Tempo fa Claudio Magris, nel rispondere a chi gli chiedeva di spiegare le ragioni che lo spingevano a scrivere, ha detto: “Credo di scrivere per l’impossibile desiderio di fermare in qualche modo la vita fuggitiva […] Si scrive inoltre per fare ordine, per sdipanare il confuso e approssimativo groviglio della realtà che ci invischia e ci stordisce; qualche volta ci si sente liberati e qualche volta si resta impigliati in una ragnatela ancora più ambigua [..] Talora si scrive per difesa, per sgomberare e svuotare la realtà che ci soffoca, per erigere una barriera che la tenga a distanza. Altre volte si scrive per passione morale e per protesta, per dire di no a qualcosa d’intollerabile. Spesso forse scriviamo per distrarci dall’incapacità di vivere, dalla paura, dalla mancanza di persuasione”.
In queste sue parole mi sono riconosciuto, come in tante di quelle pubblicate domenica scorsa sul Corriere della Sera:
Claudio Magris, Le passioni sono fatte di numeri
Non so se John Banville conosca quei
frammenti di Schlegel — geniale inventore del Romanticismo e di una visione
dell’arte, della sua produzione e del suo consumo, ancor oggi sostanzialmente
imperante — in cui si dice che la mitologia classica era la fisica degli
antichi, l’espressione e la forma date alla conoscenza o all’intuizione della
natura. Dèi, semidèi, ninfe che sono il mare, il tuono, il ribollire delle
viscere della terra, il fiore che muore nel frutto, l’inafferrabile e segreta
metamorfosi delle cose. La mitologia moderna ovvero la fisica è andata ben più
a fondo nelle parvenze del mondo; conosce divinità e demoni infinitesimali, ben
più invisibili degli dèi che si sottraevano dissolvendosi in una nuvola. Se
nella spuma del mare si mostrava e si nascondeva la Nereide, per noi ogni
realtà e l’individuo stesso sono un aggregato di entità minime, «una forza, un
campo… spazi astratti che pulsano per l’interazione di particelle
incredibilmente piccole e definitivamente invisibili… frammenti di ogni cosa
che si spingono tutti l’una contro l’altra — un reticolo di particelle», come
scrive Banville in quell’autentico capolavoro narrativo che è Teoria
degli infiniti — titolo che non rende felicemente l’originale, Infinities
— tradotto peraltro con notevolissima efficacia poetica da Irene Abigail
Piccinini.
I mortali non sanno vedere le cose e
nemmeno se stessi nella loro realtà ed è ciò che permette loro di sopravvivere.
Oggi gli dèi sono gli infiniti, cui nel romanzo il protagonista — un grande
scienziato in coma, di cui la famiglia raccolta insieme per l’occasione attende
la morte — ha dedicato studi che hanno rivoluzionato le concezioni e le teorie
sull’universo, sulla vita, sul tempo e dunque sull’uomo stesso. Come gli dèi e
gli infiniti, pure gli uomini sono e non sono; la loro esistenza è un cozzare
di palle da biliardo e dadi che rotolano, un tessuto temporale bucherellato da
falle, discrepanze, asincronie, esprimibile con numeri — le equazioni
sull’infinito formulate dal protagonista Adam Godley, lo scienziato in coma —
piuttosto che con parole, accomodanti e vaghe metafore prive di rigore. Sono i
numeri gli dèi, il Fato della mitologia — della cosmologia, della cosmogonia—
contemporanea.
Eppure questi campi di energie, questi
reticoli di particelle e queste sinapsi di neuroni che sono gli uomini
s’innamorano, s’incantano dinanzi a un sorriso o a un prato, compiono azioni
dolorose e crudeli, si fraintendono, si distruggono come Dorothy, la prima
moglie di Adam. John Banville, grande narratore, è forse l’unico scrittore
capace di rappresentare e far vivere la mitologia antica e quella
contemporanea, gli dèi, le molecole e gli atomi, la frescura di un albero nella
sera e gli infiniti mondi che si compenetrano in ogni foglia e in ogni sua
nervatura. È uno dei pochissimi capaci di trasformare quei numeri (e
quei rapporti numerici di cui sono fatti il mondo, ed anche il pensiero e il
sentimento degli uomini) in carne e sangue, in passioni, in sensuale presenza
delle cose, in storie che hanno tutta la corposa realtà e la sottigliezza
psicologica del grande romanzo tradizionale e l’inquietante ambivalenza di
quello contemporaneo.
La Teoria degli infiniti è
una specie di De Rerum Natura, di epos lucreziano di oggi, e si inoltra
in un terreno narrativo in genere poco esplorato o orecchiato in facili
ricerche di effetto. Sino a un certo momento della storia c’è stata una
corrispondenza fra le conoscenze che le scienze della natura davano dell’uomo e
del mondo e la possibilità, per l’uomo medio anche digiuno di preparazione
scientifica, di venirne influenzato nel suo modo di vedere la realtà e, nel
caso dell’artista, di rappresentarla. Gli atomi di Epicureo diventano il modo
di sentire la natura e la vita del poema di Lucrezio; dopo Galileo e Copernico
si guardano, si percepiscono e si cantano le stelle in un modo nuovo, che pure
esprime fondamentali sentimenti umani di fronte alle vaghe stelle dell’Orsa; il
tempo assoluto, di cui parla Newton, parla anche a chi non è in grado di capire
le formule.
Questo dialogo, ancorché imperfetto e
confuso, fra le cosiddette «due culture», è durato forse sino alla teoria della
relatività, che — pur in modo pasticciato e scorretto— è entrata vagamente
nelle nostre teste e nel senso del nostro rapporto col mondo. Col
principio di indeterminazione e con la meccanica quantistica questo pur labile
rapporto si è interrotto. Non riusciamo a integrare nella nostra vita, nel
mondo così come lo viviamo e percepiamo, ciò che ci viene detto su qualcosa che
è ora un corpuscolo ora un onda, sulle stringhe, sul gatto contemporaneamente
vivo e morto e su tanti altri aspetti dell’universo e di noi stessi. Si è
aperto un baratro tra il mondo — e cioè noi — e noi stessi, fra il mondo
vertiginoso in cui viviamo e quello di cui facciamo esperienza con i nostri
sensi come se fosse il piccolo mondo antico.
Si è aperta così un’affascinante e
devastante crisi per la letteratura, incerta fra la necessità e l’impossibilità
di narrare veramente la vita divenuta inaccessibile ai sensi e alla ragione di
sempre e la menzogna di continuare a narrarla come se quel baratro non
esistesse; menzogna che caratterizza gran parte della produzione letteraria
corrente, tranne pochissimi autori — ad esempio, tra gli italiani, Giuseppe O.
Longo — che si cimentano creativamente con questa sfinge. È stato Musil, col
suo genio assolutamente unico, a porsi per primo la necessità di narrare questa
sconvolgente e mai conclusa scoperta del nuovo, del reale volto dell’uomo. Per
questo L’uomo senza qualità, iniziato circa centodieci anni fa, è
un romanzo del futuro, che parla non della vecchia Austria absburgica bensì
dell’oggi e soprattutto dell’inimmaginabile domani.
Banville, specialmente in questo romanzo,
è un Musil dei nostri giorni capace di raccontare gli atomi e gli dèi ossia gli
uomini. Non a caso si è sempre interessato a questi rapporti — astratti e
insieme carnali — fra letteratura e scienza, in romanzi quali ad esempio La
notte di Keplero o La lettera di Newton, sui quali aveva
attirato l’attenzione già molti anni fa Licia Governatori. Banville è un
narratore nato, sanguigno e asciutto, rigoroso e vitale, dotato di
un’imprevedibile originalità fantastica.
È pure autore di racconti polizieschi, col
nome di Benjamin Black — il suo «gemello nero», ha scritto sul «Corriere»
Roberta Scorranese — e a nome proprio, e sta facendo rivivere Marlowe l’eroe di
Chandler. Anche nei romanzi precedenti i suoi personaggi, come si dice nella Spiegazione
dei fatti, si trovano spesso sulla prua di una nave che affonda; per
molti di essi vivere vuol dire cadere, nascondersi, fuggire, perdersi, in modo
ora drammatico ora losco e ambiguo. È come se i suoi romanzi fossero narrati da
una voce oscura e impersonale, un doppio dell’autore attraverso il quale parla
la vita stessa, nel suo incanto e nel suo orrore. Banville è esperto del male,
dinanzi al quale gli uomini spesso soccombono, in un dolore opaco e livido ma
struggente, in cui tuttavia vive un indistruttibile sentimento di fraternità e
di pietas. Non a caso è un possente poeta del mare, paesaggio — nel romanzo
omonimo — di pienezza e di vuoto.
Nella Teoria degli infiniti
nulla resta astratto; tutto diviene racconto, vita, morte, delusione,
incertezza. La famiglia e alcuni amici che si raccolgono intomo a Adam, lo
scienziato morente e già entrato in quella specie di morte che si vuol vedere
nel coma, è una commedia umana in cui si scende, pur nell’amabile e ironico
rispetto delle convenzioni quotidiane, alla radice delle relazioni
fondamentali, il rapporto coniugale e quello fra genitori e figli, la
sessualità, la lontananza, l’amicizia, le beneducate maschere dell’«io
selvaggio». In una pagina memorabile, la voce che abbraccia e narra il tutto —
la voce del dio Ermes, una trovata non necessaria nell’atmosfera del libro —
cerca, alla foce di un fiume, di cogliere la soluzione di continuità, la linea
precisa dell’estuario, che divide il fiume dal mare. Un’ossessione che mi è
familiare e ricorrente: ho cercato di cogliere quella linea tra il Danubio e il
Mar Nero, fra il Tago e l’Atlantico, fra l’Isonzo e l’Adriatico… Banville fa
emergere con bruciante evidenza un albero come un corpo nudo, a far emergere la
vita di Adam che continua in quella non-vita che è il suo coma, altra
manifestazione della bizzarra combinazione di atomi, di dèi minimi, di cui è
fatto l’uomo. Banville, in questo senso, è un Lucrezio o un Musil di oggi, che
si tuffa nelle astrazioni con una plastica e musicale concretezza da poeta
antico, innamorato dei colori, dell’azzurro «frangibile» del cielo come di un
corpo femminile. «Non esistono uomini grandi — dice nel libro Adam — solo
uomini che di tanto in tanto fanno qualcosa di grande». Uno di questi è
l’autore della Teoria degli infiniti.
Corriere della Sera, 9 settembre 2012
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