FRANCESCO CEVASCO - LA PROFEZIA AMARA DI CALVINO
Questa mattina di domenica, l’io narrante del raccontino che segue prende il treno, ambiziosamente definito inter-city, Milano-Ventimiglia. E racconta: «Alzo gli occhi dal libro (leggo sempre, in treno) e ritrovo pezzo per pezzo il paesaggio — il muro, il fico, la noria, quell’attrezzo che tira su l’acqua dal torrente, le canne, la scogliera — le cose viste da sempre di cui soltanto ora, per esserne stato lontano, mi accorgo: questo è il modo in cui tutte le volte che vi torno, riprendo contatto con il mio paese, la Riviera… Però ogni volta c’è qualcosa che mi interrompe il piacere di questo esercizio… Un fastidio che non so bene neanch’io… Sono le case: tutti questi nuovi fabbricati che tirano su, casamenti cittadini di sei otto piani, a biancheggiare massicci come barriere di rincalzo al franante digradare della costa, affacciando più finestre e balconi che possono verso mare. La febbre del cemento s’è impadronita della Riviera: là vedi il palazzo già abitato con le cassette dei gerani tutti uguali ai balconi, qua il caseggiato appena finito, coi vetri segnati a serpenti di gesso che attende le famigliole lombarde smaniose dei bagni; più in là ancora un castello d’impalcature e, sotto, la betoniera che gira e il cartello dell’agenzia per l’acquisto dei locali… Gli edifici nuovi fanno a chi monta sulle spalle dell’altro… A San Remo, un tempo circondata da giardini ombrosi d’eucalipti e magnolie dove tra siepe e siepe vecchi colonnelli inglesi e anziane miss si prestavano edizioni Tauchnitz e annaffiatoi, ora le scavatrici ribaltano il terreno fatto morbido dalle foglie marcite o granuloso dalle ghiaie dei vialetti, e il piccone dirocca le villette a due piani, e la scure abbatte in uno scroscio cartaceo i ventagli delle palme Washingtonia, dal cielo dove si sarebbero affacciate le future soleggiate- tricamere-servizi. Quando salgo alla villa, un tempo dominante la distesa dei tetti della città nuova e i bassi quartieri della marina e il porto, più in qua il mucchio di case muffite e lichenose della città vecchia, tra il versante della collina a ponente dove sopra gli orti si infittisce l’oliveto, e, a levante, un reame di ville e alberghi verdi come un bosco, sotto il dosso brullo dei campi di garofani scintillanti di serre fino al Capo: ora più nulla, non vedo che un sovrapporsi geometrico di parallelepipedi e poliedri, spigoli e lati di case, di qua e di là, tetti, finestre, muri ciechi per servitù contigue con solo i finestrini smerigliati dei gabinetti uno sopra l’altro».
È arrivato il momento: l’io narrante deve confessare le sue colpe. È sceso dal treno, alla stazione di San Remo (Calvino scrive così, San Remo, e l’io narrante non osa contraddirlo). È stato costretto a chiudere le pagine del libro da cui ha spudoratamente copiato la descrizione della Riviera- Ligure-di-Ponente. Quel libro si chiama La speculazione edilizia. È stato pubblicato esattamente cinquant’anni fa. Ma quello che si vede dal finestrino del treno in questa domenica di cinquant’anni dopo è la stessa identica cosa che Calvino vedeva (o immaginava?) mezzo secolo addietro.
E anche adesso ci sono dei problemi, a San Remo. Il Comune, come tutti i Comuni d’Italia, non ha soldi. E se vuole fare un asilo o una palestra per i ragazzi, pensa di tirare su qualche soldo concedendo qualche altro diritto di costruire «parallelepipedi e poliedri», e magari anche un «grattacielino» di nove piani. Niente di grave, per carità. Ma è come togliere un’altra fetta di respiro a una città che s’è vista già amputare (ai tempi di Calvino) un polmone.
Un esempio: a San Remo c’è un ex convento di monache, le suore cappuccine di Madre Rubatto, che si trattavano bene e quindi avevano un bell’edificio di cinque piani quasi in fondo al corso degli Inglesi, una piccola strada molto chic che scende dalla collina verso il centro e finisce in quel gioiello urbanistico che si chiama piazza San Bernardo. Bontà loro, o del Comune, o dei privati che ora sono proprietari del palazzotto, lì c’è anche una scuola per bambini piccoli. La scuoletta resterà, ma il convento guadagnerà due piani in altezza e diventerà un bel 40 appartamenti da almeno diecimila euro a metro quadrato. Il Comune ha approvato… «Ma non finisce qui — dice Daniela Cassini, libraia, consigliera comunale di minoranza, ex assessore alla Cultura —. Ora la parola passa alla Sovrintendenza ai Beni ambientali. Comunque aveva ragione Calvino, cinquant’anni fa raccontava della demolizione di un convento…». Proprio di quel convento: Calvino, che nel libro si fa chiamare Quinto ma è lui, fa parlare la madre: «Adesso ti faccio vedere le novità…». Calvino sale sul terrazzo della sua Villa Meridiana, la casa nel verde a mezza collina, e la madre gli dice: «Le monache, anche le monache, ti ricordi i giardini coi bambù che si vedevano là sotto? Ora guarda che scavo, chissà quanti piani vogliono fare con quelle fondamenta!».
Probabilmente le suore lasceranno il posto a ottimi nuovi «foresti», gente che arriva soprattutto dalla Lombardia e dal Piemonte (anche russi, non quelli aristocratici di una volta che a San Remo hanno una delle chiese più eleganti delmondo,ma quelli della volgarità dei soldi; questo Calvino non lo aveva previsto). Occuperanno anche i sei piani di via Barabino, vista mare e pista ciclabile sotto il naso; oppure qualcuno troverà interessante guadagnare i piani più alti del «grattacielino» dell’ex area industriale Sati, vicino a quel cimitero che non ha niente di lugubre, anzi sembra un giardino inglese; meglio di tutto la collina che precipita verso il Golfo Tre Ponti, dove il piccolo Calvino andava a fare il bagno con i genitori: se uno non farà caso di stare in mezzo a 41 mila metri cubi di lottizzazione, avrà una stupenda vista sul mare.
D’altra parte, che cosa volete? Lasciare sulla collina quel pezzetto di verde avanzato ai danni degli anni Cinquanta- Sessanta-Settanta-Ottanta, dove ci sono soltanto ex serre di fiori (San Remo, la capitalemondiale dei fiori!), arbusti che crescono al di fuori del controllo dell’essere umano, lugubri reperti genetici di rose, gerani, tulipani, animali che vagano dal tramonto all’alba impadronendosi di un territorio che potrebbe essere più razionalmente umano; e quindi ragionevolmente lottizzato?
Detto che Calvino era, evidentemente, un preveggente, è doveroso aggiungere che era anche un po’ bugiardo: introduce il suo libro La speculazione edilizia con queste parole: «I luoghi, i fatti, le persone, i nomi di questo racconto sono assolutamente fantastici e non possono esservi trovati riferimenti con la realtà se non per caso». Nel romanzo, Calvino per dire San Remo scrive tre asterischi: ***. Ma poi confesserà di aver fatto finta che San Remo fosse i tre asterischi e che le persone citate, avvocati, notai, ingegneri, imprenditori, intellettuali, ex partigiani, mamme, parenti non fossero loro.
Ben chiaro che La speculazione edilizia parla della speculazione edilizia di San Remo, ma bisogna un po’ capirlo questo libro. L’io narrante ruba ancora a Calvino le parole di bocca: «Di solito mi piace raccontare storie di gente che riesce in quel che vuol fare (e di solito i miei eroi vogliono cose paradossali, scommesse con se stessi, eroismi segreti) non storie di fallimenti o smarrimenti. Se nella Speculazione edilizia ho raccontato la storia di un fallimento (un intellettuale che si costringe a fare l’affarista, contro tutte le sue più spontanee inclinazioni), l’ho raccontata per rendere il senso di un’epoca di bassa marea morale. Il protagonista non trova altro modo di sfogare la sua opposizione ai tempi che una rabbiosa mimesi dello spirito dei tempi stessi, e il suo tentativo non può che essere sfortunato, perché in questo gioco sono sempre i peggiori che vincono, e fallire è proprio quello che lui in fondo desidera».
Ma siccome il libro è semiautobiografico (cioè autobiografico, Calvino si nascondeva dietro la sua stessa ombra), quel personaggio di Quinto (cioè lui, ex partigiano, abbastanza comunista, molto intellettuale, incapace perché benestante di pensare ai soldi, a come farne di più) diventa lo specchio in cui Calvino deforma la sua delusione per noi italiani di ieri (e di oggi). Avrà pure capito con cinquant’anni d’anticipo la vergogna della speculazione edilizia, ma con altrettanti anni di anticipo ha egualmente capito quella «bassa marea morale». Non bisogna dimenticare che Calvino era «moralmente ligure» e quindi diceva: «I liguri sono di due categorie: quelli attaccati ai propri luoghi come patelle allo scoglio; e quelli che per casa hanno il mondo e dovunque siano si trovano a casa loro. Ma anche i secondi, e io sono dei secondi, tornano regolarmente a casa, restano attaccati al loro paese non meno dei primi».
Infatti: «San Remo continua a saltar fuori nei miei libri, nei più vari scorci, soprattutto vista dall’alto, ed è soprattutto presente in molte Citta Invisibili», diceva. E Calvino, San Remo la guardava davvero dall’alto. La sua casa, Villa Meridiana, era appesa sulla collina. «Lui — come ricorda Loretta Marchi, direttrice della biblioteca di San Remo — tracciava un confine: da qui in su ci sono le terre che stanno a cuore a mio padre che fa le sue ricerche botaniche; da qui in giù c’è il resto del mondo: io guardo quello».
Calvino si chiamava Italo perché lo aveva deciso la madre Eva Mameli che aveva sposato Mario Calvino. Erano due scienziati, laici, democratici, libertari, ovviamente non fascisti. Inseguendo i loro studi erano finiti a Cuba. Sarebbero tornati in Italia, a San Remo, quando il piccolo aveva due anni, ma le previsioni erano altre: «Immaginando di stare a Cuba per chissà quanto tempo, e prevedendo di farmi crescere in terra straniera, miamamma volle chiamarmi Italo perché non scordassi la patria degli avi. Intanto in patria quel mio nome suonava bellicosamente nazionalista».
Da Villa Meridiana, seguendo il suo istinto di «andare giù» verso la città dei rumori, delle piazze e degli odori, imboccava la strada che lo portava alla Pigna, il cuore della San Remo storica. Il centro antico c’è ancora, ma, forse, oggi, non ha lo stesso fascino «selvatico» (come dicono i liguri) che il giovane studente Calvino sapeva cogliere quando andava a scuola: «Per arrivare in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasenti le pareti fredde (…), giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantato dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli».
In quella casa lassù, quella dei Calvino, c’era anche un ragazzo che faceva il giardiniere. Si chiama Libereso Guglielmi, aveva i capelli lunghi neri, amava la natura e per sedurre le ragazze si faceva inutilmente percorrere il corpo da formiche e api. Oggi che ha i capelli bianchi dice: «Villa Meridiana aveva un giardino… adesso quelli che erano i giardini di San Remo sono parcheggi. Villa Meridiana era una villa, adesso case da affittare».
Corriere della Sera, 6 ottobre 2013
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Per farsi una prima idea di cosa fosse il paesaggio siciliano prima dell'arrivo dei "barbari" basta leggere Sciascia e Consolo.
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