12 giugno 2017

L' IRONIA DI A. MOMIGLIANO

arnaldo momigliano
 

Arnaldo Momigliano. Lezioni d'ironia 

Maria Corti

Era il settembre del 1938. Arnaldo Momigliano, trentenne, snello, biondiccio, da poco chiamato alla cattedra di Storia antica dell'Università di Torino, villeggiava a Courmayeur con la giovane moglie e la bimba Laura, futura italianista dell'Università di Londra. Era una fine d'estate mite e dolcissima quando, fulmine a ciel sereno o bomba, giunse dai giornali la notizia che professori e studenti ebrei erano esclusi dalle scuole italiane. Con Arnaldo Momigliano c'erano il linguista Benvenuto Terracini, il matematico Alessandro Terracini, il medico Gel caso spettatrice di una scena esemplare, che per tutta la vita mi lasciò un segno: l'assenza completa di ogni concessione al drammatico-retorico, al patetico, al morboso, conseguenza in quel gruppo di intellettuali di una lucida comprensione dell'abisso che separava la cultura dalla barbarie nazifascista. Naturalmente ognuno degli intellettuali reagì in conformità al suo temperamento e al suo senso del vivere: Arnaldo Momigliano, ricordo bene, assunse un atteggiamento di distaccata e insieme feroce ironia. Un giorno, alludendo alla toponomastica del gruppo del Bianco disse che i fascisti andavano spediti al Mont Maudit (monte maledetto) perché Le Doigt de Dieu (il dito di Dio) li giudicasse. Fu il primo del gruppo a prendere la via dell'esilio: cattedra all'Università di Londra. Arnaldo Momigliano, oltre ad essere uno storico d'eccezione, aiuseppe Levi, padre di Natalia Ginzburg, e altri illustri protagonisti della cultura italiana. Giovanissima, fui in quveva una altrettanto eccezionale capacità di assorbire la cultura in tutte le sue manifestazioni, a partire da quelle linguistiche. A uno studente, che una volta gli chiese se avesse imparato il russo per leggere le opere degli storici antichisti rispose: “Niente affatto. Per capire meglio il mondo”. Momigliano apparteneva a quella generazione, che purtroppo non pare abbia oggi un grande seguito, di studiosi poliglotti: oltre al russo e ovviamente, al greco e latino, egli conosceva inglese, tedesco, ebraico, ma la vastità dell' orizzonte linguistico non lo portava a sottovalutare la sua identità di italo-piemontese; sicché come Jakobson soleva dire che parlava il russo in sette lingue, Momigliano avrebbe potuto affermare che parlava italo-piemontese in sei lingue.
Avendo preso l'abitudine di pensare quotidianamente in due lingue, l'italiano e l'inglese, era in grado di produrre in entrambe dei gioielli stilistici, dagli avvii ironici a sorpresa delle sue conferenze (come quella famosa che iniziava con l'annuncio ai signori e alle signore che l'impero romano era caduto) all'eleganza lucida della struttura dimostrativa. Di fronte al rumoroso concerto generale della civiltà contemporanea, che potrebbe suggerire allo storico di non uscire dal proprio ambito di ricerca, ecco la lezione prima di Momigliano: la straordinaria curiosità, il bisogno quasi assillante di affiancare alla specializzazione i suggerimenti della interdisciplinarità, di tenere sempre d' occhio le modificazioni apportate alla cultura dagli uomini di tutti i paesi e da tutte le branche del sapere. Credo che Momigliano sia stato uno dei più vivaci viaggiatori, familiarizzatosi presto con l'universo mondo: dal Medio Oriente all'Europa dell'Ovest e dell'Est, all'America del Nord e del Sud. Andava in giro con vestiti trasandati, anche se in origine belli, come se il suo corpo se li tenesse addosso con fastidio: le tasche sempre rigonfie, piene di foglietti, blocchetti, appunti, annotazioni varie. Quando, tra un aereo e l'altro, stava qualche ora a Milano e faceva un salto a salutarmi, non si sedeva neppure ma passava il poco tempo a disposizione guardando e sfogliando nella mia biblioteca gli ultimi libri arrivati di critica, di narrativa, di poesia, tirando fuori dalle tasche un foglietto e prendendo nota. Il tutto con un'attenzione e una acribia sorprendenti nei riguardi di testi letterari; già, ma sorprendenti solo per chi non lo conosceva.
Il fatto è che Momigliano era uomo di straordinaria e vitale erudizione, nutrita e valorizzata da una fortissima memoria. Un giorno, a chi si stupiva che Leo Spitzer a proposito del Trionfo d'amore del Petrarca avesse ricordato analogo motivo in Ovidio, alzatosi e preso Ovidio da uno scaffale, trovò immediatamente e lesse i versi col richiamo al trionfo. L'erudizione memorizzata, segnale di grande vitalità dell'intelletto, è un'altra qualità insegnataci dai giganti della cultura e che si fa sempre più rara nel piatto clima d' oggi, frettoloso e superficiale, che anzi si distingue spesso per citazioni erronee, cioè per finta erudizione.
Momigliano era per natura e costituzione uno storico vero, cioè aperto a tutto, anche alle disarmonie e contraddizioni del vivere. Più di una volta lo sentii rimproverare a giovani storici, imbevuti di teorie astratte per cui i loro saggi si somigliano come gocce d'acqua, l'assenza di una comprensione del reale, che vuol dire completa comprensione della cosa di cui si parla. Una volta se la prese con un critico musicale che nella sua vita non aveva mai toccato uno strumento.
Gli episodi richiamati da questo narratore, colmo di umorismo e magari di sana cattiveria, erano esilaranti. Naturalmente nella sua casa di Londra era quasi impossibile muovere i piedi nelle stanze, i cui pavimenti erano colmi, come le pareti, di libri, incartamenti, stampe. Egli era di quei rari uomini che sanno trasformare la quantità delle informazioni in qualità. In altre parole aveva quella facoltà, grazie alla quale le esperienze accumulate nel corso di una vita diventano un qualcosa di autonomo che sopravvive per noi e ci aiuta a superare il senso di vuoto lasciato da una grande personalità.

“la Repubblica”, 3 settembre 1987

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