”. Ero ingenuo, non sapevo ancora che invece in Italia si uccide e si mette la firma e la gente si rifiuta di leggere la firma.  Loro invece questo lo sapevano, sapevano che la gente si rifiuta di leggere la firma. Quando io feci i nomi fu il finimondo. Quell’atto l’ho pagata tutta la vita.
Ventuno anni dopo la strage di via Carini il boss di Brancaccio Guttadauro viene intercettato mentre a un altro uomo d’onore, Salvatore Aragona dice che a loro, a Cosa Nostra, non interessava quell’assassinio e aggiunge: “E che perché glielo dovevamo fare qua questo favore…”. Viene chiaramente da chiedersi: un favore a chi? La risposta dobbiamo cercarla nel contesto che lei ha sin qui descritto?
Assolutamente sì. Non c’è una risposta particolarmente difficile. E’ chiaro, come disse Falcone, che una delle motociclette utilizzate nell’agguato è stata rubata a giugno e in quel periodo che cosa poteva aver misurato la mafia della presenza di mio padre in Sicilia? Aveva la memoria, certo, ma non sapeva se lui sarebbe andato lì a trascorrere due anni in attesa di fare il ministro degli Interni, come si diceva, o di andare al consiglio di Stato o di avere una carica onorifica. Non lo sapeva, ancora non lo aveva capito. Tanto più che mio padre si stava sposando, aveva una nuova moglie ed era facile ipotizzare che l’ultimo dei suoi pensieri potesse essere la lotta alla mafia. La scelta di ucciderlo nacque invece dalla consapevolezza che avrebbe creato dei problemi e da una sollecitazione di ordine politico. Come dicevo prima: dalla paura che lui potesse smantellare un sistema. E guardi che in Italia per queste cose si uccide.  D’altra parte l’omicidio Notarbartolo, alla fine dell’Ottocento, rientrava nella stessa logica: se fosse diventato direttore del Banco di Sicilia avrebbe smantellato il sistema di potere crispino. E Crispi non se lo poteva permettere in quel momento in cui stava cercando di far fuori Giolitti per lo scandalo della Banca romana.
Secondo lei quanto può aver inciso nella decisione dell’eliminazione di suo padre e dell’onorevole Pio La Torre la particolare intesa che era sorta tra loro due, tanto che suo padre disse: “Tra me e La Torre in un paio d’anni le cose più importanti dovremmo riuscire a farle”?
Penso che quella fosse una coppia che avrebbe dato grande filo da torcere e questo la mafia lo aveva capito. I loro erano destini paralleli, vite parallele anche se non vissute da vicino, ma che si rincontravano, si riannodavano da posizioni diverse. Senza fare l’elenco di tutti quelli che se fossero rimasti vivi avrebbero spazzato via la mafia in pochi anni, provi solo a immaginare una Palermo in cui il Prefetto è dalla Chiesa e il segretario del partito d’opposizione il deputato Pio La Torre.
Per il lavoro che aveva svolto all’interno dell’Arma suo padre era detentore di molte informazioni e, secondo alcune ipotesi giornalistiche, di pesanti segreti sul diario di Aldo Moro, ritrovato nel covo delle Br di via Monte Nevoso a Milano. Furono gli uomini di suo padre ad effettuare la perquisizione ed è un fatto che quei documenti non furono mai recuperati in forma completa e che in quello stesso appartamento, 12 anni dopo, furono scoperte altre pagine del memoriale dal contenuto scottante. Qualcuno ha ipotizzato che fosse stato suo padre a sottrarre e a nascondere quei documenti. Lei che idea si è fatto in merito?
Si figuri se non ci ho pensato e se non ho cercato di capire l’inverosimile in questa storia. Io non ci credo. Così come non credo che mio padre sia stato mandato a Palermo perché fosse ucciso e non lo credo per un motivo molto semplice: dai suoi diari si rileva l’isolamento all’interno nell’Arma e il conseguente desiderio di avere un incarico operativo, che chiese lui al Governo quando andò a Roma come vicecomandante. E infatti gli vennero proposte la prefettura di Palermo, la prefettura di Napoli o la direzione delle carceri. Quindi fu lui a darsi da fare per avere un incarico diverso, bisogna chiedersi casomai perché fosse isolato dall’Arma, ma questo è un altro problema. Tornando alle carte di via Monte Nevoso dico che è assurdo pensare che fosse lui a custodirle e ho cercato di spiegarlo tante volte. Sia per la sua deontologia, ma anche per una questione puramente logica, si metta nei suoi panni: se lei fosse comandante della lotta al terrorismo, nominato da Andreotti, in una situazione come quella che si è presentata in via Monte Nevoso cosa farebbe? Sottrarrebbe delle pagine da un documento immaginando un Andreotti così scemo da non accorgersene? È pazzesco. A parte il fatto che mio padre non avrebbe avuto il tempo, perché andò subito a Roma, ma, tornando al nostro esempio: se io intendo tutelare i miei interessi e voglio rimanere in un incarico di prestigio mai più cerco di nascondere delle cose alla persona che mi ha nominato e che so essere di un’intelligenza politica superiore o molto superiore alla media. Ma neanche a un mio laureando potrei dire ti do un libro con quattro pagine in meno, se ne accorgerebbe che non ci sono. In conclusione: chi dice questo pensa, così facendo, di alzare il livello di denuncia politica. Ma la denuncia politica più forte è quella che faccio io: c’è un sistema che decide di uccidere il prefetto dalla Chiesa perché sa che sarà scombussolato e sarà fatto saltare dalla sua presenza. Non c’è bisogno di nessuna carta per capirlo questo. E poi di che documenti parliamo?
Di quelli che rivelano l’esistenza di Gladio.
Ma di Gladio mio padre non sapeva nulla, non me ne ha mai accennato. Lui non è che parlasse molto in genere, ma negli ultimi tempi parlava. Nel corso dell’ultima vacanza che abbiamo trascorso insieme per la prima volta mi raccontò delle cose, perché si sentiva solo, perché sapeva che io capivo, perché era materia che avevo studiato, di cui avevo già scritto, non stava parlando con uno sprovveduto, ma a questo non mi ha mai fatto cenno. Quando mi dice di Andreotti che è sbiancato in volto e degli andreottiani che ci sono dentro fino al collo mi sta dicendo una cosa importante, potrebbe aggiungere Gladio, ma non lo fa. Ritengo quindi che questa sia una tesi che si è affermata tra i giornalisti, tra gli studiosi, ma, ripeto, è molto più grave quello che dico io: il delitto è politico. Non perché lui avesse in tasca qualche segreto, ma perché la politica è capace di uccidere il generale dalla Chiesa per non vedere incrinato il proprio potere su un’isola. Ma più grave di questo che cosa bisogna dire?
Rispondiamo alla domanda rimasta in sospeso: perché, secondo lei, suo padre era isolato all’interno dell’Arma?
C’erano delle ragioni diverse. Da un lato era maturata molta invidia nei suoi confronti, diffidenza, che poi hanno pagato anche molti dei suoi ufficiali. Perché gli uomini di dalla Chiesa non hanno avuto vita facile, alcuni di loro, soprattutto quelli più vicini a lui, sono stati guardati con sospetto e sarebbe giusto che avessero almeno l’onore della memoria o un riconoscimento. C’era, per esempio, il comandante generale Cappuzzo, che gliene aveva fatte vedere di tutti i colori e che era stato pure senatore andreottiano o il capo di stato maggiore De Sena, che negli anni successivi venne accusato, anche se poi fu assolto, di concorso in abuso d’ufficio aggravato dalla circostanza di aver favorito l’organizzazione camorristica facente capo al boss Carmine Alfieri. Questi sono gli uomini che aveva intorno mio padre.
Dalla Chiesa si inserisce quindi in un ambiente che è già strutturato e molto diffidente verso di lui. E che  lo vede come un animale strano, con i suoi reparti speciali, i suoi successi, che viene considerato un eroe nazional-popolare e per questo lo invidia.
Cosa pensa del fatto che probabilmente il giorno della strage ci fu qualcuno che dall’interno della prefettura fornì ai sicari informazioni sugli spostamenti di suo padre indicando anche il mezzo, la A112, su cui era salito insieme a Emanuela Setti Carraro?
Io penso, anzi sono sicuro che ci fossero delle talpe in prefettura. Mio padre, a me, lo aveva già rivelato.  Il commissario Di Francesco, che venne subito dopo di lui, smentì invece in modo assoluto la loro presenza e i fatti non gli avrebbero dato ragione poiché si dimostro che invece le talpe c’erano. Quindi, quel giorno, c’è stato sicuramente un collegamento con la prefettura che fornì informazioni sui suoi spostamenti, sugli orari…
Oltre che dall’interno dell’Arma suo padre, come abbiamo già sottolineato, ha ricevuto un forte segnale di isolamento anche dal mondo politico. È per uscire da questa pericolosa solitudine che chiese la famosa intervista a Bocca? Lui che non amava farsi intervistare.
Si sentiva isolato e per questo cercò di trovare degli alleati per lui inconsueti. Dimostrò una grande bravura politica in questo. Il rapporto che cerca con le scuole, con i genitori dei tossicodipendenti, con i sindacati rientra in questo ragionamento. Lui coglie il silenzio delle istituzioni e va oltre, rivolgendosi all’interno di quelle stesse istituzioni e rappresentandole.
In seguito alla morte di suo padre, così come a quelle di uomini di Stato come lui, scatta la reazione della società civile, che poi man mano si assopisce e tutto sembra sempre tornare come prima. Viene da chiedersi, magari con un po’ di retorica, se ne vale la pena.
Io penso che ne valga la pena. Naturalmente è necessario sapere, fuori da ogni illusione, che per avete 10 bisogna dare 100.
Cosa le manca di più di suo padre? Qual è l’insegnamento più importante che le ha lasciato?
Il valore delle istituzioni. Che le istituzioni devono essere messe al di sopra di tutto: sopra gli interessi di partito e sopra i propri interessi personali.
Quando, con i ragazzi delle scuole, parliamo di suo padre o di altre vittime della mafia ci viene spesso chiesto che rapporto avevano loro con la paura. Giro a lei questa domanda: che rapporto aveva suo padre con la paura?
Glielo chiese un ragazzo, al liceo Garibaldi, e lui rispose: “Anche se ce l’ho non la devo far vedere. Me la devo tenere”. Queste persone sanno che corrono dei rischi e cercano di ridurli, ma non confessano i loro timori. Per questo motivo io ho ormai una idiosincrasia per queste esibizioni di scorte, di eroismi, perché le persone veramente eroiche le ho conosciute. E non esibivano. Anzi, cercavano di far credere agli altri di poter avere una vita normale, li incoraggiavano a pensare che la lotta alla mafia, la lotta al terrorismo fosse una cosa a disposizione di tutti. Altrimenti uno ha la soddisfazione di diventare un mito, gli altri applaudono e dopodiché non si fa un passo avanti.
Cosa ricorda maggiormente del giorno della strage e di quelli che seguirono.
Ricordo soprattutto questa voglia di Palermo, della Palermo istituzionale, di liberarsi di lui. Mai un funerale è stato fatto così in fretta: viene ucciso alle 21.10, 21.15 del 3 settembre, il giorno successivo, alle 16.00 si celebra la funzione e nemmeno 24 ore dopo la salma è già a Milano. Non lo hanno lasciato nemmeno un giorno al popolo palermitano. Ma anche se le istituzioni fecero di tutto per muoversi alla chetichella non riuscirono ad evitare il lancio di monetine, gli insulti, la rivolta del popolo davanti alla chiesa. Quella piazza era strapiena e loro furono costrette a scappare.
Ha qualche rimorso per qualcosa che non ha fatto o non ha detto a suo padre nei giorni che precedettero la sua morte?
In questi casi quel che si vorrebbe fare, e non si può più, è ringraziare quella persona per tutta la sua vita.
Dopo la morte di suo padre anche lei si è sentito abbandonato dallo Stato.
Lo Stato ha abbandonato lui e poi anche me, io sono stato in quella continuità e soprattutto perché ho fatto quella denuncia, che mi è costata veramente tanto. Dovevo farla e la rifarei, ma credo che nessun familiare di vittima sia stato guardato con tanta diffidenza come me. Successivamente nei rapporti con le istituzioni ho cercato di stabilire dei collegamenti con le persone perbene e sono riuscito ad avere delle amicizie, a custodire delle relazioni, ma il potere ha una memoria da elefante ed  è di tipo impersonale. Non pensa: il prefetto dalla Chiesa non c’è più, il problema è risolto, no. Il potere tramanda le ostilità. E se uno cerca pure di tenere fede al principio secondo cui le istituzioni valgono di più dei partiti, nel momento in cui si mette a far politica o arriva in parlamento è visto con sospetto.
(3 settembre 2012)
Tratto da: ANTIMAFIADuemila  n°69




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