21 giugno 2017

CAPRE E CAPRONI

Teatro andromeda, S. Stefano di Quisquina


       Non abbiamo aspettato le tracce di quest'ultimo esame di stato per scoprire Giorgio Caproni! Chi ci segue sa che, anche in questo blog, abbiamo dedicato lo spazio che merita al poeta livornese, amico di Pasolini. Oggi, comunque, torniamo a farlo anche per prendere le distanze dalle tante voci stonate che ne hanno parlato. (fv) 



Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.


Giorgio Caproni,1972, dalla raccolta Res amissa




"Res amisa" contiene veramente la ragione ultima della poesia di Caproni. Poiché ora la poesia stessa è divenuta, per il vecchio poeta, la "res amissa" in cui è impossibile distinguere fra natura e grazia, abito e dono, possesso e espropriazione. In bilico, in una sorta di mimica trascendentale, fra l'aprosodia del canto interrotto e i troppo armonici versicoli, essa ha raggiunto ormai una regione per sempre al di là del proprio e dell'improprio, della salvezza e della rovina. Questa è l'eredità irricevibile che la disappropriata maniera di Caproni lascia alla poesia italiana, e che nessun beneficio di inventario permetterà di eludere. Come un animale che abbia subito una mutazione che lo porta al di fuori dei limiti della specie, senza che sia possibile assegnarlo ad alcun altro phylon, né sapere se riuscirà mai a trasmettere ad altri la sua mutazione, la poesia, a un tempo irriconoscibile e troppo familiare, si è fatta ora per noi definitivamente res amissa. Per questo, di tutti i libri di poesia che si continuano e si continueranno certamente a pubblicare, è impossibile dire se anche uno soltanto potrà essere all'altezza dell'evento che qui si è compiuto. Possiamo solo dire che qui qualcosa finisce per sempre e qualcosa ha inizio, e che ciò che comincia, comincia soltanto in ciò che finisce 
(dalla prefazione di Giorgio Agamben)


«Non ho mai fatto il poeta di professione. Non ho mai capito come lo si possa fare, giacché ho sempre pensato che l’esser poeti sia, prima di tutto, una qualità quasi fisiologica… Non ho segreti di mestiere da svelare, perché per la poesia non ce ne sono, e ognuno sceglie gli strumenti che gli tornano meglio.
Poesia significa in primo luogo libertà: libertà e disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona; di fronte a ogni forma di irreggimentazione o, peggio, di massificazione.
Il poeta è un minatore: va giù nelle viscere dell’io e, miracolosamente, torna alla superficie con poche, lucenti, pepite».


Giorgio Caproni, dal discorso tenuto all'Università di Urbino nel 1984, pubblicato poi in "La scatola nera" nel 1996


E chiudo questa pagina con un'altra delle sue perle:
  




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