Sottopongo alla vostra attenzione
un articolo di Rino Genovese che sinteticamente analizza la famiglia italiana
nella sua realtà e nella sua ideologia.
La famiglia italiana
La famiglia in Italia non è un semplice sottosistema
all’interno del più ampio sistema della società, secondo una definizione tipica
della teoria sociologica. E neppure un istituto da studiare nei termini della
celebre triade hegeliana famiglia-società civile-Stato. È molto di più: è il
cuore stesso di quella che può essere detta l’ideologia italiana.
Che cosa s’intende per ideologia? Ci sono significati
del termine differenti tra loro, e qui sarebbe impossibile prenderli in esame.
L’uso che ne propongo è comunque circoscritto. Ideologia sono le abitudini e i
costumi più o meno tradizionali in quanto vissuti emotivamente dall’interno,
così da permeare la vita sociale degli individui. Se il concetto di cultura,
nel suo senso antropologico, descrive le usanze e i costumi mediante uno
sguardo dall’esterno, nelle loro differenze o analogie rispetto a quelli
di altre culture, l’ideologia considera queste usanze e questi costumi come un
orizzonte intrascendibile, avvertito in quanto tale dagli individui stessi: un
insieme di credenze per lo più tacite, scontate, mai messe in questione, che
fanno da sfondo alla loro identità.
In Italia l’orizzonte intrascendibile è dato dalla
famiglia. Negli altri paesi europei ci si trova di fronte a una molteplicità di
elementi riconducibili, in fin dei conti, all’individualismo occidentale
moderno, spesso di matrice protestante, capace di staccare il singolo dai
vincoli della parentela per proiettarlo nella società. Inoltre l’istituzione
statale, configurando le relazioni sociali in modo giuridico astratto,
raffredda le forme di vita permeate affettivamente, come in genere quelle
comunitarie. Invece in Italia – risultato di una storia di lunga durata
sedimentata in una peculiare antropologia culturale (si pensi, ed è fin troppo
ovvio, al modo in cui si è costituito lo Stato unitario, senza un’autentica
partecipazione popolare, con un’immediata e ormai irrimediabile frattura tra il
Nord e il Sud del paese) – l’individualismo occidentale moderno ha sempre
contato poco, nonostante nei manuali di storia si legga che il Rinascimento fu
la prima affermazione dell’individuo; laddove, più precisamente, si dovrebbe
dire del particolarismo inteso come sentimento forte dell’ambiente
familiare e del proprio patrimonio. Il familismo italiano, infatti, così come
ancora oggi lo conosciamo, proviene dal Rinascimento.
Per conseguenza quasi meccanica, la vita sociale
italiana è stata presa in esame di solito nei termini di una storica
arretratezza nei confronti dei paesi europei più sviluppati e moderni. Oggi
sappiamo che non è così. Anzitutto c’è un’origine quattro-cinquecentesca, ai
suoi tempi protomoderna, del particolarismo italiano che dovrebbe far
riflettere: non di una semplice arretratezza si tratta ma di una modernità
bloccata, di un carattere a suo tempo dinamico ma fermato lì, sospeso
nell’aria. La città Stato riattivava e insieme depotenziava alcuni aspetti
dell’antica polis greca, istituendo un modus vivendi con
l’autorità imperiale e papale che di fatto impediva allo “spirito civico” di
guardare politicamente al di là del proprio campanile. E ciò nell’interesse
patrimoniale di poche famiglie dominanti.
Se poi, con un salto di alcuni secoli, ci volgiamo ai
decenni appena trascorsi, vediamo che esiste – o almeno è esistito, prima
dell’attuale crisi – un modello italiano di sviluppo basato sulla
famiglia. Il sistema mezzadrile – imperniato sul ruolo del pater familias,
sul lavoro dei figli, della moglie, spesso dei parenti acquisiti – con il tempo
si è convertito nella piccola e media impresa diffusa nel Centro del paese,
zona in cui quella forma di rapporto agrario era massicciamente presente, e per
estensione nell’ormai famoso Nordest. La famiglia contadina si è trasformata,
senza soluzione di continuità, in una famiglia di tipo imprenditoriale: in
controtendenza rispetto a tutto ciò che di solito s’intende come
industrializzazione e modernizzazione. Con la rivoluzione industriale, infatti,
la famiglia avrebbe dovuto perdere il suo carattere di unità produttiva; la
produzione si sarebbe svolta essenzialmente altrove, nella fabbrica. E così è
stato per un breve periodo anche in Italia, almeno per quanto riguarda le
grandi città del Nord, soprattutto tra gli anni cinquanta e sessanta del
Novecento, all’epoca della grande emigrazione interna dal Mezzogiorno.
Successivamente, con una specie di passo del gambero, il modello della piccola
e media azienda ha riproposto la famiglia come unità produttiva, tutt’al più
allargata a un esiguo numero di dipendenti. La cosa è in sé paradossale:
perché, con il declino dell’industria pesante e la fine della centralità della
fabbrica, quella che sembrava una sopravvivenza del passato tipica di una fase
precedente della storia del capitalismo, si è rivelata, nel clima postfordista
dell’impresa diffusa sul territorio, un modo di organizzazione della produzione
apportatore di sviluppo – almeno fino all’impasse attuale del modello.
Se a ciò si aggiunge che persino il grande capitalismo, in Italia, è stato un
capitalismo familiare più che manageriale, il quadro allora è completo. Il
familismo non è “amorale”, secondo la celebre espressione di Banfield, ma in se
stesso fin troppo morale: a posteriori si palesa qui il sottile razzismo che,
negli anni cinquanta, aveva indotto il sociologo americano a limitarne il
fenomeno all’Italia meridionale (in particolare mediante lo studio di un
paesino della Basilicata). Ma con il familismo ubiquitario italiano, a Nord
come a Sud, sia pure in modo ineguale, ci si sviluppa economicamente, non si
progredisce in senso morale e civile (volendo tener fermo, quasi
provocatoriamente, al vecchio binomio démodé di marca illuministica).
Se la donna italiana è oggi la più oppressa tra le
donne europee, economicamente e moralmente, ciò non può che essere messo sul
conto del familismo. Sviluppo in certi momenti anche accelerato, ma progressi
lenti e scarsa emancipazione. In un bel libro degli anni settanta, neanche
troppo datato a rileggerlo oggi, Laura Balbo (Stato di famiglia, Etas
Libri, Milano 1976) individuava nel nesso tra le risorse e i bisogni – produrre
e organizzare risorse per il soddisfacimento dei bisogni – il centro nevralgico
del ruolo svolto dalla famiglia in un tardocapitalismo basato sui consumi.
L’autrice sottolineava come la società dell’abbondanza avesse comunque sempre
nel privato, cioè nel nucleo familiare, il momento della gestione delle
risorse; e come – in modo particolare in Italia, a causa della debolezza
strutturale dei servizi pubblici – quella gestione pesasse soprattutto sulle
donne come dispensatrici di servizi in famiglia: dal “classico” lavare, stirare
e preparare i cibi, fino al coordinamento di attività come pagare le bollette o
portare e andare a riprendere i figli a scuola. E ciò svolgendo talvolta anche
un’attività lavorativa fuori casa – sebbene le tabelle riportate nel volume
mostrino, già nel fatidico 1968, una netta flessione e un’espulsione della
forza lavoro femminile dalle fabbriche.
Da un punto di vista teorico, diversamente da quanto
potesse pensarne a suo tempo Balbo, il familismo segna uno scarto rispetto alla
distinzione concettuale marxista tra la struttura e la sovrastruttura. Esso può
essere pensato, infatti, come un’ideologia strutturale: una formazione
di tipo totalizzante, un insieme di affetti, di credenze, di desideri, di
fantasmi che sono immediatamente economia capitalistica perché tutt’uno con il
modo di produrre e di consumare, con il soddisfacimento privato dei bisogni.
L’ideologia della famiglia opera a trecentosessanta
gradi, ricoprendo quindi, al di là della sfera produttiva, quella dei servizi e
dei consumi in generale. Mentre nell’idea europea dello Stato sociale
s’intravede una rottura, sia pure parziale, della dimensione privata che,
aprendo al servizio pubblico, apre in una certa misura al consumo collettivo, è
consustanziale al welfare italiano un che di casereccio, fondato non
tanto sulla razionalizzazione (e burocratizzazione) statale quanto sul ruolo di
supplenza affidato alla famiglia. La chiave per comprendere l’enorme corruzione
italiana è naturalmente qui: nell’intreccio tra servizio pubblico e interesse
privato. È la famiglia stessa che si fa welfare proiettando fuori di sé
il suo carattere immediatamente comunitario, non il rapporto tra lo Stato e i
singoli cittadini ad assumere una valenza sociale. Per conseguenza le mafie
prosperano in quanto famiglie allargate e reti di famiglie, che solo nella
scelta criminale differiscono dalle altre, di tipo nucleare, che si limitano a
far parte di sistemi clientelari e di lobbying. È provato che in Italia,
più che negli altri paesi europei, per trovare un lavoro, soprattutto in una
situazione di scarsità come quella odierna, bisogna rivolgersi ad amici e
parenti. Ciò contribuisce fortemente a mantenere il controllo sociale su strati
della popolazione, soprattutto giovanile, che altrimenti potrebbero rivoltarsi
o comunque prendere la strada della protesta politica. Famiglie e mafie
garantiscono insieme l’ordine sul territorio.
Le ricadute sulle principali ideologie politiche
occidentali, come il liberalismo e il socialismo, e più in generale sulla
democrazia, sono notevoli. La mancanza di un vero individualismo moderno in
Italia ha due aspetti solo apparentemente antitetici: il primo riguarda il
deficit di competitività e concorrenza in tutti i settori della vita sociale,
quasi per nulla toccati dalla cosiddetta meritocrazia; il secondo la scarsa
possibilità di trascendere questi tratti capitalistico-mercantili verso un
individualismo sociale basato sulla cooperazione e la solidarietà. La debolezza
dell’uno è la debolezza dell’altro. Se al centro della vita sociale e delle sue
cure non è posto il principio dell’individuo alla ricerca di una realizzazione
delle proprie potenzialità, senza distinzioni di nascita o di genere, non sono
possibili né una politica liberale né una politica socialista. Gli esiti sono o
familistico-cattolici o familistico-populistici. È quanto si è visto in Italia
negli scorsi decenni, a parte rapidi scorci: o la famiglia come perno centrale
indirizzata dal cattolicesimo politico in una chiave liberaldemocratica molto sui
generis, o la famiglia come perno centrale orientata in maniera più chiusa
sul territorio, secondo la versione populistica. Il Veneto con la sua storia è
la regione esemplare di ambedue le formule politiche, anche nelle loro
combinazioni e contaminazioni reciproche.
In questo senso, insistendo sulla cosiddetta società
civile, sulle virtù del volontariato e dell’impegno civico, non si coglie la
funzione di supplenza (a dir poco) esercitata nei confronti dello Stato sociale
da una famiglia totalizzante. Che la cura degli anziani e degli ammalati sia
affidata ai nuclei familiari, spesso con l’aiuto di lavoratrici immigrate mal
remunerate, è tipico di un welfare “fai da te”. Il familismo si prende
la sua vendetta contrapponendosi ogni volta che può allo Stato (per esempio con
l’evasione fiscale), e tendendo a inglobare anche l’autorganizzazione e
l’autogestione, che pure sarebbero forme della socialità solidale, nel
parassitismo ai danni della cosa pubblica. Ciò rende particolarmente difficile
la soluzione del rebus italiano. C’è uno sbilanciamento continuo, sia pure
magari solo retorico, verso la ricerca di una maggiore competizione e
concorrenza; in reazione, però, l’effetto è il riaggiustarsi dei gruppi
familistico-lobbystici pronti a resistere al cambiamento. Rassegnandosi alle
tradizionali chiusure corporative (tenaci, per esempio, nel settore degli
ordini professionali), si lascia allora a una società civile cieca, al “regno
animale dello spirito” familistico, quel mutamento che, comunque distorto, in
un modo o nell’altro sopravviene. Soltanto un conflitto sociale aperto e
plurale potrebbe risolvere il rebus, ridistribuendo le carte a giocatori essi
stessi trasformati nel corso del gioco. Ma ciò – lo si vede – sconfina
nell’utopia.
Un tempo si riteneva che l’utopia fosse la
pacificazione di tutti i conflitti: ma in Italia, qui e ora, utopia è piuttosto
il conflitto sociale dispiegato su larga scala. Con uno Stato di diritto debole
(si pensi alla violenza poliziesca così tipica del “carattere italiano”,
essenza – si potrebbe dire – del suo fascismo sempiterno), con uno Stato
sociale da sempre inefficiente che oggi non sta migliorando ma riducendo le
prestazioni, soltanto un impetuoso vento di rivolta sociale potrebbe spingere
al cambiamento. Il fatto che la falsa rivoluzione di Tangentopoli, vent’anni or
sono, sia stata prodotta dal sistema giudiziario, cioè dall’esterno del sistema
politico, con gli esiti berlusconiano-qualunquistici che si sono visti,
dovrebbe far riflettere. L’ideologia italiana ha lavorato in profondo così da
rodere le radici stesse della politica, che solo da zero potrebbe ripartire
riprendendo il filo di un’idea di politica come mediazione e compromesso, in
senso alto, tra le componenti plurali di movimenti sociali autorganizzati; e
ritrovando, da qui, perfino la funzione e il senso di un partito politico di
sinistra.
Senza questa palingenesi (l’ironia del termine va
sottolineata, perché sarebbe sufficiente molto meno di una palingenesi)
l’Italia resterà l’Italia: quel paese che sembra illustrare in modo perfetto la
tesi di Luhmann che vuole il fondamento della società non nei valori comuni,
non nelle norme o regole condivise, ma nel farsi autopoietico della stessa
comunicazione sociale. Nel caso italiano si tratterebbe di una comunicazione di
ordine familistico (a cui paradigma si potrebbe assumere la canonica,
ripetitiva, telefonata tra un figlio o una figlia e la mamma o il babbo) capace
d’improntare di sé l’intera vita sociale. L’Italia, specialmente negli ultimi
vent’anni, ha dimostrato che si può vivere con un Stato sociale debole, quasi
in assenza della politica, con un’economia ridotta ad arricchimento privato e
rapina. Ma una vita felice è un’altra cosa.
[Da “Outlet. Per una critica della ideologia
italiana”, n. 1, 2012]
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