Sul romanzo sperimentale /2. Filologia e rivoluzione
7 ottobre 2013
di Gianluigi Simonetti
[Ricorre in questi giorni il
cinquantesimo anniversario del convegno di Palermo che sancì la nascita
del Gruppo 63. Nella nuova serie della collana fuoriformato, pubblicata
dalla casa editrice L'orma, sta uscendo la ristampa del volume Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Contiene
gli atti del terzo convegno del Gruppo (Palermo, settembre 1965); la
prima edizione fu pubblicata da Feltrinelli nel 1966, a cura di Nanni
Balestrini. Nella ristampa 2013 è compresa un’ampia sezione intitolata Col senno di poi,
nella quale Andrea Cortellessa ha raccolto contributi dei partecipanti
al convegno e di alcuni scrittori e critici del nostro tempo. Ne fa
parte l'intervento di Gianluigi Simonetti che oggi presentiamo. Giovedì
scorso abbiamo pubblicato un intervento di Andrea Cortellessa sullo stesso tema].
1. A rileggerlo adesso, mezzo secolo dopo la sua prima pubblicazione, Il romanzo sperimentale
colpisce fin dalle prime pagine per un aspetto tutto sommato marginale;
un dettaglio che afferisce, direi, alla storia della società delle
lettere, più che alla teoria letteraria vera e propria. Mi riferisco
alla qualità formale del dialogo, evidente soprattutto nella seconda
parte, quella riservata al dibattito vero e proprio, che è del resto il
cuore del libro; allo stile compatto e civile in cui si sembra svolgersi
cinquant’anni fa il confronto delle idee. Compatto, perché questi
letterati prima di parlare si ascoltano, si studiano, tengono conto
delle idee e delle parole altrui nel proporre le proprie – in un modo al
quale l’autoreferenzialità e il narcisismo della comunicazione
contemporanea ci ha disabituati; civile, perché sempre rispettoso, anche
nei non rari momenti di scontro. Una civiltà che non è fondata tanto
sulla buone maniere (o sul quieto vivere, sul non pestarsi i piedi)
quanto al contrario su un ideale molto serrato di critica, verifica e
collaudo delle posizioni altrui. Il dissenso e la polemica esplicita –
anche tra intellettuali riuniti in un movimento coeso, e quindi già
d’accordo su molte cose, almeno in teoria – appare qui, ancora, come
forma concreta di collaborazione, e forse di amicizia: più o meno il
contrario del “dibattito” come monologo, autismo e rissa, oggi, sui
giornali o nei blog letterari.
Esemplare, al riguardo, l’apparato
fotografico che correda il volume; se le parole d’ordine della
neoavanguardia hanno fatto tanta paura a chi le ascoltava in diretta è
anche perché a pronunciarle erano, visibilmente, delle persone serie,
con i pregi e i difetti delle persone serie: quasi tutti distinti
giovani uomini con la faccia da professori, quasi tutti in giacca,
camicia e cravatta (fa eccezione soprattutto Enrico Filippini, vestito
come Don Johnson in Miami Vice, e con ben vent’anni di anticipo).
2. Ma cosa succederebbe se provassimo ad
applicare quel metodo a questo libro – e cioè se fossimo noi, alla
nostra altezza distanza storica, a verificare, a collaudare la tenuta
delle idee formulate allora? Il risultato è abbastanza paradossale. Il
concetto più resistente del convegno, e per certi versi anche il più
profetico o gravido di futuro, è anche il più distruttivo nei confronti
dell’ipotesi stessa di un romanzo sperimentale come lo intendeva il
Gruppo 63, tanto all’ala destra (Barilli) quanto all’ala sinistra
(Balestrini e Sanguineti). Ne parla Umberto Eco, quando descrive la reazione del pubblico palermitano alla proiezione della Verifica incerta
di Baruchello e Grifi, e annota che si è ormai formato, anzi si sta
formando in diretta, un codice, una tradizione dell’avanguardia,
destinata a trasformare fatalmente in même tutte le categorie autre
evocate da Barilli, inclusi i «meccanismi di effrazione» descritti da
Guglielmi rispettivamente nella prima e seconda relazione di apertura.
Non è una rimasticatura dell’idea novecentesca del ciclo fatale dello
sperimentalismo (dallo scandalo al museo, passando per il mercato);
neanche una celebrazione tardiva della nuova avanguardia voluta da
Sanguineti agli albori del Gruppo – quella virtuosisticamente cinica,
con arie di persuasione occulta e ambizioni spregiudicate di marketing.
È, più profondamente, l’intuizione di un passaggio ulteriore: la nascita
di un’avanguardia di massa, di un gusto che anticipa la futura
annessione al consumo dei territori formali della contestazione, e che
mette a rischio ogni forma di sperimentalismo “contro l’establishment” –
perché l’establishment parla o si avvia a parlare lo stesso linguaggio
frammentario, antigerarchico e analogico dell’avanguardia. Assistendo a
Palermo alla proiezione della Verifica incerta Eco scopre, in
se stesso e negli altri spettatori, l’affiorare di una degustazione
insieme ludica e critica dell’opera sperimentale; la pellicola ottenuta
montando spezzoni di vecchi film hollywoodiani destinati al macero
sovrappone denuncia e ammiccamento, dissacrazione e (forse
inconsapevole) consacrazione: «un piacevole filmico che veniva
rivalutato nello stesso istante in cui veniva messo in crisi» (così Eco
nella Prolusione a Il gruppo 63 quarant’anni dopo,
Pendragon 2005, p. 17). Nello sfarinamento di una distinzione netta tra
inaccettabile e gradevole, e tra sperimentale e canonico, quella che Eco
descrive, non senza un certo compiacimento, è l’ironia postmodernista
al lavoro, colta allo stato nascente, molto prima che anche in Italia
venisse chiamata così. Non «dopo di noi il diluvio», come scriveva
Sanguineti rivisitando le storiche riunioni del Gruppo (ivi, p. 89); il
diluvio postmoderno, in Italia, è cominciato proprio con la
neoavanguardia. Tanti altri indizi, nel libro, stanno lì a dimostrarlo
(si vedano per esempio le osservazioni di Barilli sul ritorno dei generi
di consumo, o le proposte di Balestrini sul romanzo come «gioco
autosufficiente», o quelle di Manganelli sulla letteratura come
menzogna).
3. Nelle intenzioni dei suoi autori La verifica incerta
rappresentava innanzitutto, come sappiamo, un passo verso la pratica di
un linguaggio innovativo. Si cerca un linguaggio nuovo quando si crede
che occorra «una nozione liberata di realtà» (Guglielmi), quando cioè si
pensa che il mondo possa anzi debba essere cambiato, e che il
cambiamento valga la rinuncia al linguaggio del passato, che è come
dire a una parte di se stessi. Ogni moderno progetto di rifondazione
d’avanguardia poggia non solo su una spinta creativa, ma pure
sull’urgenza di una palingenesi che per attuarsi sia disposta a tutto –
anche a fare in modo, come sostiene ancora Guglielmi (elogiando Capriccio italiano)
che il valore critico diventi immediatamente valore poetico; che la
forza delle idee venga prima della forza delle opere (perché le opere,
anche e soprattutto le grandi opere, non sono fatte solo di idee).
Su questo, secondo me, la neoavanguardia si sbagliava; lo sperimentalismo letterario, in realtà, non rappresenta di per sé
un gesto politico. Non solo non lo rappresenta oggi, ma non lo
rappresentava neppure allora. Dal ’65 ai nostri giorni, in più, la fede o
la speranza in un mondo radicalmente diverso si è molto logorata; oggi
che alla rivoluzione non crede nessuno – almeno non in questa parte del
pianeta – e che la libertà ci fa più che altro paura, siamo ancora meno
disposti di prima a pensare che cambiare il linguaggio significhi
cambiare il mondo. La consideriamo una pretesa molto nobile, ma comunque
niente più che una pretesa, fondata sulla riduzione arbitraria del
mondo al linguaggio, e dello scrittore a scrivente, a tecnico, a
chirurgo. «E invece il nostro mestiere, come si è detto, è più modesto»,
annota saggiamente Pagliarani, «il chirurgo rimanendo quella signora
che non è più tanto di moda nominare: la storia, la società nella
storia».
L’aspirazione tecnocratica della
neoavanguardia si esprime da un lato nella volontà di una critica
robusta delle posizioni non sperimentali, dall’altro in una rinnovata
esigenza di invenzione formale: due spinte opposte ma complementari,
benissimo documentate dal convegno di Palermo. Eppure le vere invenzioni
formali sono rare, e non è affatto detto che coincidano con la grande
letteratura. Il Gruppo 63 conosceva bene, e ha contribuito a divulgare
in Italia, la tradizione dello sperimentalismo primonovecentesco (Joyce
soprattutto, Kafka, in parte Proust); ma ha forse sbagliato a sentirsi
in obbligo di inventare, e di commissionare al prossimo, forme sempre
nuove, avanzate tecnicamente. L’enfasi sul laboratorio, la fiducia nel
«lavoro sul linguaggio», la scommessa sul «romanziere artificiale», e
sulla letteratura come «meccanismo puramente verbale» (Balestrini) –
sono aspetti del libro che inibiscono una pratica del romanzo come
conoscenza “dal vero”, anzi come conoscenza tout court, per
esigere invece una continua, sfibrante autocritica, e un’infinita dose
di utopia: due cose che al romanzo non fanno tanto bene. Tutto questo,
più che provocare, ha intimidito chi negli anni Sessanta e Settanta non
si sentiva critico letterario o scrittore sperimentale, ma scrittore e
basta; quindi ha funzionato, dal punto di vista della neovanguardia; ma
ha anche finito col fare, oscuramente, il gioco del nemico, cioè della
«mercificazione estetica» (Sanguineti in Sopra l’avanguardia [1963], in Gruppo 63, Critica e teoria,
a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielmi, Feltrinelli 1976, p. 337);
quella mercificazione che proprio negli anni d’oro del Gruppo 63
imparava a scommettere sull’arte come gioco e come novità.
E qui mi sembra di ravvisare un secondo paradosso del Romanzo sperimentale.
Mentre tutti o quasi tutti, nella riunione di Palermo, sembrano
aspettare l’avvento imminente di un mondo senza schemi (di cui la
rottura degli schemi formali obsoleti propugnata dall’avanguardia si
vuole annuncio e prefigurazione), l’unico a far notare che nonostante i
cambiamenti politici in corso la realtà si stava rimpicciolendo, e che
un’alternativa non solo politica ma anche immaginativa restava
invisibile, l’unico, dicevo, è forse il meno culturalmente raffinato del
gruppo, il meno professore, direi anche il meno influente e ascoltato.
Furio Colombo: «Non esiste per un mondo alternativo e per il mondo nel
quale ci stiamo muovendo e col cui materiale stiamo costruendo una
immaginazione socialista, un’immaginazione di un altro mondo, di un
altro tipo di rapporti umani, di un’altra bellezza e di un’altra morale i
cui punti originanti siano differenti da quelli nel cui ambito [la
società del consumo] continuiamo a vivere e operare».
Cinquant’anni dopo, da questo punto di vista, le cose non sono poi così cambiate – se non per un deficit
ulteriore di immaginazione socialista, e per un netto incremento di
nichilismo. Ma il problema della neoavanguardia non è la sconfitta
politica, è l’errore teorico – la scelta di collegare effrazione formale
e rivoluzione, se la prendiamo sul serio, si rivela sbagliata anche
quando la rivoluzione, per ipotesi, arriva davvero. Non mi pare che la
neoavanguardia si sia mai veramente spinta a creare quella bellezza autre che
cercava o diceva di cercare; non è in quell’ambito che vanno rinvenuti i
(pochi) capolavori riconducibili al movimento, come ad esempio Fratelli d’Italia.
In compenso la neovanguardia ha contribuito a brevettare, per
antifrasi, un’idea di bellezza assolutamente moderna, adeguata alla
«società del consumo» di cui parla Colombo – una bellezza non pedagogica
e non effusiva come quella che il Gruppo 63 rimproverava al romanzo
classico e alla lirica post-romantica. Al loro posto, un romanzo-meccano
e una poesia-merce che oscillano tra divertimento e senso di colpa, e
che tagliando i ponti con la tradizione l’hanno a loro modo
cristallizzata, resa eternamente disponibile al trovarobato e
all’assemblaggio. In questo senso, un’idea di letteratura più in
anticipo, una genealogia più solida di quello che all’epoca si potesse
immaginare. E quindi, in sintesi, ha di nuovo ragione Umberto Eco (nella
citata Prolusione del 2003): il Gruppo 63 non ha fatto rivoluzioni; ha fatto filologia.
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