arnaldo momigliano
Arnaldo Momigliano. Lezioni d'ironia
Maria Corti
Era il settembre del
1938. Arnaldo Momigliano, trentenne, snello, biondiccio, da poco
chiamato alla cattedra di Storia antica dell'Università di Torino,
villeggiava a Courmayeur con la giovane moglie e la bimba Laura,
futura italianista dell'Università di Londra. Era una fine d'estate
mite e dolcissima quando, fulmine a ciel sereno o bomba, giunse dai
giornali la notizia che professori e studenti ebrei erano esclusi
dalle scuole italiane. Con Arnaldo Momigliano c'erano il linguista
Benvenuto Terracini, il matematico Alessandro Terracini, il medico
Gel
caso spettatrice di una scena esemplare, che per tutta la vita mi
lasciò un segno: l'assenza completa di ogni concessione al
drammatico-retorico, al patetico, al morboso, conseguenza in quel
gruppo di intellettuali di una lucida comprensione dell'abisso che
separava la cultura dalla barbarie nazifascista. Naturalmente ognuno
degli intellettuali reagì in conformità al suo temperamento e al
suo senso del vivere: Arnaldo Momigliano, ricordo bene, assunse un
atteggiamento di distaccata e insieme feroce ironia. Un giorno,
alludendo alla toponomastica del gruppo del Bianco disse che i
fascisti andavano spediti al Mont Maudit (monte maledetto)
perché Le Doigt de Dieu (il dito di Dio) li giudicasse. Fu il
primo del gruppo a prendere la via dell'esilio: cattedra
all'Università di Londra. Arnaldo Momigliano, oltre ad essere uno
storico d'eccezione, aiuseppe Levi, padre di Natalia Ginzburg, e altri illustri
protagonisti della cultura italiana.
Giovanissima, fui in quveva una altrettanto eccezionale capacità di
assorbire la cultura in tutte le sue manifestazioni, a partire da
quelle linguistiche. A uno studente, che una volta gli chiese se
avesse imparato il russo per leggere le opere degli storici
antichisti rispose: “Niente affatto. Per capire meglio il mondo”.
Momigliano apparteneva a quella generazione, che purtroppo non pare
abbia oggi un grande seguito, di studiosi poliglotti: oltre al russo
e ovviamente, al greco e latino, egli conosceva inglese, tedesco,
ebraico, ma la vastità dell' orizzonte linguistico non lo portava a
sottovalutare la sua identità di italo-piemontese; sicché come
Jakobson soleva dire che parlava il russo in sette lingue, Momigliano
avrebbe potuto affermare che parlava italo-piemontese in sei lingue.
Avendo preso l'abitudine
di pensare quotidianamente in due lingue, l'italiano e l'inglese, era
in grado di produrre in entrambe dei gioielli stilistici, dagli avvii
ironici a sorpresa delle sue conferenze (come quella famosa che
iniziava con l'annuncio ai signori e alle signore che l'impero romano
era caduto) all'eleganza lucida della struttura dimostrativa. Di
fronte al rumoroso concerto generale della civiltà contemporanea,
che potrebbe suggerire allo storico di non uscire dal proprio ambito
di ricerca, ecco la lezione prima di Momigliano: la straordinaria
curiosità, il bisogno quasi assillante di affiancare alla
specializzazione i suggerimenti della interdisciplinarità, di tenere
sempre d' occhio le modificazioni apportate alla cultura dagli uomini
di tutti i paesi e da tutte le branche del sapere. Credo che
Momigliano sia stato uno dei più vivaci viaggiatori,
familiarizzatosi presto con l'universo mondo: dal Medio Oriente
all'Europa dell'Ovest e dell'Est, all'America del Nord e del Sud.
Andava in giro con vestiti trasandati, anche se in origine belli,
come se il suo corpo se li tenesse addosso con fastidio: le tasche
sempre rigonfie, piene di foglietti, blocchetti, appunti, annotazioni
varie. Quando, tra un aereo e l'altro, stava qualche ora a Milano e
faceva un salto a salutarmi, non si sedeva neppure ma passava il poco
tempo a disposizione guardando e sfogliando nella mia biblioteca gli
ultimi libri arrivati di critica, di narrativa, di poesia, tirando
fuori dalle tasche un foglietto e prendendo nota. Il tutto con
un'attenzione e una acribia sorprendenti nei riguardi di testi
letterari; già, ma sorprendenti solo per chi non lo conosceva.
Il fatto è che
Momigliano era uomo di straordinaria e vitale erudizione, nutrita e
valorizzata da una fortissima memoria. Un giorno, a chi si stupiva
che Leo Spitzer a proposito del Trionfo d'amore del Petrarca
avesse ricordato analogo motivo in Ovidio, alzatosi e preso Ovidio da
uno scaffale, trovò immediatamente e lesse i versi col richiamo al
trionfo. L'erudizione memorizzata, segnale di grande vitalità
dell'intelletto, è un'altra qualità insegnataci dai giganti della
cultura e che si fa sempre più rara nel piatto clima d' oggi,
frettoloso e superficiale, che anzi si distingue spesso per citazioni
erronee, cioè per finta erudizione.
Momigliano era per natura
e costituzione uno storico vero, cioè aperto a tutto, anche alle
disarmonie e contraddizioni del vivere. Più di una volta lo sentii
rimproverare a giovani storici, imbevuti di teorie astratte per cui i
loro saggi si somigliano come gocce d'acqua, l'assenza di una
comprensione del reale, che vuol dire completa comprensione della
cosa di cui si parla. Una volta se la prese con un critico musicale
che nella sua vita non aveva mai toccato uno strumento.
Gli episodi richiamati da
questo narratore, colmo di umorismo e magari di sana cattiveria,
erano esilaranti. Naturalmente nella sua casa di Londra era quasi
impossibile muovere i piedi nelle stanze, i cui pavimenti erano
colmi, come le pareti, di libri, incartamenti, stampe. Egli era di
quei rari uomini che sanno trasformare la quantità delle
informazioni in qualità. In altre parole aveva quella facoltà,
grazie alla quale le esperienze accumulate nel corso di una vita
diventano un qualcosa di autonomo che sopravvive per noi e ci aiuta a
superare il senso di vuoto lasciato da una grande personalità.
“la Repubblica”, 3
settembre 1987
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