Prendo dal Corsera di oggi una interessante
recensione dell’ultimo libro di Manuel Castells che analizza i movimenti
sociali sorti negli ultimi anni:
Fabio Chiusi - In crisi lo spontaneismo senza capi e basato
sul web
C’è un
grande assente nel nuovo libro di Manuel Castells che racconta nascita,
sviluppo e caratteristiche dei movimenti sociali nell’era di Internet (Networks
of Outrage and Hope, «Reti d’indignazione e speranza», appena
uscito negli Stati Uniti presso l’editore Polity): ed è la Rete così come la
conosciamo. Descrivendo il modo in cui piazze reali e virtuali si sono
intrecciate dalla «primavera araba» agli Indignados e Occupy Wall Street, il
sociologo spagnolo, tra gli studiosi di scienze sociali più citati al mondo e
autore di testi fondamentali come la trilogia The Information Age
(1996-98) e Communication Power (2009),
considera i social network «uno spazio di autonomia largamente al di là del
controllo di governi e aziende», il web «sicuro», «protetto», «libero», dove
«l’orizzontalità è la norma». E, soprattutto, una «piattaforma privilegiata per
la costruzione sociale di autonomia».
Nessuna
menzione dell’uso dei social media per identificare, sorvegliare e reprimere i
dissidenti. Nessuna distinzione tra libertà (limitata) del cyberspazio in un
regime autoritario com’era la Tunisia di Ben Ali — con i controlli proseguiti
anche dopo la sua caduta, con la scusa della lotta alla pedopornografia online—
e in democrazie, pur problematiche, come la Spagna e gli Stati Uniti. Per
venire a conoscenza, ma solo di passaggio, del problema delle richieste
governative a Twitter di ottenere tutti i dati delle comunicazioni private
degli attivisti del «99%» bisogna attendere pagina 175. E quando Castells
giustamente cita il blackout di Internet in Egitto, dimentica lo studio in cui
un ricercatore di Yale, Na-vid Hassanpour, mostra come l’effetto sia stato
quello di diffondere e ingigantire — e non soffocare — le rivolte. Segno che forse
la Rete non era così decisiva.
Del
resto, l’autore aveva appena finito di sostenere che gli alti tassi di
penetrazione di web e smartphone in Tunisia fossero la «precondizione» per lo
scoppio della rivoluzione. Ignorando che, come ha ricordato Andrea Matiz su
«Limes», Paesi come Libia, Yemen e Siria— teatro di vere e proprie guerre
civili— hanno le percentuali più basse. E che al contrario, poco o nulla è
accaduto in altri con tassi perfino più alti, come Qatar o Emirati Arabi.
Il
problema non è da poco, perché si insinua nel cuore della teoria di Castells
sul cambiamento sociale. Solo se Internet è il luogo elettivo della creazione
di «autonomia», uno spazio di libertà assoluta, può fungere da ponte tra
l’indignazione e la speranza — l’ipotesi principale del volume. Solo a questo
modo la reazione emotiva da cui scaturiscono le rivolte, ne è convinto
Castells, si può legare a nuovi modi di deliberazione e all’«utopia di una
nuova democrazia connessa». Forse l’autore, pur rigoroso nell’integrare studi
accademici ed esperienze sul campo, si è lasciato contagiare dal personale
entusiasmo — dichiarato in apertura — per i movimenti che si era proposto di
descrivere. O da quello che per lungo tempo li ha circondati. Perché a un anno
di distanza il clima è completamente cambiato.
Dalla
retorica sulla «primavera araba» si è passati a quella, uguale e contraria,
sull’«autunno di Al Qaeda». Gli indignati sono sostanzialmente spariti dopo
avere ottenuto l’unico risultato, lo scrive anche Castells, di affossare i
socialisti di Zapatero e Rubalcaba. Quanto a Occupy Wall Street, le forze
sembrano essersi disperse al punto che la notizia, nel giorno del primo
compleanno, non è stata il tentativo di ridefinirsi come un movimento per
trasformare la nostra comprensione della moralità del debito — riassunto
perfino in un manuale diffuso gratuitamente online — ma l’imponenza degli
arresti per i (pochi) manifestanti accorsi a Zuccotti Park. I problemi hanno
travolto gli entusiasmi sulle nuove forme e i nuovi processi che la «democrazia
reale» avrebbe dovuto assumere; un misto di assemblee generali infinite,
comitati e commissioni che si moltiplicano senza sosta e lunghissime e
improduttive discussioni non su che fare, ma su come decidere che fare.
Non
che Castells non ne parli. Anzi, la sua analisi è puntuale, precisa. Ma, ancora
una volta, sorvola sul potenziale distruttivo dell’essere senza leader, del
rigettare l’istituto della rappresentanza e di preferire il consenso al
principio di maggioranza.
Per
l’autore i movimenti hanno comunque vinto, perché -«il vero cambiamento è
avvenuto nella mente delle persone». E si affanna a mostrare, sondaggi alla
mano, che se oggi l’acuirsi delle disuguaglianze è percepito come un problema
(Castells riporta in vita l’espressione «lotta di classe»), è merito di
indignati e affini. Eppure gli stessi sondaggi mostrano una evidente
discrepanza tra un gradimento generico per quei movimenti e una condanna della
paralisi e del vuoto decisionale che hanno generato. Se il connubio di libertà
online e occupazione — e riappropriazione — di spazi fisici tramite le
acampadas mette le radici a una nuova democrazia praticandola, come
sostiene Castells, viene da chiedersi: come si pratica una democrazia
impraticabile? Come si coniuga la necessità di prendere decisioni nazionali e
internazionali in un contesto che richiede sempre maggiore tempestività con la
possibilità per chiunque di bloccare il consenso— e dunque l’azione — con un
semplice veto? Insomma, quando non hanno chiesto la testa del dittatore, questi
movimenti hanno voluto «tutto e niente», dice Castells. Per non compromettersi
con una politica che rifiutano o con la logica «produttivista» del detestato
capitalismo. A un anno di distanza, non sembra avere funzionato.
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